La musica come telecomanda Sanremo
Quarta serata.
di Ambrosia J.S. Imbornone
L’addizione o la moltiplicazione sono operazioni senz’altro positive per i capitali. È opinabile invece quanto giovino nella musica. Persino gli arrangiamenti baroque-pop devono avere un loro equilibrio interno, una loro misura oltre la quale il fiorire dei suoni non è tratto di stile, ma solo eccesso da biasimare. Discutibile è anche quanto convenga dare visibilità continua alle stesse canzoni, dando loro un’occasione di crescita, ma anche rischiandone una logorante sovraesposizione. Durante la quarta serata le canzoni della sezione Artisti trovano il loro terzo ascolto, i rispettivi cantanti sono alla quarta apparizione, in duetti che contraddittoriamente sono già lì per dare una nuova veste ai quei brani di cui forse nelle intenzioni si vorrebbe facilitare la memorizzazione. Forse con una cattiva interpretazione del detto “la notte è giovane”, invece le nuove proposte sono sempre il fanalino di coda della serata: il secondo passaggio televisivo dei Giovani, garantito solo ad un numero dimezzato del già esiguo totale, è sempre a ridosso della fatidica mezzanotte, con il rischio che la minorenne di turno vinca o non vinca quasi in contumacia, nascosta allo sguardo dei fotografi.
I duetti dei Big a volte sono semplici esibizioni con ospiti: questo vale per Neri Marcorè che si limita ad un siparietto comico (comico?) con Luca Barbarossa (già in duo con la voce dolce e limpida di Raquel Del Rosario), e ad accompagnarne la canzone con la sua chitarra, per Lillo e Greg che accennano una versione jazz de Il mio secondo tempo di Max Pezzali, ma in buona sostanza mettono in scena una gag trascurabile, o per Michele Placido, che recita con sicurezza oscillante (davanti alle telecamere anche in altre occasioni si è sembrato meno a suo agio che davanti alla macchina da presa) parte del testo di Amanda è libera di Al Bano.
Le collaborazioni più strettamente musicali sembrano spesso aggiungere elementi a turbare la compiutezza del brano, a renderne straniante l’effetto, a far inclinare verso la ridondanza o sovrabbondanza la bilancia dell’equilibrio delle componenti vocali e/o musicali. Oppure, proprio per far fronte a simili pericoli, sembrano aver scelto, più o meno opportunamente, di agire in spazi autolimitati e danno luogo a somme dal risultato incerto. Osserviamo il primo caso nelle interpretazioni di Loredana Errore, che introduce nel brano di casa Tatangelo-D’Alessio la prescindibile “ebbrezza” di una componente nevrotizzata e molto enfatica, e di Francesco Sarcina, la cui voce asciutta sembra stridere con quella gorgogliante di Giusy Ferreri.
Il secondo caso è invece quello di Nina Zilli, la cui voce esuberante poco può esplicare le sue potenzialità in un brano nutrito di chiaroscuri soffusi ed eleganza felpata come quello dei
Tenero invece il coro “Si
Seppure non sia mai semplice fondere due voci femminili, davvero ideale appare il connubio artistico di Nathalie e L’Aura, prima complementari e alternate nel cantato in una prima strofa a doppia linea di pianoforte, poi in duetto a stendere il colore materico della voce più densa della Abela (L’Aura) su quella più sottile e cristallina della Giannitrapani (Nathalia Beatrice). I conti della sommatoria in questo caso tornano senz’altro.
Quando sta per giungere la mezzanotte, si spengono i rumori e si spegne anche l’insegna di quell’ultimo caffè, finalmente è l’ora dei quattro Giovani superstiti, su cui la tensione emotiva di una così lunga attesa pare avere lasciato il segno e sortire i suoi inevitabili effetti. Micaela appare meno sicura del giorno precedente sulle tonalità basse della prima parte del brano, che rammenta il Tiziano Ferro più lento e seducente, la voce le trema con qualche sbavatura sul ritornello e si rompe in qualche acuto. Costante resta la qualità dell’intensità dell’interpretazione, che le guadagna un secondo posto nella classifica che combina televoto e preferenze della Sanremo Festival Orchestra, di cui non potrà rallegrarsi davanti alle telecamere, passata l’ora “x” per i minorenni televisivi. Anche la voce di Raphael Gualazzi sembra risentire della prolungata e snervante permanenza in “sala d’aspetto” dei Giovani fino alla coda della serata: la sua esibizione vocalmente peggiora. Forse poi l’inglese, in cui è abituato a cantare e che ha una musicalità più flessibile nel modellarsi su ritmi quali quelli swingati, costituirebbe uno strumento più duttile per una versificazione più pregna di bellezza e significato per un brano jazz. Comunque sia, dieci e lode meritano le voci sonore più conturbanti del brano, l’ovviamente mirabile tromba di Fabrizio Bosso e il piano di Raphael, suonato nel suo stile stride con un tocco che amalgama leggerezza e decisione con risultati inebrianti e ammalianti. Ed è probabilmente proprio il suo charme di musicista che guida con passione silenziosa e grazia colta in un universo musicale di inarrivabile raffinatezza che gli guadagna la vittoria, descritta, più che proclamata, da Morandi nei suoi meccanismi complessi. Non c’è bisogno di spinte in avanti del correttivo del Golden Share della sala stampa: se il numero dell’ora forse ha svantaggiato Gualazzi, è dalla sua invece il semplice computo delle preferenze, allorché un unico verdetto unisce giornalisti, televotanti e orchestrali. Anzi la promessa del jazz-assopigliatutto si aggiudica anche il Premio della Critica “Mia Martini” ed il Premio della Regione Liguria “Emanuele Luzzati”. Terzo e quarto posto rispettivamente per Roberto Amadè e Serena Abrami: il primo, impegnato anche alla chitarra, offre un’ottima prestazione vocale, morbida e sensuale, avvolgente e potente ad un tempo grazie ai suoi calcolatissimi sospirati. Cresce la gradevolezza del ritornello del pezzo nella sua seconda e ultima esecuzione live sanremese. Più concentrata e matura di due sere prima la performance della Abrami, cantautrice marchigiana qui in veste di interprete di un brano di Niccolò Fabi: si presenta con il suo classico bel candore e, chiudendo gli occhi, trattiene dentro le parole del testo, come se fossero davvero quelle di una lettera lasciata scivolare sotto la porta per motivare una meditata assenza. La sua voce vola sulle note con maggiore calore e agilità questa volta, mentre i residuali momenti di complessità metrica comunicano i brividi del disagio che spinge alla fuga Lontano da tutto. Ma Serena forse paga il fatto che la firma eccellente del brano non è la sua, oppure paga l’andamento del brano, spalancato ad abbracciare la luminosità delle chitarre acustiche. Il mood della canzone è infatti poco in sintonia con l’ora tarda ed anche, più significativamente, con la tendenza sanremese a premiare l’atmosfera piuttosto che la lievità. E questi aspetti le avranno sottratto molti voti.
Attendiamo ora la “resa dei conti” per i Big.