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La scomparsa di Stefano D'Orazio

 

Da ieri la parola POOH ha una lettera di meno. È caduta l’ultima, l’H, formata da due bacchette tenute insieme da un’asta centrale, esattamente quello che era la batteria di Stefano D’Orazio per gli altri tre amici fraterni, con cui ha condiviso musica e palchi in cinquanta lunghissimi anni. Un colpo di coda inaspettato, un pezzo dell’insegna che crolla, tra il battere e il levare, senza nemmeno il tempo dell’ultimo saluto.
D’Orazio era quel perno, a detta di molti, che teneva insieme il tutto, quella presenza orizzontale che con ironia, leggerezza e generosità risolveva ogni cosa, l’amico sornione che sdrammatizzava, che guardava avanti investendo in progetti e idee e che, per primo, con estrema onestà e lungimiranza, decise di lasciare il gruppo nel momento in cui percepì di non aver più nulla di nuovo da dire. Dispiace che in questi tempi confusi, dolenti, frettolosi, la notizia, circolata sui social, abbia fissato l’attenzione sulla causa, sul come, sul perché. Dispiace che accanto alla morte di un pezzo di storia ci sia la parola covid (D’Orazio soffriva di altro ma il maledetto demone che ci morde la coda in questi giorni ha avuto la meglio). Dispiace non perché non debba essere una informazione da dare, ma perché nella bulimia di parole che ci assale, sia diventata l’unica – covid - che fa deragliare il pensiero (chiuso lì), che sorpassa il dolore, che si mangia il cordoglio di un pubblico affranto, vincendo ancora una volta e rispondendo, tragicamente, alla domanda: chi fermerà la musica.
Si spezza un nome, un modo, una squadra, un capitolo della musica italiana. Questo resta di una giornata di dolore, questo ci piace scrivere come unica e sola notizia da dare, senza altre divagazioni sul tema. Questo il nostro omaggio sentito a un musicista di razza, a due bacchette, a quell’H che non tornerà più.

di Laura Rizzo
foto di Valeria Bissacco

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