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Teatro Giacosa e Sala Santa Marta, Ivrea

Open Papyrus Jazz Festival 2019

Nell’ultimo week-end di marzo Ivrea ha ospitato secondo tradizione (a volte è il penultimo, ma insomma, lì intorno) l’edizione n. 39 di quello che un tempo era il glorioso Eurojazz Festival e da qualche anno, attraverso varie riverniciature, è diventato l’Open Papyrus Jazz Festival. Dalla scomparsa del fondatore, Sergio Ramella, la direzione artistica è passata a Music Studio in particolare nella persona di Massimo Barbiero, figure che del resto già affiancavano lo stesso Ramella nei suoi ultimi anni.

La rassegna, prestigiosa non solo per ragioni di anzianità, ha attraversato acque perigliose (anche di recente) ed è veramente un miracolo di determinazione e passione che riesca a ripresentarsi ogni anno al via. In questo 2019 c’è stata anche la polemica con Torino Jazz Festival e Piemonte Jazz per un’assurda “dimenticanza” di cui proprio l’Open è stato vittima, ma glisseremmo, se ci è permesso, perché ripercorrere anche per sommi capi la faccenda, da qualunque ottica la si guardi abbastanza penosa, richiederebbe troppo spazio, che preferiamo dedicare al racconto della musica e di ciò che – di bello, e di giusto – le ha ruotato attorno.

La partenza ha visto la presentazione in Santa Marta, venerdì in preserale, del libro di Franco Bergoglio I giorni della musica e delle rose, centrato sul ’68 (ovviamente in musica) e zone limitrofe. A seguire degustazione e concerto dell’altoatesino Quartetto E-volution, ben equilibrato e strutturato pur se fisiologicamente penalizzato dai consueti problemi di acustica della sala. Poco dopo, al Giacosa, era prevista la serata più strettamente legata alle radici stesse del festival, visti i musicisti in programma. Il primo era Maurizio Brunod, impegnato in un prestigiosissimo duo di chitarre con uno dei pontefici massimi in materia, Elliott Sharp (entrambi nella foto qui sopra), americano di Cleveland, classe 1951, artista dai mille appetiti (compositivi ancorché esecutivi) che a Ivrea – dov’è giunto in esclusiva assoluta – ha offerto un saggio eloquente di questo suo magistero, espresso univocamente sulla chitarra elettrica (Brunod ha invece svariato anche sull’acustica), attraverso una sonorità perentoria quanto per altri versi screziata, netta e magmatica, fortemente emotiva. Un set concentrato e di sicuro impatto, quello dei due chitarristi: un paio di composizioni a testa, più Tomorrow Never Knows “tributo ai Beatles - ci ha detto Brunod – e al loro album che entrambi più amiamo, cioè Revolver”.
Subito dopo è stata la volta di Odwalla, nella foto sottostante, ensemble di percussioni (in realtà con spiccate infiltrazioni melodiche, tra vibrafono, marimba, kora e “intrusioni” varie) che si è aperto nel corso dei suoi trent’anni di vita alla danza e al canto, nonché alle etnie più disparate, Africa in testa. Quest’ultima esibizione non ha fatto eccezione, offrendo tutte queste componenti assieme, in particolare con l’ospite d’onore Baba Sissoko, maliano griot, che ha cantato e percosso lui pure, in un set che ha ripercorso alcuni dei temi più noti (e amati, e quindi attesi) del repertorio odwalliano. L’occasione avrebbe dovuto coincidere con la presentazione di un nuovo cd, appunto del trentennale, con temi nuovi, cosa che non ha potuto aver luogo in quanto, con lo studio già fissato per il dicembre scorso, al leader del gruppo, il citato Massimo Barbiero, è capitato un brutto incidente (oggi più o meno risolto, essendo egli regolarmente in scena) che ha imposto una traslazione del tutto. Non si dice del resto che chi ha fatto trenta deve poi fare anche trentuno…?


Presentazione di un altro libro, sabato in Santa Marta, stavolta dedicato a Enten Eller, il gruppo fondato addirittura nell’86 da Barbiero e Brunod che dopo svariati rimpasti di organico si è stabilizzato con Giovanni Maier al basso e Alberto Mandarini alla tromba. Il libro, Il suono ruvido dell’innocenza, si deve a Davide Ielmini (ne riparleremo), che l’ha appunto presentato, mentre a seguire il pianista Emanuele Sartoris ne ha riletto (di Enten Eller) alcuni brani.
La sera al Giacosa c’era grande attesa per l’orchestra triveneto-austro-tedesca diretta da Wolfgang Schmidtke, quindici elementi votati alla rilettura del songbook di Thelonious Monk. Bisogna ammettere che gli esiti non hanno risposto del tutto alle aspettative: un corpo orchestrale coeso e assoli quasi sempre di pregio non sono sufficienti a scavare entro le maglie di un repertorio di cui vanno valorizzate le particolarità, non il contrario (cioè una sostanziale normalizzazione). Poi all’interno dell’ensemble c’era un certo Gerd Dudek, autentico monumento del sassofonismo europeo, che sarà pure un signore di ottant’anni, ma limitarne l’apporto solistico a un intervento iniziale di qualche decina di secondi e poi stop ha lasciato parecchio perplessi (e inappagati).

Per il commiato è stato infine chiamato il quintetto di Fabrizio Bosso (tromba) e Giovanni Guidi (piano) Not A What, completato da tre valenti solisti americani. Parecchia muscolarità in Bosso, maggiori introspezioni in Guidi (apparso a tratti un pesce fuor d’acqua, perché non è questo il suo habitat), efficienza da parte di tutti (ottimo in particolare il batterista Joey Dyson), ma una di quelle proposte che possono scaldare la platea (com’è prontamente accaduto) ma lasciano piuttosto interdetto (e dopo un po’ anche annoiato) il vostro recensore, che di cose del genere ne ha ascoltate troppe per potersi beare della mera perizia strumentale dei singoli e dell’amalgama di gruppo (fatto salvo quanto detto per Guidi). Molto bene al botteghino, peraltro, e questo ha il suo peso. Perché i miracoli di cui dicevamo all’inizio necessitano anche di un adeguato supporto numerico. Al 2020 con rinnovata fiducia, quindi.  


Foto di Davide Bruschetta

 

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In dettaglio

  • Data: 2019-03-29
  • Luogo: Teatro Giacosa e Sala Santa Marta, Ivrea
  • Artista: Open Papyrus Jazz Festival 2019

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