Teatro Augusteo, Napoli
Che questo sia un concerto di Vinicio Capossela, e cioè che non sia solo un
concerto, lo si capisce prima che cominci. Manca un’ora all’inizio, la gente fuori
dal teatro è ancora poca, quando due tizi eccentrici si affacciano da un
balcone. Uno è il mago Christopher Wonder, che parla americano in un megafono
che a tratti amplifica un’anglofona pronuncia di “Vinicio Capossela!”; l’altra
è Jessica Love, mangiafuoco, che diletta i pochi sorpresi fortunati con gesti
pirotecnici. Nulla di straordinario, a dirla tutta, ma già s’è capito qual è il
clima, e la musica da circo che risuona nella piazza lo sottolinea.
Luci ancora accese in sala, torna
il mago col megafono, camminando sui trampoli tra le poltroncine. Il pubblico
non si scompone e molti ancora non credono sia arrivato il momento di sedersi,
ma all’ennesimo “Vinicio Capossela!” il sipario si apre di botto, le luci si
spengono e la band è lì pronta ad attaccare Il
gigante il mago. La luce questa volta viene dal palco e soprattutto da
un’insegna enorme, volutamente pacchiana, le cui lettere s’illuminano ad
intermittenza e che recita: “SOLOSHOW”. Dietro ci sono tanti teli con disegni
coloratissimi, stile Far West, che richiamano alcuni brani del cantautore e che
puntualmente verranno eseguiti nella serata. La sensazione non è quella di
stare in un teatro, ma in un luna park.
Comincia il concerto vero e
proprio. La carica non è quella dirompente del tour di “Ovunque proteggi”,
pieno di colpi di scena, di cambi di ritmi, di giochi d’atmosfera. Capossela
esegue integralmente il nuovo album e lo fa con delicatezza, stabilendo un
contatto concreto con la gente. Che partecipa attivamente, come un’orchestra
diretta da Capossela stesso, e ride e canta secondo un dialogo perfetto
(l’apice nella struggente e divertente Il
paradiso dei calzini). Primo tempo pregno e denso, ma qualche dissenso non
manca. Troppe poche variazioni, ritmi lenti, atmosfera piatta. Dov’è finito il
Capossela di due anni fa?
E invece no. Ancora un colpo di
scena. Così come era iper-soft il primo tempo, così è iper-energico il secondo.
Vengono una dopo l’altra Bardamù, Medusa cha cha cha, Che cossè l’amor, Con una
rosa, Il ballo di San Vito, Dalla parte di Spessotto, Brucia Troia, L’uomo vivo (inno alla gioia), All’una
e trentacinque circa, rimaneggiate ma non snaturate, ed eseguite in un via
vai indescrivibile di gente e scenografie.
L’immagine che resta è quella di Capossela che canta parte dei brani
chiuso in una gabbia lucente. Un grande performer imprigionato con tanta
sofferenza e con immenso piacere dai suoi stessi successi («suonare ti tocca / per
tutta la vita / e ti piace lasciarti ascoltare»).