Teatro Donizetti, Bergamo
Che strano effetto fa vedere oggi
Ivano Fossati in concerto. Quasi
sembra un altro rispetto a certi tour degli anni passati, immancabilmente
dietro al pianoforte, i brani rivestiti di continuo in un sempiterno lavoro di
ricerca sonora che coinvolgeva strumenti e (grandi) strumentisti di ogni sorta,
l’atteggiamento composto e sacrale come di chi va sul palco prima di tutto per
fare i conti con la propria arte. Oggi Fossati è diverso: non meno credibile,
non meno serio, ma più disteso, più tranquillo, artisticamente pacificato. Anche sul palco conferma ciò
che emerge in modo preponderante dagli ultimi due dischi: ovvero che il periodo
fondamentale del cantautore genovese sia (forse) finito con “Lampo viaggiatore”
e che da lì in poi, qualche colpo di reni a parte, abbia prevalso un po’ di
mestiere. Il discorso è prettamente artistico e, ci teniamo a sottolinearlo,
non riguarda una sua possibile commercializzazione: piuttosto pare il
cambiamento di un uomo a posto con sé stesso, meno curioso e inquieto di un
tempo, che alla musica ultimamente sta chiedendo soprattutto calma,
divertimento e il gusto di suonare e raccontare ancora con la stessa tensione
civile e la stessa profondità umana ma senza quella tensione artistica di un
tempo.
Ed è proprio questa la sensazione
nel vederlo in questo “Musica Moderna Tour”. Un’esibizione impeccabile sotto
ogni profilo, tranne quello emozionale. Le canzoni ci sono tutte, quelle nuove
(prevedibilmente minori rispetto al repertorio, eccetto Il paese dei testimoni e il suo groove indignato) e tante di quelle
storiche. Il pianoforte pure lui c’è, e anche qualche intervento di fisarmonica
e armonio, ma soprattutto c’è la chitarra, anzi le chitarre: l’elettrica
sovente imbracciata dal titolare, quella di Fabrizio Barale (anche allo steel)
e l’acustica di Riccardo Galardini. A mancare invece è la densità di tour
magnifici come quelli dei tre dischi dal vivo e come quello che seguì la
raccolta “Time & Silence” o la grande energia del tour de “L’Arcangelo”,
che nei club trovò la sua dimensione migliore.
Qui Fossati, come dire, gestisce: nel primo tempo, formato
soprattutto dai brani dell’ultima fatica e con L’amore trasparente sacrificata all’inizio, sembra proprio fare
melina, cercando l’affondo solo quando è la volta della bella triade finale formata
da La costruzione di un amore, Una notte in Italia e Buontempo; nel secondo trova qualche slancio
in più con l’inizio di Discanto e L’uomo coi capelli da ragazzo ma si
ingrippa del tutto nell’uno-due L’amore
fa e Ho sognato una strada, prima
di chiudere con tre versioni sentite ma altrettanto didascaliche di Il bacio sulla bocca, Italiani d’Argentina e I treni a vapore. Nei due bis, dopo una Di tanto amore ripescaggio gradevole e L’arcangelo sfibrata dall’assenza delle
percussioni, arriva Lindbergh, che
col suo arrangiamento di pianoforte e tastiere quasi kraut all’inizio lascia un
po’ così ma poi conquista. A chiudere il tutto Naviganti e soprattutto La
musica che gira intorno, cantata insieme al pubblico, con il cantautore
sorridente e leggero. Un’immagine altamente simbolica del suo spirito attuale.