Teatro Donizetti e altri luoghi, Bergamo
A
quarant’anni esatti dall’edizione inaugurale, e sotto le direttive artistiche
(per la prima volta) di Paolo Fresu,
il Bergamo Jazz Festival 2009 ha
proposto quattro giornate di concerti in cui tradizione, futuro e deviazioni
verso altri generi si sono mischiati in connubi il più delle volte interessanti
e stimolanti. “FREE. La liber-azione della musica!” il titolo della rassegna di
quest’anno, a testimoniare la volontà di assegnare al jazz – ma alla musica
tutta – un impulso libertario che, parafrasando la ricorrenza resistenziale
caduta proprio nei giorni del Festival, appunto resista
a qualsiasi omologazione e conformismo. Tanti gli appuntamenti importanti sia per
quanto riguarda gli ospiti italiani (di cui tratterà Alberto Bazzurro nei tre “appunti
di viaggio” qui di seguito) che quelli internazionali, a partire dalla
performance cristallina, ieratica (e in una parola splendida) di Jan Garbarek & Hilliard Ensemble
presso la Basilica di Santa Maria Maggiore, passando per il latin-jazz di Gonzalo Rubalcaba, fino ai due set in
chiusura dell’ultima giornata di una Maria
João in splendida forma insieme a Mário
Laginha (una concentrazione, eccentrica ma feconda, di musica popolare,
sperimentazioni vocali e gusto della melodia la loro esibizione) e di un Nils Petter Molvær che, insieme al suo
gruppo, sposta la definizione nu-jazz data in cartellone verso i territori
dell’ambient e del post-rock.
(Luca Barachetti)
Profeti in patria
Una delle peculiarità della gloriosa rassegna bergamasca è
sempre stata la sua internazionalità: qui come in pochi altri luoghi, in
Italia, si potevano ascoltare veramente i migliori. E se pensiamo che il
festival è nato giusto quarant’anni fa, nel 1969, si capirà cosa intendiamo
dire. Fin dalla seconda edizione, tuttavia, anche quelli di casa hanno iniziato
ad avere “asilo” a Bergamo Jazz. Correva infatti l’anno 1970 quando un
giovanotto un po’ dinoccolato debuttava in seno al quartetto capitanato da
Gianni Bergamelli, pianista, poi apprezzato pittore. Quel giovanotto si
chiamava Gianluigi Trovesi e da
allora, come si dice, ne ha fatta di strada. Al festival orobico è tornato un’infinità
di volte; quest’ultima ha presentato de
visu il suo apprezzatissimo disco edito per i tipi della Ecm (mica paglia,
come direbbe Antonio Silva…) Profumo di
violetta (vedi nostra recensione), aprendo le serate al Donizetti. Con lui
c’era la magistrale Filarmonica Mousiké (che
qualcuno chiama banda… con tutto il rispetto per le succitate) e un paio di
solisti, fra i quali si è distinto ancora una volta quel furetto di Marco Remondini, di professione
violoncellista. Che però non disdegna sonorità à la Hendrix nell’intrufolarsi tra le pieghe dei
gloriosi brani d’opera riletti nel progetto. E qualcuno, magari, ancora se ne
scandalizza (anno di grazia 2009…).
I bergamaschi, del resto, a Bergamo non mancano mai, e
anche questanno (ma sì, tutto attaccato, come direbbe Totò; non facciamo vedere
che siamo provinciali) non potevano certo limitarsi al solo Trovesi III (dopo
uno zio fisarmonicista e un padre batterista) da Nembro. E così, da Gorle, ecco
Tino Tracanna (foto), qualche ora
prima (programma fittissimo, quest’anno, stavolta staccato), alla testa del suo
quartetto nel suggestivo spazio della ex-Chiesa della Maddalena. Musica solida,
a tratti più descrittiva, altrove più robusta. Bene così.
E c’erano infine, il pomeriggio seguente, Guido Bombardieri, altro strumentista
ad ancia, e Stefano Bertoli (già
percussionista, la sera prima, di Trovesi) in trio col pianista Fabio Piazzalunga, a rileggere, loro,
niente meno che La Bohème pucciniana.
Concerto, peraltro, nelle cui pieghe il vostro recensore non è riuscito a
penetrare. Per il semplice motivo che la succitata Chiesa della Maddalena era
piena zeppa, e l’ingresso, di conseguenza, sbarrato. Serrado, come direbbero gli spagnoli. Sold-out, invece, per l’inclita post-moderno che pensa che
l’italiano non contempli concetti tanto evoluti. Molto più semplicemente, prosit.
Maestri a
ottantotto tasti
Pare che Giorgio Gaslini, ormai prossimo agli ottant’anni (li compirà a fine
ottobre), quando gli è stato annunciato che avrebbe aperto il festival presso la Casa di Riposo S. Maria Ausiliatrice, abbia
chiosato “purché non mi ci lasciate!”. Pomposo per alcuni, egocentrico
senz’altro, capace di gustosi fuoriprogramma autoironici per chi lo conosce un
po’ più a fondo, il Maestro, negli anni Settanta, bazzicava in effetti (fra i
primi, se non il primo, come del resto gli è occorso di frequente) università,
ospedali psichiatrici, carceri, fabbriche occupate (a una ha dedicato persino
una suite), ecc. Nel luogo in cui non vorrebbe mai che lo si dimenticasse, ha
inanellato il suo consueto, ammirevole, generosissimo set in piano solo,
spaziando da autori “colti” a Sun Ra, da Ayler a Ornette, da Coltrane a Roland
Kirk, ovviamente a se stesso. Non contento, la mattina di domenica ha
inanellato una curiosa intervista al contrario con tre critici di generazioni diverse.
Non ha voluto certo essere da
meno Franco D’Andrea (foto), che ha
anzi rilanciato (dire che lui e Gaslini sono con ogni probabilità i massimi
pianisti nella storia del jazz italiano è tutt’altro che un rilievo di
circostanza): concerti in quartetto (la sera al Donizetti) e in solo (al
pomeriggio pure lui), con annessa visione del bellissimo film dedicatogli da
Andreas Pichler Jazz Pianist. La
prova in quartetto in particolare, se da un lato ne ha ribadito gli intatti
appetiti nel segno della ricerca, dall’altro ha fatto forse avvertire
l’esigenza di un recupero di un qualche brandello tematico. Magari affidandolo
a un fiato più “decisivo” del pur apprezzabile Andrea Ayassot.
La tromba
in corpo
Tromba e corpo: come quelli
abbinati dal concerto del franco-libanese Ibrahim
Maalouf (la tromba; ma se per questo, massicciamente, anche l’elettronica)
e della danzatrice Fanny Coulm (il
corpo, discretamente conturbante; vedi foto). Era, questo, uno dei tre concerti
pomeridiani dedicati nell’Auditorium di Piazza della Libertà a giovani trombe
europee dall’ex-giovane tromba europea Paolo
Fresu, neo-direttore artistico di Bergamo Jazz. La tromba in corpo ce l’ha
anche lui, è chiaro, e, se ce ne fosse stato bisogno, l’ha ribadito nei
post-concerto allo Spazio Polaresco, jammando generosamente (non da solo, del
resto) col trio “residente” del chitarrista Sandro Gibellini.
E’ stato il campano Luca
Aquino a inaugurare (in duo con Raffaele Casarano) la sezione young trumpeters, non disdegnando
neppure lui il ricorso all’elettronica (sulla falsariga, oltre che dello stesso
Fresu, del norvegese Nils Petter Molvær,
esibitosi sia in solo, al mattino alla Maddalena, che in trio, la sera in
teatro, in quest’ultimo caso guadagnando in – relativa – perentorietà ciò che
ha lasciato in tersa, poetica essenzialità). Il connubio tromba/elettronica ha
rappresentato quindi più di un fil rouge per
la minirassegna (o rassegna nella rassegna), visto che pure la francese Airelle Besson, dirigendo (in coppia
col tenorsassofonista Sylvain Rifflet) il quintetto Rockingchair, ha mostrato di prediligere un fitto agglomerarsi di
umori acustico-elettrici (più i secondi dei primi, in verità), risultando a
conti fatti la proposta più coinvolgente e matura della terna.
E ora chissà mai se, per il 2010,
Fresu sta già pensando a una sezione dedicata al flicorno soprano…?