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Teatro Marrucino, Chieti

Setak

C’è un’atmosfera strana stasera a Chieti. Il vento si alza violentemente a spazzare via la malinconia, e le luci della città illuminano una piazza gremita di persone davanti al Teatro Marrucino. La nostalgia di cose passate e ancora vive si alza nei mormorii dei discorsi sorridenti. E tra i denti tutti hanno incastrata un po’ di cicoria, anzi un Pane e Cicoria, ma nessuno sembra farci caso. Anzi stasera nessuno si vergogna di essere abruzzese, nessuno si sente inferiore, nessuno ha qualcosa da invidiare al resto del pianeta. A un tratto la piazza si svuota per riempire il teatro: è una massa di invasati pronti a celebrare un rito proibito ormai: la vera arte. Un timido personaggio che ha la testardaggine di scovare le impronte abruzzesi anche sulla luna, presenta la serata in una strana lingua non ancora morta, ma in lenta agonia. È il dialetto della pagina web L’Abruzzese fuori sede e l’omino si chiama Gino Bucci. Non siamo sul nostro satellite, nonostante tutti abbiano i piedi neri sporcati da un’erba che non può far male, perché L’erba ‘nzì Fa Pugnale.

Sul palco compare una sorta di guru, una specie di folletto che ha avuto una semplice intuizione: cantare canzoni serie in dialetto abruzzese. Non che non fosse mai stato fatto del tutto, ma non era mai stato fatto così, non nel recupero innovativo di una tradizione contemporanea. Quanto è brutto quel “serio”! L’arte non è una cosa seria; eppure a pochi scappa il riso stasera perché una cosa viene detta in dialetto. È un’abitudine troppo dura a morire poiché siamo soliti sorridere quando c’è una frase in dialetto, dobbiamo sorridere della nostra intimità svelata, come se qualcuno ci svelasse il deretano. E invece tutti rimangono stupiti di sentire frasi del tipo «vorrei un altro inverno da passare con te», oppure «quanto ti piace portare addosso quella croce, ma dai, gettala via!», cantate in dialetto abruzzese. Poi ci viene lo stesso da sorridere per il piacere della musica; e subito però ci dicono che dopo lu ride viene lu piagne. E non ci sono organetti ad accompagnare queste parole, piuttosto una base blues, o meglio una koiné musicale mediterranea, che mischia le tradizioni tribali africane, gli arrangiamenti balcanici e la tradizione italiana, fino a sentire reminiscenze arabe e spagnole, con una maleducatissima chitarra elettrica che ogni tanto profonde l’armonia di furore a ricordarci che siamo nel ventunesimo secolo. I Tinariwen incontrano Balasevic Djordje. Violoncello, tastiere elettriche, diversi strumenti a corde: che vogliano davvero suonare della buona musica questi?

I versi citati prima provengono da canzoni che sono tra le migliori dell’album presentato stasera da Setak nella sua terra, un’opera dal titolo enigmatico Assamanù; ci svela che specificatamente è dialetto dell’entroterra teramano, dove c’è un ristorante che si chiama così; vuol dire in questa maniera, ed è un po’ la filosofia di noi abruzzesi dire che siamo fatti in questo modo, e se non ti piace te ne pu’ rrj. Sono a mio avviso le canzoni migliori di un’opera che è tra le migliori della discografia dialettale di questa regione. Canzoni ritmate e coinvolgenti dal vivo, che trascinano come un mantra petergabrieliano gli invasati che ascoltano: Di Chi Ssi lu Fije inscena il dialogo con la tradizione e A ‘mme canta la gioia dell’amore. Accanto a queste ci sono i pezzi più lenti e riflessivi, come Curre Curre, che Setak sbaglia a presentare nel momento in cui invece devono eseguire Aspitt Aspitt, del primo album Blusanza. È il momento della magia, quella dell’errore che ci mette nel mezzo della verità, direbbe Montale, lo sbaglio di natura o ancora meglio l’accordo franto che permette a una danza di farfalle di entrare nel mezzo della platea e metterci direttamente in contatto con la divinità. Si rompe l’imbarazzo e si celebra la gioia della vita: da quel momento il teatro e Setak, i fotografi e i musicisti, le maschere e i fonici, tutti quelli che sono lì per un motivo o per un altro, si sentono un solo corpo, una sola grande famiglia e la canzoni di Setak non sembrano più le sue, diventano la nostra pelle.

Anche Mimmo Locasciulli e Luca Romagnoli sembrano volare sul palco, trasportati dalla mano invisibile di un pubblico che come un celestiale li posa davanti al microfono. Viene poi naturale cantare i successi già consolidati…e sembra assurdo allo stesso Nicola Pomponi di avere le proprie membra abbarbicate ai sogni degli altri, e invece Setak se ne rende conto benissimo… (sì, lo so, sulla carta sono la stessa persona, ma in questi riti ognuno dimentica il proprio nome). Marije viene solo accennata dal cantante, perché la canta interamente il pubblico, in una scena che ricorda tanto Love of My Life dal vivo dei Queen; la band riprende sul finale gli strumenti e verrebbe da pensare che la canzone verrà strascicata all’infinito e invece qui non si indugia sull’autocompiacimento, si suonano quattro battute strumentali e stop. Bis anche di Pane e Cicoria e finisce il rito, si compie il gioco delle verità per i fantasmi del domani.

Tutti escono con le facce sorridenti alla fine, testardi nel voler dire di aver assistito a un semplice concerto. Mentono! Sanno benissimo che era molto di più. Ognuno vuole salutare i musicisti, ognuno ha voglia di dire all’altro quanto sia stato bene. Si è creata una famiglia.

Foto di Martina D'Andreagiovanni

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In dettaglio

  • Data: 2024-05-16
  • Luogo: Teatro Marrucino, Chieti
  • Artista: Setak