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Guido Maria Grillo

Affondare nelle radici per disegnare il futuro

Una chiacchierata con Guido Maria Grillo per approfondire le sue ultime svolte musicali, scelte che stanno arricchendo il suo percorso e stanno tirando fuori un’ulteriore anima del cantautore che ridefinisce artisticamente il rapporto con le sue radici, rendendole grande fonte di ispirazione, come inciso a futura memoria, nelle sue più recenti raccolte di canzoni. 
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I tuoi ultimi due Ep per certi versi ci fanno conoscere un tuo nuovo ‘periodo musicale’, che si manifesta nell’utilizzo anche della lingua napoletana. Ci racconti questa scelta da cosa nasce (nella foto qui sotto un frame del video di Nennella, ultimo singolo uscito)?
Ad un certo punto del mio percorso, dopo tre dischi, un Ep, diverse avventure e disavventure discografiche, iniziai a riflettere sulla mia condizione in cerca di risposte. Compresi di essere ad un giro di boa, ad un punto, cioè, in cui avrei dovuto rinnovare il senso stesso del mio fare musica. Iniziai a pormi domande e a riflettere sul panorama musicale italiano. Conclusi che uno dei più grossi mali della cultura di questo tempo (che invade ogni ambito delle nostre vite) fosse il conformismo. Mi era già chiaro che si trattasse di una condizione necessaria al proliferare della società del consumo ed alla sopravvivenza di una visione esclusivamente capitalista, tuttavia mi sembrò che l’impatto sulla musica fosse tanto devastante da rischiare di coinvolgere anche me. Nello specifico, compresi che dal conformismo sgorgasse un’altra piaga culturale: il derivatismo.

 

E questa riflessione a cosa ti ha portato?
Più in generale mi accorsi di quanta musica in circolazione fosse priva di anima, unicità, smaccatamente derivativa. Dunque, spingendomi alla ricerca di qualcosa che potesse rendere originale la mia, seppur senza forzature, approdai al dialetto. Capii che non esiste nulla di più originale di ciò da cui si provenga, cioè delle radici. Io non sono un passatista, un fanatico nostalgico, tutt’altro! Sono urticato da chi crede che tutto sia già stato fatto e che il meglio sia già stato prodotto, la trovo una visione davvero limitata della realtà contingente e di quella possibile. Sono sempre stato un grande amante della canzone napoletana classica, tuttavia non mi era mai venuto in mente di utilizzarla per la mia musica. Quando lo feci per la prima volta, poco più di due anni fa, mi chiesi subito come avessi fatto a non pensarci prima. Mi si spalancò dinanzi un mondo insospettabile e meraviglioso, pareva che i testi si scrivessero da soli, che le parole fluissero spontanee e, cosa ancora più illuminante, che questo flusso trascinasse con sé nuove melodie, armonie, suggestioni. Mi fu chiaro che, in fondo, il dialetto richiama dei mondi, atmosfere che gli sono strettamente legate, armonie che sposa splendidamente e dunque la mia musica ne rimase imbrigliata ed incantata. Era proprio quello che cercavo.

Le tue sonorità sono sempre state molto ricercate e raffinate ma allo stesso tempo anche oserei direi viscerali, l’impressione è che questa ricerca di mondi sonori si muova di pari passo, dentro e fuori di te. Ci racconti anche come nascono le scelte compositive-musicali, le atmosfere delle canzoni e il lavoro sui testi?
Mi ricollego a quanto detto anche prima. Dall’uso del dialetto si è, mattone dopo mattone, ho costruito un nuovo mondo, sia sul piano musicale che su quello testuale. Il dialetto spinge le parole verso altri lidi, è immaginifico, viscerale, emotivo. Si muove, infine, perfettamente a suo agio all’interno di rimandi, suggestioni d’altri tempi e luoghi, contaminazioni. È stato e continua ad essere un movimento del tutto spontaneo.

Resto ancora un attimo sugli ultimi due lavori, “Anema” e “Anema Lesa”. La sensazione è che sei riuscito nell’impresa di far incontrare un passato - per certi versi anche lontano della musica napoletana, penso al periodo delle innovazioni apportate dal Murolo che fa un primo  recupero del patrimonio storico della canzone tradizionale partenopea innovandone lo stile in una direzione più intensa e asciutta rispetto al passato, e al Sergio Bruni esploratore delle sonorità spagnole e arabeggianti passate per il Golfo - con le venature elettroniche del presente, insieme a un utilizzo della voce, forse questa volta più vicino alle sperimentazioni di Tim Buckley che del figlio Jeff. Ovviamente ci saranno molti altri riferimenti ma io questi ce li ritrovati.
Ti ringrazio molto perché, oltre a pensare che le tue osservazioni siano pertinenti, le ritengo dei preziosi complimenti. Riassumi le mie prime sensazioni, mentre producevo i primi arrangiamenti. Ciò che cercavo era una musica napoletana contemporanea, che facesse fatto tesoro della tradizione e della sua Bellezza, del suo pathos, della delicatezza o della ruvidezza, della sua poesia, della malinconia, dell’eleganza, ma che fosse in grado di traghettare tutto ciò nella contemporaneità: è stata questa la consapevolezza che ho, man mano, costruito. Sono un uomo del mio tempo, non un passatista o un nostalgico manierista. Sono ferocemente critico rispetto alla contemporaneità, alla modernità ostentata a tutti i costi, ma non per questo ritengo che non esista, oggi, pura Bellezza. Il più grave delitto è impedirle di mostrarsi, schiacciandola sotto il peso del conformismo (di cui sopra) e del disimpegno. Ecco, penso che la parola chiave per intendere il degrado culturale e, dunque, musicale di questo tempo sia “disimpegno”. A questo disimpegno intellettuale, d’altro canto, corrisponde un feroce impegno venale alla spasmodica ricerca del profitto facile. Musicisti, addetti ai lavori, promoter, giornalisti che contribuiscano ad impedire la libera circolazione di pura Bellezza, per ragioni meramente commerciali, di convenienza o disinteresse, sono complici di questo abbrutimento.

 

In passato hai scelto con molta attenzione anche le collaborazioni con altri musicisti, ricordo quella particolarmente proficua, anche a livello di concerti con Cristiano Godano dei Marlene Kuntz, e con i “torinesi” (Levante - qui in alto nella foto durante le riprese del video del brano Salsedine - , Bianco, Daniele Celona, Marco Notari, Cecilia Lasagno) in parte raccolti anche nell’Ep Torino Chiama. Cosa ti hanno lasciato quelle condivisioni?
Sono stati momenti di grande intensità, di creatività, confronto, crescita. A Cristiano mi lega una profonda stima ed una sincera amicizia che cerchiamo, nonostante le difficoltà ed i numerosi impegni, di coltivare. Le collaborazioni successive sono legate ad un periodo ‘torinese’ in cui ho frequentato una scena vivace e coesa, composta da musicisti e persone che ammiro sinceramente. In un Paese affetto da quell’insopportabile provincialismo che spinge a badare gelosamente soltanto al proprio orticello, vantare numerose e proficue collaborazioni mi solleva ed inorgoglisce. Ho condiviso il palco ed avuto rapporti di amicizia e stima anche con Paolo Benvegnù e gianCarlo Onorato.

In questi ultimi anni il panorama musicale è cambiato molto e ne ha risentito anche il circuito dei live per quanto riguarda un certo filone della musica cantautorale e diciamo di maggior qualità. Tu che idea ti sei fatto di questi cambiamenti in atto? Che rapporto hai con i social? Da una parte non si possono ignorare dall’altra rischiano di fare danno diventando la scorciatoia sbagliata per far conoscere la propria arte…
In questi pochi anni che abbiamo dietro le spalle, il mondo ed il sistema della cultura sono cambiati in maniera radicale. Il cambiamento è stato troppo rapido e violento perché ce ne possa essere una consapevolezza diffusa e, dunque, una visione critica profonda e condivisa. Tuttavia, sono abituato ad astrarmi dal flusso per riflettere e pormi domande. Sono convinto che si stiano già assaporando i frutti marci di questo cambiamento epocale e che, presto, essi domineranno indisturbati i nostri assuefatti banchetti. Oggi ci appaiono quasi normali cose che sarebbero state impensabili solo pochi anni fa. Basti pensare, ad esempio, al modo e alla velocità con cui si raggiunge la notorietà (e a quanto altrettanto rapidamente si cada nell’oblio), al business system che ha fagocitato la musica, alla vanità dei programmi televisivi dedicati, a quel che sono diventati i talent show con i loro giudici, alle pantomime che li animano, alle mire delle case discografiche, al dominio assoluto dell’immagine, dei social, al modo in cui essi influenzano il mercato, indirizzano i gusti. Mi riferisco, ancora, all’inutilità assoluta delle competenze, a quel mondo che si definiva “indipendente” e che, di fatto, ha dimostrato di non esserlo per scelta ideologica ma solo per condizione necessaria, saltando sul carrozzone del mainstream alla prima occasione utile (vedi Sanremo). Mi riferisco all’idolatria di semidei che in un paio di mesi passano dall’anonimato assoluto ai sold out nei palasport (e non perché il loro genio fosse ingiustamente nascosto!). Potrei andare avanti per ore ma ti invito a soffermarti su ognuno di questi esempi che ho fatto e a trovarne un riferimento nella realtà attuale, per chiederti, poi, se, solo 10 anni fa, sarebbe stato possibile o pensabile. Siamo tutti complici, se non colpevoli. Chi abbia denunciato, tentato di opporsi, scelto di non aderire o di andare controcorrente è, per me, un eroe contemporaneo. È una magra consolazione, una medaglia di carta, ma questo è.

 

Per quanto riguarda i progetti in cantiere? Oltre alla musica, hai esperienze teatrali, hai pubblicato un libro, che momento è per te anche sugli altri fronti?
Faccio più cose, è vero, leggo tantissimo ad esempio, produco (ed ascolto) musica quasi ogni giorno, insegno musica e canto. Mi piacerebbe dedicarmi alla scrittura, sogno di pubblicare un saggio socio-politico, una riflessione sulla contemporaneità. È in una cartella sul mio desk, ogni tanto s’arricchisce di un paragrafo, poi sparisco per un po’. Sto lavorando a nuove canzoni, procedendo con lentezza e zelo, perché tento di rinnovare la mia dimensione espressiva, soprattutto sul piano strettamente sonoro. Mi sento un po’ come fossi ad un nuovo giro di boa, riprendendo quel che dicevo all’inizio di questa intervista. È necessario rinnovarsi, non ripetersi sterilmente, essere profondamente se stessi, trovare la nota giusta, la parola giusta, non somigliare a nessuno. Per me è un bisogno atavico ma richiede tempo. Occorre cercarsi, trovarsi e raccontarsi con occhi e parole nuove ed io, caparbiamente ma non senza il mio bagaglio di dubbi e delusioni, sto intraprendendo questo viaggio ancora una volta.

 

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