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Paolo Benvegnù

La presunzione del Conoscere

A pochi mesi dall'album live Dissolution, Paolo Benvegnù (e il "collettivo" omonimo) torna con Hermann, un'opera ambiziosa che apre un percorso di conoscenza sull'evoluzione (e l'involuzione) dell'Uomo. Superata "l'educazione sentimentale" che aveva attraversato la produzione precedente del cantautore, parliamo con lui delle nuove sfide espressive e personale imposte da un'operazione tanto - per usare le sue parole - "presuntuosa"...                               Fotografie di Francesca Pontiggia.  

Ci eravamo lasciati alla fine della tua/vostra educazione sentimentale, dove acquisivi uno sguardo più maturo sul mondo. Con Hermann invece inizia un viaggio verso l’Uomo: questo disco è già un primo passo concreto o è una road map del viaggio che vai a intraprendere?

Sì, è la presunzione e l’ambizione di scrivere una pièce sull’Uomo con i miei compagni. Non ne ho un’idea precisa, forse si, forse è più una road map. Non è sicuramente un disco definitivo, questo lo posso dire di per certo: è stato affrontato un po’ come un romanzo, e per certi versi come un film, però anche con stilizzazioni, dove tutto è molto stratificato e con molte chiavi di lettura. Sembra più un libro di Hesse – paradossalmente, non è proprio uno dei miei autori preferiti -, un po’ come Il Gioco delle Perle di Vetro, che ha significati reconditi, si presta a seconde e terze letture. Strano, perché normalmente non sono così, ma questo è quello che ci è venuto, sempre seguendo la filosofia felliniana del “film che si fa anche un po’ da solo”.

All’origine del disco pare ci sia questo libro (fittizio?) di Fulgenzio Innocenzi. Senza rompere la magia dell’operazione, puoi dirci se è vero?

È un’escamotage, e c’è stato molto pensiero anche attorno a questo: un po’ come Victor Hugo con I Miserabili, in quel libro dà un’idea specifica del mondo e la esprime in maniera netta, però lo fa in maniera netta. È come dire: "ok, sono serio ma in fondo no... mi prendo quasi tutte le mie responsabilità". In questo caso è proprio una cosa stilistica, come ci sono due o tre pezzi che parlano del Novecento e sono stilizzati su come è andato il Novecento, così anche nell’introduzione di questo disco abbiamo usato una stilizzazione da chanson de geste o comunque da grande romanzo ottocentesco.

È curioso perché nel disco fai anche dei riferimenti molto precisi, “chiamati per nome”, alla cultura e all’immaginario collettivo…

In realtà, è la cultura dell’Occidente che conosciamo un po’ tutti, da Melville ai poemi omerici, non c’è stata una ricerca particolare. Siamo andati sui miti e sugli archetipi classici dell’immaginario occidentale, cercando di spostare anche solo di un grado la prospettiva: l’esempio è Ulisse. Nell’Odissea si evince che fosse la sua curiosità a spingerlo a protrarre il ritorno in patria; noi invece diciamo che la sua curiosità è effetto della causa noia. Vuol dire essere avvisatori con le parole di altri avvisatori, spostando minimamente il senso.

Domanda un po’ più mediale: il tuo primo LP Piccoli fragilissimi film, i tuoi testi hanno sempre avuto una natura fortemente visiva, questo disco addirittura è colonna sonora di un film “da non fare mai”. Avverti delle limitazioni nella forma canzone e quindi ti ancori al visivo?

Come tutti gli uomini, io procedo per avamposti, e questo disco, almeno negli episodi scritti da me, si nota che la forma canzone non l’ho ancora conquistata veramente. Nel senso che arrivo a degli avamposti, e poi lascio della terra di nessuno: di questa terra di nessuno non ho né il controllo né il non controllo – è questa la cosa terribile. Per conoscere veramente una cosa, bisogna veramente averne il controllo e poi volontariamente perderlo. Il controllo è anche una cosa amorosa: impari veramente ad amare quando impari il significato e il segno del controllo, e poi impari il significato e il segno del non-controllo, e poi impari ad amare per ciò che è Giusto. Almeno questa è la mia esperienza. Io la forma canzone non la conosco tanto: la mia ambizione personale è nel tempo, dopo vent’anni di studio, quando sarò più saggio e più bravo, diventare un letterato e scrivere libri. Se sento un limite, è proprio nella scrittura, dell’uso della parola: qui devo ancora imparare moltissimo, sotto tutti i punti di vista. Tieni conto che questo disco m’ha messo in crisi: dal giorno dopo che abbiamo finito di scriverlo e bene o male di registrarlo, mi sono detto “e da questo che cazzo faccio?”. Il senso per me adesso è riempire questo vuoto.

Nel disco parli di ‘parole perfette’, e c’è sempre una grande espressiva e linguistica in generale. Per te, la parola ha un potere di liberazione, un tema che è molto presente nel disco?

Sì, secondo me ce l’ha, però dev’essere una parola diversa anche da come le ho dette fino a poco tempo fa o come le dicevo anche oggi (si riferisce allo showcase alla Fnac di Milano che lo ha visto protagonista, e che si era concluso pochi minuti prima, NdR). Le parole sono fantastiche, però diventano delle lettere scritte su un muro, se non ne possiedi sotto la densità e sopra la tensione e il desiderio che si portan dietro. Secondo me, nel disco ci sono quasi tutti gli episodi – quasi tutti quelli non stilizzati – dove siamo andati in questa direzione, dove la parola ha tutto il suo peso e tutta la sua leggerezza. Per me, il prossimo passo è fare un disco dove le parole abbiano questo tipo di densità, di altezza e di profondità.

Vorrei soffermarmi su Achab in New York, dove torna un po’ l’idea già presente nei tuoi dischi precedenti di Amore totalizzante, che qui rientra in unione molto forte con Vita e Arte…

La vita è arte molto più dello scrivere e cantare canzoni. Lo ha capito persino la Tatangelo, che ha chiamato il suo disco Progetto B, mentre il Progetto A è quello della vita. E mi ha stupido, ma bisogna esplorare quanto sia vero – perciò “bastardo” lo sono lo stesso (risate). Io credo in una forza che sta nel metafisico dell’Uomo e che cerchiamo spesso di ridurre e di comprendere solo parzialmente. Chiamalo Amore, chiamalo potenza espressiva... persino questi computer assemblati industrialmente... se queste cose sono state assemblate da persone bieche hanno un segno diverso da quelle assemblate da chi le fa per l’uomo. Poi, sono brutti, perché raramente l’Uomo fa le cose per l’uomo – poi va beh, è una cosa animista, è utopista… è una stronzata (risate).

C’è un po’ di luddismo…

Ma sì, perché poi sono anche matto – matto nel senso che non faccio male a nessuno, neanche a  me stesso… poi quando uno smette di farsi problemi, di sedurre ed essere sedotto, un po’ dice quello che veramente sente. Io non lo so, non so cosa sia, ma credo ci sia questa grande possibilità di vivere molto più felicemente e non ce la permettiamo. Ed è una cosa terribile.

I Paolo Benvegnù: in questo disco il gruppo c’è, ci sono i pezzi scritti di Andrea e Guglielmo…

C’è un pezzo tutto di Guglielmo (Ridolfo Gagliano, NdR), Andrea (Franchi, NdR) ha scritto quattro  pezzi, di cui uno cantato da me paro paro e altri due di cui ho scritto i testi… un bel lavoro di equipe. Sì, superiamo il limite della mia scrittura, è un primo passo, secondo me dobbiamo andare più in là. Posso dirlo adesso, perché quando abbiamo messo a punto il materiale, pensavo che non mi era mai capitato di avere così tante idee, pensavo che non saremmo mai riusciti ad andare oltre… Ma ora, già a distanza di tre quattro mesi, sono convinto che abbiamo delle potenzialità molto più estese.

È un disco molto meditato e molto da meditare. Come ti poni nei confronti delle nuove modalità di consumo, molto più parcellizzate - singoli, mp3 e quant’altro – rispetto all’ascolto lungo e d’ampio respiro degli LP.

A dire la verità, non mi interessa. Per me i dischi, e le stesse tirature delle case discografiche lo dimostrano, sono come i libri e i film, perciò fare un disco significa fare un libro, oppure fare un film e farlo uscire solo in DVD. Però so cosa succede a me quando leggo un libro e voglio averlo in mano, e immagino che possa far piacere avere il disco fisicamente. Certo, a me e a noi tutti non interessa una tiratura enorme, anche perché quando non si ha più la faccia di bronzo del ragazzetto, o quando sei pacificato con te, puoi essere l’uomo più bieco o sciocco, ti interessa solo quello che fai, come lo fai, con tutto l’amore assoluto che puoi metterci dentro. Il resto è come gli altri lo recepiscono: e io rimango sempre stupefatto, non ci credo, e penso che devo impegnarmi molto per meritarmi la metà di quello che mi succede. C’è da lavorare un sacco…! E non è umiltà, è che sono un cialtrone: un po’ di cose le ho scritte bene, altre posso impegnarmi di più, altre ancora non le ho nemmeno pensate. Ogni volta che vedo i gesti inconsci di una persona, un film meraviglioso, una riga scritta nel tal libro, io divento matto. È come se continuassero a esserci chiavi… Ecco, più che sete di conoscenza, è sete di comprensione – è per questo che ho fatto un lavoro sull’Uomo: non c’è nemmeno l’ambizione del conoscere e del dire e del rendere noto, è proprio parlare di una cosa per cercare di conoscerla. È sempre così, è reiterato, è terribile (risate)

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