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Sandro Petrone

«Canto la cronaca evocando la poesia»

Lui è Sandro Petrone, uno dei volti più conosciuti del giornalismo italiano, e il suo Cd, Last call (ultimo appello, canto o grido) – come leggiamo dalla presentazione –, «nasce attraverso il rapporto, gli incontri, la condivisione di vicende umane e di decine di storie con coloro che rappresentano la punta avanzata della sensibilità sociale, cioè gli artisti». Il Cd «racconta di un giornalista che da alcuni anni si è sentito spinto a riprendere il cammino di cantautore che aveva interrotto in gioventù, dopo le epoche della Beat generation, della contestazione e del terrorismo, vissute in prima fila assieme ai grandi protagonisti della canzone d’autore italiana». Last call è poi anche un progetto che mette insieme generazioni musicali differenti, di artisti conosciuti in giro per l’Italia anche in questi anni Zero, in cui ci sarà pure la crisi discografica ma di certo non quella dei talenti musicali.

 

La prima domanda è la più difficile (attento al Marzullo che è in me!): Last call è il disco di un cantautore giornalista o di un giornalista cantautore?
Ti rispondo da... giornalista, con i fatti. Da bambino mi rapirono i Cantacronache, quel gruppo di musicisti, letterati e poeti nati nel 1957 a Torino. Me ne parlava mio zio Carlo, poco più grande di me, che leggeva l’Espresso formato lenzuolo e ascoltava i dischi che andava ad acquistare con grande sacrificio. I Cantacronache, e con loro i Gufi, mi fecero conoscere la canzone come impegno sociale.
Poi, mi arrivarono addosso i cantautori che aggiunsero poesia e forza attuale a quel messaggio: De André e Guccini (Flok beat n.1, Due anni dopo etc.), prima di tutti. Gli altri, quelli napoletani come Edoardo Bennato, poi Pino Daniele ed Enzo Gragnaniello, erano semplicemente amici all’epoca. Come anche Tony Cercola, esplosivo folletto di ritmi e melodie, con il quale facevamo coppia fissa. Amici molto più bravi con i quali condividevo la strada, la voglia di andare on the road, come ci aveva insegnato la Beat Generation americana. Amici anche troppo bravi. E così, alla fine, decisi che non potevo cimentarmi con loro e, per continuare a raccontare, presi la via del giornalismo. Da inviato, per restare comunque in contatto con la gente del mondo, on the road. E, allora, se mi chiedi: cantautore giornalista o giornalista cantautore, forse la risposta è in quelle radici dei Cantacronache. Giornalista e cantautore.

 

È fin troppo scontato dire che queste canzoni parlino di te: tutte quelle di tutti lo fanno. Tu però hai cercato di catturare tutta – ma proprio tutta! – la magia dei posti in cui sei stato per farne canzone: da Ground Zero ballad a Nel mare di Tiro, a Chicago blues. Questo forse è il tema portante del disco, mi sbaglio?
Ovunque c’è un filo, un senso che tiene uniti, che accomuna gli uomini e i loro sentimenti. Nella tragedia di Ground Zero («Voci di tutto il mondo, sbriciolate dal calore, spezzettate dal crollo. Come una Babele dorata»), o nella guerra in Libano («Come sentire l’amore anche in quest’aria che esplode, tra le onde calde di Tiro, tra i nostri corpi sfiorati»), oppure nello smarrimento del freddo di una notte a Chicago («Se nel vento di Chicago vaga, se nel freddo inverno, l’anima che va»). È parlare di me, ma soprattutto dell’incontro con gli altri, del riconoscersi che ci rende così simili, vicini, umani, a qualsiasi parte del mondo apparteniamo. Lo stesso effetto di quando in questi giorni ho sentito i ragazzi tunisini raccontare in italiano perfetto la tragedia di trent’anni di dittatura, quella stabilità imposta con la violenza di cui abbiamo beneficiato noi per far sopravvivere il nostro consumismo.

 

Ti è mai capitato di pensare di vivere tutta la vita in un posto lontano?
No, sinceramente sono molto attaccato al mio essere italiano. Essere aperto al mondo e avere la sete di guardare la vita e la storia degli altri e dal punto di vista degli altri («Voglio guardare il mondo dai monti di Teheran Nord, voglio piangere sangue sui binari di Athocia», è l’incipit di Torno a casa blues, manifesto dell’inviato) non vuol dire cercare un esilio dorato, un posto migliore dove vivere. La realtà è la nostra, quella che dobbiamo vivere e affrontare. Evadere dai problemi che ti sono stati assegnai dal destino è un lusso che non credo di dovermi concedere. Per me l’emigrazione è l’estrema rinuncia per sopravvivere. Proprio questo è il senso del Torno a casa blues: viene sempre il momento di rientrare a fare i conti con la tua realtà.

 

Sentendo Canzone di Daniela sembra di rivedere la situazione aquilana, quando la Protezione Civile faceva rientrare la gente nelle case dicendo: «Non c’è pericolo». Possibile non sia cambiato niente?
Nel 1980 non esisteva una Protezione Civile efficiente e professionale, capace di fronteggiare un terremoto in poche ore come quella che l’Italia può vantare oggi. La gente fu lasciata per giorni a morire sotto le macerie. Le vittime furono circa tremila, a L’Aquila poco più di trecento. Dopo quella tragedia ci fu la svolta, nacque la Protezione Civile come la conosciamo oggi. Ma quello che da allora è cambiato ben poco è il senso di privilegio che pervade molti italiani quando esercitano un potere o una funzione pubblica, un atteggiamento che spesso degenera in arbitrio. Inutile negarlo, siamo un paese ricco di ossequienti furbetti e irresponsabili pasticcioni. Le vicende politiche dagli Anni Ottanta ad oggi hanno favorito questo atteggiamento diffuso, quanto patologico, nelle istituzioni. Fino ad arrogarsi il diritto di dire alla gente: «Tornate tutti a casa che non è successo niente…», in Irpinia come a l’Aquila trent’anni dopo.

 

Immagino che tu abbia scritto la canzone prima dell’aprile del 2009. Ma l’hai arrangiata dopo, giusto? Pensi che L’Aquila c’entri negli arrangiamenti?
C’è il rif di armonica che ho aggiunto dopo il terremoto dell’Aquila. L’ho composto attraversando proprio l’Irpinia, diretto da Napoli a Taranto, dove mi attendeva Martino De Cesare per registrare la voce finale e quel bridge su cui originalmente fischiettavo. Guidavo e suonavo. In quelle note trovo ogni volta il senso di una tragedia senza fine, In Irpinia, a L’Aquila, come negli altri terremoti in cui sono stato, dal Friuli (il mio primo servizio come giornalista) all’Armenia.

 

Nel disco sono raccolte collaborazioni che uniscono effettivamente due generazioni diverse di artisti, di cantautori e musicisti, praticamente si va dal ‘Vesuwave’ alla nuova e migliore generazione della canzone d’autore. Tu d’altronde queste due correnti le hai vissute da vicino: come protagonista negli anni Settanta e come operatore culturale oggi. Qual è la differenza di approccio alla canzone tra ieri e oggi?
Negli anni Settanta fu come stappare un tappo, vennero fuori decine di artisti in modo frizzante, profondo, spontaneo, originale, portati dalla fiducia che stavamo cambiando il mondo. Non era fondamentale essere dei grandi musicisti. Contava più il messaggio. Anche se, come accennavo, furono i veramente bravi e innovativi a primeggiare. Poi fummo ‘sconfitti’ nelle nostre ambizioni di trasformare la società. Ma molto era già accaduto e ancor’oggi è vivo, come dimostra il fatto che molti cantautori di allora sono tuttora in pista.
Negli anni Zero il tappo non è ancora saltato. Migliaia di artisti super preparati, che hanno studiato non solo musica e poesia, ma la storia e si sono elevati per essere al livello della piazza globale, dei loro coetanei che incontrano ogni giorno su internet, sono rimasti compressi in una situazione innaturale, a trentacinque anni magari, di disoccupazione intellettuale. Costretti a fare i giullari a comando in programmi televisivi che frustrano il meglio che è in loro. Io amo questi giovani. Quelli che oggi hanno una ventina d’anni, pronti a riscattarci, a riprendersi quello che una gerontocrazia (espressione del furbettismo italiano) non si decide a dargli. Non possiamo rinunciare ancora alle forze migliori del nostro Paese nel nome dei privilegi di un gruppo.

 

Ho notato che le tue canzoni hanno uno spirito narrativo: tu vuoi raccontare con la canzone, storie e sensazioni. Credo che questo sia uno degli elementi principali del genere ‘canzone d’autore’, che però si va un po’ perdendo. Come mai? Credi che sempre meno gente sia disposta ad ascoltare?
Gli amici cantautori di oggi, i ragazzi, mi rimproverano di raccontare troppo, fare troppa cronaca, mentre la vera poesia nasce spesso da quelle rapide immagini e pennellate, da figure retoriche e capacità evocativa della parola modulata in musica, dal coinvolgere richiamando le emozioni profonde che sono in noi. Non c’è niente da capire di De Gregori è il manifesto di tutto ciò. Il Movimento si incazzò e lo processarono perfino durante un concerto (e nacque quell’altro capolavoro che è Ultimo discorso registrato). Direi che io mi tengo in equilibrio fra le due tendenze. In Last call ci sono testi evocativi che poi si trasformano in nuda cronaca di una tragedia o di un amore. Cronaca anche dei sentimenti.
In questo Cd, nel mescolare qualche mia canzone degli anni Settanta con le nuove, ho imparato molto dai cantautori e, soprattutto, dalle cantautrici ventenni. Per esempio, la canzone Per così poco, scritta con Tony Cercola per raccontare la gioia semplice che unisce gli uomini, aveva tre strofe, due ritornelli e un bridge. «Perché tante parole per una cosa che già arriva, che emoziona», mi chiesero le ragazze a cui decisi di farla cantare, le vincitrici delle prime tre edizioni del Premio Bianca D’Aponte per sole cantautrici. E così, lasciammo una sola strofa in quattro lingue: italiano, portoghese, inglese e spagnolo, cantate rispettivamente da Veronica Marchi, Chiara Morucci e Laura Montanari, più l’argentina Rosarillo, compagna di Tony.
E lo stesso è accaduto nel Mi sono perso blues, la bonus track che ho composto e canto assieme alla quarta vincitrice del Premio D’Aponte, Erica Boschiero. Un’energia pazzesca, una grande capacità di far canzone e poesia, di raccontare in musica, che salda la nostra era al presente.

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