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Nicola Conte

Classicismo d’avanguardia

Nel mezzo del tour mondiale - partito il 19 novembre dal l'Auditorium Parco della Musica di Roma, approdato prima in Spagna (20 novembre a Granada e 21 novembre a Cartagena), poi in Italia (il 5 dicembre a Sacile, PN) ed infine in Giappone (a Tokyo il 17-18-19-20 dicembre) - Nicola Conte presenta il suo nuovo doppio album: The Modern Sound Of Nicola Conte - Versions in Jazz-Dub (Schema records).


Il cd ha un pack da vinile: come è nata questa idea?

A mio parere il vinile, ancora oggi, è l’unico modo – vero - per ascoltare musica. Non ho mai apprezzato il cd, infatti il 90% della musica che ho è in vinile. Da questo è nato il progetto grafico dell’album (un cd-vinile), grazie all’apporto dell’amico Yusuke Yoshinaga. Questo formato ha permesso anche di esprimere la mia estetica culturale dell’arte rispetto alla differenza tra analogico e digitale: a mio parere l’analogico mantiene una relazione con la cultura umanistica e una relazione con l’ambiente che il digitale, a causa della sua dimensione “chiusa”, non riesce ad esprimere.

 

Più produttore, musicista, dj o collezionista jazz?

Sono tutte queste cose insieme, non riesco a scindermi. Sono nato in una generazione che è stata esposta a più influenze, all’esplosione della musica, all’esplosione dei dj, delle nuove prospettive. Ho comprato molti dischi, perché l’apporto che ti da l’ascolto è unico: ti lascia brandelli di musica da trasformare. È stato naturale per me fare tutte queste cose: nel tempo mi sono appassionato a tutti i modi per far musica, anche se questo ha comportato uno sforzo maggiore.

 

Tra i 26 brani di questa impressionante collezione di jazz moderno, oltre a pezzi appartenenti alle recording sessions dei precedenti lavori di Conte "Other Directions" e "Rituals", sono presenti otto produzioni originali (“All or nothing at all”, “New Blues”, “Charade”, “Castles in the rain”, “Solo”, “Groovy samba”, “black is the graceful”). Quale criterio è stato utilizzato per la scelta di brani?

Sono tutti brani registrati tra il 2004 e il 2008, propri del mio approccio nei confronti della musica, sopra le righe: trovo interessante lavorare su un brano fatto da altri, conservare le tracce migliori che nel mio flusso di ascolto ‘rimangono’. Riarrangiarle e risuonarle in un secondo momento, donandole l’atmosfera che le è propria, come se fosse un disco anni ’70 ma rivisto con la tecnologia adatta per vestirla con effetti da musica contemporanea. Il motivo principale, il concetto che mi ha spinto a questo lavoro è stata l’impressione che tante raccolte siano “confuse”, mentre io volevo “ordine” per l’ascoltatore – per testimoniare il mio lavoro.

 

L’attività del Fez, movimento culturale da te fondato a Bari all’inizio dei novanta, come è nata?

L’idea del Fez è nata intorno ad un gruppo di persone: io e i miei amici, nel momento in cui sono andato a vivere da solo. Vivevo in una villa sul mare nella quale organizzavo feste, in cui la gente ballava jazz sopra i nostri dischi. L’inizio dei novanta è stato timbrato dalla tendenza per cui i dj hanno cominciato a fare serate, diventando un fenomeno di costume. Per questo, ho deciso di andare a Londra per scoprire da vicino questo fenomeno: lì ho scoperto la mia passione per il mood dei dj, e, grazie ad un amico che ha trovato un locale per suonare, abbiamo iniziato a far serate in stile St. German nella Nouvelle Vague, ricca cioè di studenti universitari bohemienne. E, aggiungo, che iniziare non è facile quando fai qualcosa di diverso, quando devi scontrarti con il conformismo. Inoltre, Bari è lontana da Roma e Milano e la stampa c’ha messo molto tempo per accorgersi del nostro fenomeno. In una realtà come Bari puoi sentirti isolato, io per fortuna avevo contatti anche internazionali, tanto che del Fez se ne sono accorti prima all’estero che in Italia. Assurdo.

 

Quali sono le tue influenze? Ho visto le colonne sonore, con la riscoperta di autori italiani come Piero Piccioni ed Ennio Morricone, e la musica brasiliana, la bossa nova, la musica afroamericana, Vinicius De Moraes e Caetano Veloso…

A dir la verità prima del duemila ero molto legato alle colonne sonore, perché secondo me descrivevano la società. Poi, col tempo, mi sono avvicinato alla samba, al jazz, a tutti gli artisti che riuscivano a lasciarmi una traccia delle loro cultura.

 

Anche influenze letterarie: il poeta inglese Dylan Thomas e l'americano Langston Hughes. Da dove arrivano?

È una passione che mi accompagna da sempre: partendo da quei testi, paradossalmente ho creato la mia musica. Oggi è strano parlare di poesia, il mondo ora rifiuta per ignorare quel che non è commerciale. La poesia è l’asse portante di un certo modo di concepire la società e l’individuo. L’influenza dei poeti è fortissima, e deve essere fortissima, perché con la poesia puoi evadere e, soprattutto, ti lascia una traccia profonda, che è la grave mancanza d’oggi, riflettuta anche nella musica, rigettata se non è da classifica.

 

In tutte queste influenze, hai trovato la tua estetica musicale: potresti dirci le sue caratteristiche principali?

C’è una questione di estetica e di stile che trova il suo significato in quello che voglio trasmettere. La risposta è nelle forme che scelgo: in un’ottica modernista, lavoro su un arco di tempo molto ampio, prendendo in considerazione anche correnti musicali di 40/50 anni fa, che, però, sono ancora moderne:  è propria della mia estetica la purezza di un classicismo d’avanguardia che ha trovato espressione, per esempio, nelle registrazioni di Coltrane, negli scenari percorribili, avanguardistici, che riusciva ad aprire; caratterizzati da un’atmosfera rarefatta che comprendeva quell’apertura religiosa densa del rapporto Uomo/Dio in direzione di una spinta estetica, propria, tra gli altri, anche di Miles Davis. In studio, con i musicisti, le tecniche di registrazione, e gli strumenti adatti cerco di digitalizzare quella musica per decontestualizzarla in direzione di una contestualizzazione nel contemporaneo.

 

Hai girato molto per il mondo, hai musicisti di livello internazionale, ma in “Rituals” hai utilizzato le voci italiane di Chiara Civello ed Alice Ricciardi: il calore e un'intensità tutta italiana, perché?

Perché per me è importante unire la realtà italiana con collaborazioni provenienti dal resto del mondo. Noi siamo confinati ad una dimensione “italiana” di mera opportunità, ma ci sono, in Italia, personalità di livello internazionale: ci sono musicisti jazz di livello, almeno da una decina d’anni.

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