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Marco Ongaro

Continuando a celebrare matrimoni

Marco Ongaro a fine 2016 ha dato alle stampe Voce” (D’Autore/Azzurra Music), un album tra i più singolari, e densi di arte in forma di canzone, degli ultimi tempi. Dopo averlo recensito (leggi qui l'articolo), era giocoforza scambiarci due parole, sempre per quella sempiterna legge del giovane Holden riguardo alla voglia di chiamare al telefono gli autori che ci hanno lasciato senza fiato. Intervistare Marco Ongaro è qualcosa che dovrebbero fare tutti, una volta nella vita. Conversatore amabile e curioso, Ongaro ha la rara capacità di aprire nel discorso principale splendidi e accoglienti percorsi laterali, arterie turistiche di grande interesse che spaziano tra riferimenti letterari e cinematografici, aneddoti e illuminazioni.

Ciao Marco, è davvero un piacere parlare con te!
Anche per me è sempre un grande piacere poter parlare, vuol dire che l’afasia non mi ha ancora colpito e che sono ancora vivo. Come ci ricorda Vonnegut, il problema degli spiriti incorporei è che hanno difficoltà a fare vita mondana…

Beh se mi cominci così, citando il buon vecchio Kurt, non posso che abbracciarti a distanza!
Non si può vivere senza Vonnegut! (ride)

Sottoscrivo in pieno. Ma torniamo a noi: io direi di cominciare a parlare di questo album, Voce, da poco dato alle stampe. Tu racconti, nella presentazione del CD, che nasce su istigazione di Gandalf Boschino, che tra l’altro è un produttore dance, in teoria un mondo agli antipodi, che ti propone un disco così, in presa diretta. Ecco, la domanda è: perché prendersi questo rischio, di un album nudo, senza filtri, senza arrangiamenti, solo voce-piano o voce-chitarra, senza sovraincisioni, e per di più di brani inediti? Non mi viene in mente nulla di simile nella canzone italiana, finora.
E’ quello che gli ho chiesto anche io. Tu forse saprai che io nel lontano ‘83 ho avuto un trascorso “segreto” come O’gar: l’unica volta che sono andato in classifica l’ho fatto in Spagna con un brano dance! C’è quindi una forma di feticismo nel produttore dance che viene da me a propormi un disco da cantautore, senza arrangiamenti, c’è una voglia di primeggiare fuori dal proprio campo e di diventare quindi metaforici, perché la metafora cosa è, se non uscire da un campo per viaggiare in un altro?

Tra l’altro, tornando a Gandalf Boschini, ho letto da qualche parte che, oltre a lavorare come produttore musicale, è anche titolare di una ditta di derattizzazione: come è ‘sta cosa?
Lui è un grande disinfestatore, il che lo rende ancora più misteriosamente affascinante. Ci sono diverse bestie nella sua gamma: topi, insetti, vespe. Ricordo un film di Truffaut, “Mica scema, la ragazza!”, in cui il protagonista, uno dei grandi amori di questa signora di dubbia moralità, era proprio un derattizzatore che continuava a parlare del proprio mestiere con una passione straordinaria, annoiandola completamente. Gandalf non è così, non parla mai del proprio mestiere, al punto che ci è preso il dubbio che sia una copertura, per darsi un tono. (ride)

Nell’album c’è un pezzo, Elena, che credo sia un pezzo esemplificativo della tua cifra artistica. Mi spiego meglio: mi pare che il tuo modo di inserire la presenza femminile nelle canzoni sia particolare, perché spesso racconti la donna non dal punto di vista dell’io-amante, come in genere si tende a fare, ma da un punto di vista laterale, esterno, anche se poi vicinissimo.
Sai, la terza persona è per convenzione il punto di vista oggettivo della narrazione, o meglio, lo sembra: esiste la finta terza persona che è un artificio narrativo per cui è come se si fosse dentro la testa del personaggio. Ecco, quello che ho fatto è stato cercare di entrare dentro la testa di questa donna bellissima sul limitare dello sciupìo degli anni. In effetti questa considerazione attraversa quasi tutti i pezzi dell’album.

Come in “Il verbo <<era>>”, no?
“Lei era così bella”:
questa frase, che ogni tanto a qualcuno scappa, è terribile, perché puoi dirlo di una persona morta, ma quando lo dici a una persona viva è proprio scandire la violenza del tempo su una bellezza. Personalmente sono commosso davanti a un bellissimo viso che è segnato dal tempo e quindi rammenta un fasto straordinario, che però è come un monarca che sta per abbandonare il trono, come Re Lear. 

Sai, quello che dici mi fa ricordare un passo di “Casa d’altri” di Silvio d’Arzo, quando scrive “La sua bellezza sfiorava sempre la perfezione, senza mai raggiungerla, che poi è l’unico modo di esserlo davvero, belle, e per sempre”.
Però vedi il verbo all’imperfetto, “sfiorava”, come è vicino a “sfiorire”? 

A proposito, ne “Il verbo <<era>>”, ho colto una citazione, non so se volontaria o meno, di un verso di De Gregori!
Forse lo cita, però dovresti ricordarmi dove. 

In “Niente da capire”, quando canta “Io amo le sue rughe, ma lei non lo capisce”, invece tu scrivi “Io amo le sue rughe/ mi trova un po’ perverso”. Mi chiedevo se fosse una citazione inconscia o meno…
No, non è inconscia, è che, come diceva Borges, “La memoria e l’oblio sono la stessa cosa”, quindi quel verso l’ho dimenticato e poi l’ho ri-assunto, che è diverso dalla citazione. Hai ragione, l’ho citato senza ricordarmene, il che è stupendo! E la metrica è la stessa! Vedi, essendo di quella generazione che Alessio Lega chiamava “gli ultimi cantautori del secolo scorso”, io, Max Manfredi, Capossela e qualcun altro siamo profondamente post-moderni. Abbiamo inglobato da subito tutta la canzone d’autore precedente, a volte inconsapevolmente, a volte consapevolmente per giocarci sopra ed assumere, in modo quasi parassitario, ma anche critico, la forza dei versi che ci hanno preceduto.  

C’è  anche una canzone particolare nell’album, un simil-rap sulla Costituzione che tu scrivesti nel 2009, ma che è tornata prepotentemente di attualità nei mesi scorsi. Cosa ti ha spinto a scrivere  “Costi quelche costi”?
Beh, all’epoca mi fu commissionata dall’Università di Verona che mi chiese appunto di scrivere una canzone sulla Costituzione, poi al momento di inciderla e arrangiare le musiche sono finito a Genova da Vittorio De Scalzi dei New Trolls. Vedi, nel rap la melodia praticamente non esiste, ma proprio per questo l’armonia è ancora più importante. In questo brano hip hop andiamo più verso il modale che verso il tonale, e la cosa che mi incuriosiva era fare un pezzo hip hop solo sul pianoforte, questa è la cosa insolita: togli la batteria, qualunque ritmica e lasci il pianoforte. 

Tra l’altro, notavo che, fatto curioso, recentemente è uscita un’altra significativa canzone sulla Costituzione, ed è anch’essa un rap, di un gruppo storico come gli “Assalti frontali”, non so se hai avuto modo di sentirla. Si intitola “Il rap della Costituzione”.
Sì, l’avevo sentita, ma sai, non è poi così curioso. Sai perché ne ho fatto un rap, a suo tempo? Perché ti trovi davanti a queste parole scritte, e vai alla ricerca di un codice. Esiste già un codice legale in quelle parole, ma tu cerchi il codice delle rime che puoi fare per renderla fruibile in un canto. E poi c’è questa speranza che c’è una Carta fatta di parole, che poi un giorno canterà, assumerà una melodia. La cosa fondamentale della Costituzione Italiana è che è precettiva per certi aspetti, ma è programmatica per altri: non è mai realizzata completamente, ma è messa in un futuro che siamo noi a dover realizzare. Ecco, quando sarà realizzata forse canterà. Io credo che questa sia una delle canzoni in cui paradossalmente forma e contenuto hanno raggiunto la massima identificazione. 

Da tuo vecchio estimatore, una cosa che di te apprezzo in particolar modo è che tu cerchi di far trapelare emozioni e sentimenti senza dirli esplicitamente, ma facendoli sprigionare da personaggi e gesti, correlativi oggettivi lucidi e potenti, colti con estrema esattezza, che, come insegna Calvino, è una virtù da preservare. Mi sbaglio?
Effettivamente il correlativo oggettivo è una delle grandi teorizzazioni poetiche di cui ho fatto tesoro. E il Modernismo e ciò che si rifrange nella produzione degli ultimi cantautori del secolo di cui ti parlavo prima. Il Modernismo ha quel che di Barocco che viene da una costruzione poetica del passato, mescolata anche a delle “trivilità” che potrebbero essere il taxi nell’attesa, il rombo di un motore, questi oggetti quotidiani che vengono inseriti nella poesia. E’ la grande lezione di Eliot che arriva fino a me, ma anche al mio grande amico Max Manfredi, per esempio. 

Per esempio, un altro grande pezzo, tra i tanti, di questo tuo ultimo lavoro è Essi vivono, la fotografia di un ménage di coppia che si regge su un amore ossessivo, che poi diventa reciproca dipendenza, no?
Spesso viene veramente scambiato per il vero amore, diciamocelo. E’ quel tipo di passione in cui ci si prende e ci si lascia, “né con te, né senza di te” come cantano gli U2. Io l’ho trattato con un titolo preso da un film dell’orrore di Carpenter, e c’è questa ambiguità: “essi” li rende già non-umani, ma d’altronde non sono neanche morti. 

Senti, per finire, ma anche per ricollegarci a quanto dicevi in apertura, da qualche tempo su You Tube circola un filmato della TV spagnola che ti inchioda: eri ai tuoi primissimi passi, nel 1983 come autore e cantante di italo-disco. Riguardandoti, che impressioni ti vengono in mente? E’ un esordio che tendi a rimuovere o che guardi con divertimento?
E’ incredibile, c’è qualcuno che continua a togliere questo video, e qualcuno che continua a rimettercelo! Mi misero questo balletto dietro, perché io ero incapace di muovermi, e si vede, perché ero del tutto fuori ruolo. Il balletto non è che giovi, perché fanno delle cose completamente slegate. D’altronde io sono arrivato e li ho trovati lì, in cinque minuti abbiamo registrato la cosa e non ci siamo mai più visti. Una volta, a una trasmissione in Francia, mi hanno messo vicino una sassofonista che non suonava il sax, ma che mimava un po’ a caso. Son quelle cose che succedevano all’epoca… E poi, tornando da Parigi, all’aeroporto, era l’86, mi sono imbattuto in Den Harrow, e lì, incrociando i suoi occhi ho capito che 0’gar era morto. (ride) 

E poi, per fortuna, è nato Marco Ongaro. Ecco, per tornare ai tuoi esordi da cantautore, io ritengo che i tuoi primi album, parlo di “AI” (1987) e “Sono bello dentro” (1990) siano tra le cose più notevoli della canzone d’autore degli anni ’80, ma ebbero forse la sfortuna di uscire in un tempo poco ricettivo per quel tipo di proposta.
Beh, tu calcola che “AI” uscì nel 1987 dopo molta fatica, perché in realtà io ero già andato al Tenco, invitato come cantautore nel 1982, prima che nascesse O’gar, che forse nacque anche come reazione al fatto che nulla era sortito da quella mia partecipazione. Nulla accadde perché negli anni ’80 i cantautori erano ormai un episodio finito, quelli che c’erano continuavano, gli altri… E’ come dice Amleto, “di matrimoni non se ne celebrerà più nessuno”. Tant’è vero che nell’84 la prima Targa Tenco, che venne istituita con una certa lungimiranza per la Migliore Opera Prima, la dettero a Lucio 48, altro amico perduto, e poi fino all’87, quando hanno premiato me, non l’hanno più consegnata perché semplicemente non c’erano opere prime. La discografia era orientata completamente da un’altra parte: fioriva la dance italiana, che ancora adesso è ricordata nel mondo. 

Beh, dieci anni prima avresti trovato un RCA o una EMI che avrebbero investito in un prodotto artistico di questa qualità, e che avrebbero dato una veste produttiva di primo ordine.
Io sono andato alla RCA, che era diventata poi BMG Ariola, ma non ne è risultato niente, perché ormai era tutto smatellato, e forse anche di questo risente questa visione vagamente decadente e postmoderna della creatività dei nuovi cantautori che, per una questione di anagrafe spietata, sono arrivati nel decennio successivo.  

Invece escono, quei primi tuoi album, a fine anni ’80 con la Rossodisera del compianto Renato Venturiero, che però non ha gli stessi mezzi, e riascoltando oggi quei lavori è chiaro che i suoni e gli arrangiamenti erano figli della necessità di lavorare al risparmio, no?
Gli arrangiamenti erano una tristezza… Fin da allora ho maturato un certo fatalismo riguardo gli arrangiamenti, perchè era impossibile fare qualcosa di proprio. Un po’ come, mutatis mutandis, era capitato a Orson Welles per il montaggio: dopo il primo film non è più riuscito a fare il montaggio di un suo film. Ecco, lì gli arrangiamenti non erano mai in mano all’artista. La prima volta erano tutti elettronici, ma nel finale un co-produttore di Venturiero esce e dice: “Ma adesso vanno i rullanti aperti!”, per cui TOM, PUM!, echi e riverberi sul rullante dall’inizio alla fine a coprire tutto.
Poi in “Sono bello dentro”, che è già più garbato, anche lì c’è un po’ il tentativo del produttore di dare una veste commerciale, tentativo sempre disgraziato per un cantautore, la cui veste commerciale è quando trovi la sua anima musicale. C’è sempre qualcosa di sfalsato a cui mi sono dovuto abituare, cosa potevo fare? 

Ma non ti è mai venuta voglia, poi, di riprendere qualcuno di quei pezzi per inciderli in un’altra veste sonora più consona?
Questa è un’idea interessante, ma ho sempre avuto canzoni da pubblicare, in seguito, come “Archivio Postumia”, scritto nel ’90, che doveva uscire sempre per Ventutiero, poi è uscito addirittura nel 2005, ed è stato interessante perché c’era chi trovava delle influenze di artisti che sono venuti dopo il ’90, tipo gli Avion Travel. Dopodichè, un disco come “Canzoni per adulti” del 2010 è assolutamente arrangiato come volevo io. Un po’ di giustizia l’abbiamo fatta. Comunque, quello che dici tu potrebbe essere un’idea, è che finora ogni volta che mi mettevo a incidere qualcosa avevo già delle altre canzoni. Non mi sono ancora arricchito.

Foto in homepage di Valeria Bissacco

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