Nei concerti ..." />
Francesco Baccini
Nei concerti parli spesso, prima di cantare Genova Blues, del tuo amico-mito Fabrizio De André. Come è nata la
vostra amicizia?Francesco contro l'Impero
Incontriamo Francesco Baccini a Trezzano sul Naviglio, un paio
d’ore prima di un concerto. Fuori fa freddo e ci rifugiamo prima in un bar, poi
nei camerini, mentre alle nostre spalle un gruppo di fan venute da mezza Italia
rumoreggia giustamente chiedendosi quando diavolo finiremo l’intervista. Noi
potremmo e dovremmo parlare dell’ultimo disco inciso con Povia, e di tante altre cose successe ultimamente a Francesco. Ma siamo tre
genovesi seduti davanti a un caffè in piena terra lombarda, e alla fine non
possiamo che parlare di quel che più ci fa arrabbiare, di quel che più ci
manca.
Ci siamo conosciuti a Milano da
emigranti da cento chilometri; noi genovesi ci sentiamo emigranti a Milano,
perché fatto il Turchino si apre un altro mondo. I genovesi pensano di essere
sempre al centro dell’attenzione…pensano che in tutto il mondo ora si stia
parlando di loro, in realtà superato il Turchino nessuno parla di loro. Forse è
un retaggio del passato, di quando eravamo una Repubblica. Con Fabrizio ci
siamo conosciuti a Milano e abbiamo incominciato a frequentarci. Il nostro è
stato un incontro molto particolare. Io ero in un locale, il “Magia”, a quel
tempo molto trendy, è il locale dove sono nati Elio e le Storie Tese,
tanto per fare un esempio… pensa che il mio primo single Mamma dammi i soldi è stato arrangiato da quello che allora era un
ragazzino e che si chiamava Rocco Tanica. Insomma, io stavo presentando “Cartoons”
al “Magia” davanti a una quarantina di persone, a quel tempo ero totalmente
sconosciuto o quasi, avevo giusto fatto qualche apparizione ad una trasmissione
notturna di Mollica dal titolo “Per
fare mezzanotte”. Durante la presentazione mi è sembrato di scorgere tra il
pubblico uno che assomigliava a De Andrè,
ma mi sono detto “figurati se è lui”, oltretutto lui non si vedeva quasi mai in
giro. Poi vicino ho visto una donna bionda che sembrava Dori Ghezzi, ma
non ci ho fatto molto caso. Alla fine della serata mi hanno detto: “Guarda, c’è
De Andrè che vuole conoscerti”. Insomma lui aveva ascoltato le canzoni che
suonavo al piano da Mollica, perché lui di notte era sempre in piedi. Voleva
che gli dessi una mano su un testo del disco “Le nuvole”. La canzone era Ottocento e infatti mi ha anche messo
nei ringraziamenti, voleva qualche frase ironica. Io ho inserito qualcosa, tipo
“maschi, femmine e cantanti”. Poi gli proposi uno scambio, e gli ho chiesto di
cantare con me Genova Blues.
Poi l’amicizia è continuata…
Poi ci siamo frequentati
parecchio, andavo a casa sua e devo dire che mi faceva anche effetto, perché
lui per me era davvero un mito, una voce di cui per lungo tempo non si
conosceva neppure il volto e di colpo mi trovavo ad andare a mangiare da lui.
Infatti ogni tanto mi scappava di fissarlo e lui si incazzava: “Belin, smettila
di fare il fan”. Con lui si parlava di qualsiasi cosa tranne che di musica.
Potrei raccontare parecchi aneddoti divertenti sulle nostre uscite. Una volta
per esempio nel 1989 voleva accompagnare a Sanremo Dori Ghezzi che partecipava
al Festival, mi ha chiamato e mi ha detto: “Dai accompagnami che mi rompo le
palle da solo, e poi c’è Dori che canta, ci tiene”. Allora siamo andati a
Sanremo e lì nessuno se lo filava di pezza. Una sera ci siamo trovati in un
ristorante con Dori – conta che al tempo io frequentavo il “Costanzo Show” per
cui ero abbastanza conosciuto – ed è arrivato il proprietario del locale e ci
ha passato un foglio chiedendoci di autografarlo. Dori lo ha firmato e me lo ha
passato, io lo ho firmato e lo ho passato a Fabrizio. A quel punto il
proprietario del ristorante mi si è avvicinato e mi ha chiesto: “Ma chi è quel
signore vicino a lei?”. Fabrizio si è messo a ridere e ha risposto: “E sì, ogni
tanto canto anch’io”. D’altronde lui davvero era uno che non si faceva vedere
praticamente mai, i suoi passaggi televisivi e radiofonici li conti sulla dita
della mano. La grande popolarità per lui è venuta, paradossalmente, dopo la
morte. Questa è una cosa tipicamente italiana. Anche se, poi, a ben vedere non
sempre accade di essere rivalutati da morto. Nell’ultimo disco io ho fatto una
cover, per esempio, di Ivan Graziani che è uno di quelli passati nel
dimenticatoio; la stessa cosa si può dire di Pierangelo Bertoli.
Fabrizio invece era già mitico da vivo, era un personaggio comunque, aveva un
carisma e una voce incredibili.
Ma prima di finire a Milano, quando eri a Genova, come ti eri
avvicinato alla musica?
Ho iniziato con la musica
classica. Fino a 18 anni non mi passava neanche per la mente la possibilità di
fare canzoni. Io volevo suonare il clavicembalo, mi compravo i dischi di musica
medioevale e rinascimentale. Avevo un amico, Bruno Buzzone, che oggi
tristemente insegna alle Medie, con cui condividevo questa passione per la
musica classica. Lui faceva il Conservatorio da interno io da esterno;
frequentavo, infatti, il liceo Scientifico Colombo con esisti disastrosi. Pensa
che ho finito a 21 anni. I miei compagni mi prendevano per il bidello! La
musica leggera la guardavo con distacco snobistico di chi ascolta abitualmente
Chopin, Mozart e Beethoven.
E con questa preparazione classica come sei approdato alla canzone?
Semplice, mi sono frantumato una
gamba. Sono dovuto rimanere quasi immobile per mesi, e pensare che ero una
giovane promessa del calcio, così ho incominciato a sentire anche altre cose.
Mio cugino, che aveva qualche anno più di me, mi portò dei dischi da sentire, tra
cui quelli di Fabrizio. Io l’unico movimento che riuscivo a fare era quello di
inserire i dischi nel mangiadischi per cui passavo le ore ad ascoltarli. Ero
affascinato dai primi dischi di De André per il loro gusto un po’ macabro tipo La ballata dell’amore cieco. Per me la
canzone a quei tempi, invece, era Gianni
Morandi, Canzonissima. I testi di Fabrizio erano l’opposto di quelli che
sentivi nelle vie ufficiali che erano Radio Rai, Rai Uno e Rai Due. Mi
piacevano queste storie noir, era come ascoltare un giallo. Poi ho cominciato a
sentire anche altri autori come Paoli e Tenco. Ma ad ogni modo
ancora non pensavo a scrivere.
Nelle tue interviste citi spesso gli autori che in qualche modo ti
hanno influenzato o che comunque hanno avuto un peso notevole nella tua
carriera, come appunto De André,
Jannacci, Conte. Come vedi, invece, l’attuale panorama musicale italiana?
Guarda, l’ho scritto l’altro
giorno nel mio blog: La musica è finita, arrivederci. In Italia siamo al quinto
mondo, perché il terzo è già avanzato in confronto. In Italia ci sono dei
filtri, per cui certa musica alla radio non passa se non è omologata. Il
problema è che non esce nulla di nuovo da vent’anni a livello internazionale:
le ultime novità sono state la new wave degli anni ottanta con i Talking
Heads e il rock dei Police, dopo è solo maniera, si è giocato a
mischiare un po’ i generi. Si è incominciato a parlare solo di sonorità, di
suoni. La gente è stata educata a sentire i suoni; io la vedo da compositore e
sento che dietro manca la sostanza e quindi alla fine la musica si è ridotta ad
essere solo suono senza vera sostanza. Poi, sai, se i suoni li fa Peter
Gabriel è un conto, dietro c’è tutta una ricerca seria, ma se i suoni me li
fa DJ Prezioso… purtroppo ha vinto Cecchetto, hanno vinto loro, abbiamo perso
noi. Oggi è tutto un calderone e non puoi neppure lamentarti, altrimenti passi
per un rompicoglioni.
Diciamo che oggi mancano anche punti di riferimento che invece la
vostra generazione cantautoriale aveva.
Io credo che in molte cose noi siamo
rimasti agli anni ottanta: i manager, l’edonismo reaganiano, il berlusconismo
come continuazione del craxismo. Anche tutti gli attuali punti di riferimento
sono pre anni Ottanta. La fortuna della mia generazione è che avevamo delle
figure di riferimento talmente grosse che ti ci potevi aggrappare.
Non è un caso che oggi si ricerchi il nuovo Pasolini, il nuovo De
André.
Esatto. L’ultima rivoluzione
culturale è stata il Sessantotto che, intendiamoci, ha fatto anche dei disastri
enormi, cancellando per esempio la meritocrazia. Ma se non altro è stata una
rivoluzione. Oggi invece nessuno riesce a farsi sentire, riesce a dire cose
scomode. Il potere è riuscito a ingabbiarci. Ecco, ci vorrebbe uno come
Fabrizio, che era talmente al di sopra delle parti che poteva permettersi di dire quello che voleva.
Anche se, poi, anche lui è stato dopo morto assorbito dal sistema, il
suo messaggio edulcorato.
Sì, esatto; ma perché è morto.
Finché era vivo dentro quel sistema non c’entrava proprio, quando muori ti
fanno dire quello che vogliono. Quando c’è stato il tributo a Genova, sul palco
del Carlo Felice ho visto salire gente che con lui non c’entrava nulla. Perché
poi alla fine Fabrizio di amici veri, che lo frequentavano, che andavano spesso
a casa sua, ne aveva pochi. Metà della gente che è salita sul palco a Fabrizio
non piaceva. Jovanotti non ha mai ascoltato un disco di De André; è
arrivato lì e ha cantato La cattiva
strada che sembrava fosse cresciuto con De André. Una volta ho letto una
sua intervista in cui lui diceva: “De André, che palle”… io a quelli che fanno
la rivoluzione con la scritta sul cappello “Jo” non credo. D’altronde Jovanotti
non lo amo fin dai tempi in cui lo citavo nella canzone Antonello Venditti.
A proposito di Antonello Venditti,
nelle tue canzoni tu sei molto abile oltre a citare a fare delle vere e proprie
mimesi musicali di altri brani, di diversi stili.
Credo sia un dono di natura
questa mia eclettismo musicale.
In questo caso conta anche la preparazione musicale.
Beh sì, il problema è che il
successo dei cantautori ha sdoganato un sacco di gente a mettersi su un palco a
cantare, perché la maggior parte dei cantautori non erano certo degli animali
da palcoscenico e tanto meno dei musicisti. Se tu pigli un artista straniero e
gli metti uno strumento in mano ti fa un concerto, in Italia siamo in pochi a
poter fare una cosa del genere.
A proposito della canzone Antonello
Venditti, quanto hai pagato per la satira dell’album “Nomi e cognomi”?
“Nomi e cognomi” l’ho sto pagando
ancora adesso. Soprattutto per la canzone su Giulio Andreotti e per il video con Renato Curcio, roba da interrogazione parlamentare. Io arrivavo da
due dischi dove dominava un’ironia stralunata.
Senza bersagli precisi e pericolosi…
Sì, esatto. Parlavo di
preservativi, ma lo facevo alla mia maniera. Non ero considerato uno politico
anche se poi a mio modo lo ero. Di colpo sono stato percepito come uno
pericoloso. Sai, mi presento in Tv a fare Giulio
Andreotti vestito da prete con cinque suore sottobraccio! Infatti in RAI ci
son tornato molti anni dopo con “Music Farm”,
e ci sono tornato perché mi avevano proposto di stare in video ventiquattro ore
al giorno per due mesi. Quel disco l’ho pagato pesantemente, sia da destra che
da sinistra. Specialmente in questo Paese dove devi avere degli agganci
politici, io sono assolutamente un cane sciolto che parlo a mio nome e a nome
di nessuno, quindi sto sulle scatole a tutti.
E sei facilmente colpibile…
A me da Fazio non mi hai mai
visto, nel giro Dandini-radical chic non ci sono. Sono troppo tamarro per
essere radical chic, i radical chic li ho sempre odiati. Se andiamo alle
elezioni oggi il Partito Democratico quasi non supera lo sbarramento. Tu non
puoi presentarti come un partito di massa quando non c’è più la massa, e non
c’è più la massa perché tu in tutti questi anni l’hai presa a calci in culo,
perché ti vedi nei salotti e fai il fighetto. Il Partito Democratico è un
partito di fighetti e io fin da piccolo i fighetti li picchiavo. Al massimo sono
di quella sinistra proletaria…
Che però sembra essere sparita anch’essa…
Sparita o se non altro non
rappresentata.
Tornando alla tua produzione, come mai ti sei aperto negli ultimi
dischi a collaborazioni con altri artisti, dopo aver lavorato prevalentemente
da solo?
Ma perché alla fine a me piace
collaborare; è più divertente scrivere una canzone in due, c’è uno scambio e
poi proprio perché ho fatto otto album tutto da solo avevo paura di ripeterti.
Come tanti artisti. Invece con la collaborazione fai un lavoro da piccolo
chimico, provi ad unire le cose e vedi cosa esce fuori. Mi piacciono le
contaminazioni, soprattutto con artisti che apparentemente sono lontanissimi e
più sono lontani e più è divertente. Negli ultimi due album ci sono diverse collaborazioni,
con Povia, Grignani,
Nascimbeni, Santoro. Già anni fa avevo fatto un album di
collaborazioni, “Baccini and best friends”, che non è stato assolutamente
supportato dalla mia casa discografica di allora. Tra l’altro quel disco mi
piace molto, ci sono cose che amo come la versione di Margherita Baldacci con la voce recitante di Ferruccio Amendola, o come Mauro e Cinzia con i Nomadi. Come
dicevo a me diverte mischiare le carte, se no mi annoio. Mi piace stare con gli
altri e d’altronde non sono solo anche da solo, perché dentro di me ci sono
diversi omini, dipende al mattino chi prende il comando.
A proposito di Povia e Grignani, quali sono gli autori dell’ultima
generazione che senti più vicino o che comunque apprezzi di più?
Delle ultime ondate, Bersani;
soprattutto all’inizio mi piaceva molto, anche perché lui ha saputo creare un
suo linguaggio. Oggi, infatti, la difficoltà, è la riconoscibilità; trovare un
proprio linguaggio. E poi, naturalmente, gli autori con cui lavoro come appunto
Povia e Grignani. D’altronde l’amicizia presuppone sempre la stima.
Ed Elio e le Storie Tese, siccome hai citato prima Rocco Tanica?
Con Elio ci siamo sfiorati e
incrociati. Una volta mi ha fatto fare una cosa folle: un disco di sua
produzione in cui ha fatto cantare in sardo me, Guccini, Ligabue con i
Tenores di Neoneli. Il pezzo mio l’ho messo nella pagina di MySpace perché
è molto divertente.
Si parlava prima di mancanza di novità nel panorama musicale, non credi
che ciò dipenda anche dalle scelte di certi discografici?
Negli ultimi vent’anni
discografici, major e network hanno massacrato la musica. La musica oggi è un
sottofondo di tutte le cazzate che ci dicono, non sai neppure chi canta, fanno
tutti lo stesso genere. E questi poveri ragazzi che oggi vogliono suonare si
ritrovano ad “X Factor” a copiare dei modelli. Mi viene in mente il disco che
ha fatto Sting con le musiche di John Dowland; beh, quel disco in
Italia non se l’è filato nessuno, perché in radio non è passato e stiamo
parlando di Sting. Anche io ho avuto dei manager veramente terribili, come le
mie case discografiche. Pensa che io volevo fare Portugal metà in genovese e metà in brasiliano, per le assonanze
linguistiche tra il portoghese e il genovese e lo sono andato a chiedere al
direttore della CGD. Lui ha nicchiato e poi mi ha fatto sentire il cd di un
gruppo cubano con cui poter collaborare. Sono andato a casa lo ho ascoltato e
sono rimasto entusiasta. Li abbiamo contattati, erano in Spagna a suonare, e si
sono detti d’accordo a collaborare. A questo punto il direttore si è tirato
indietro, dicendo che sarebbe stata un’operazione poco fruttuosa perché tanto
quel gruppo avrebbe avuto vita breve. A malincuore ho rinunciato. Bene, l’anno
dopo esce “Buena Vista Social Club”, il gruppo era quello di Compay Segundo:
io avrei avuto un duetto di Portugal
con Compay Segundo l’anno prima del film, cosa avrei dovuto fare, rincorrere il
direttore della CGD? Questo è il grado dei discografici italiani, se avessi
proposto un duetto con la Parietti avrebbe accettato subito. Noi in Italia
siamo messi male, poi ovviamente la crisi di novità è mondiale anche perché
forse la forma canzone è arrivata al capolinea. Dopo il rap e la fine della
melodia non c’è più niente.
Anche Battisti sembrava essere arrivato a questa conclusione, con la
destrutturazione della canzone nella sua ultima produzione…
È vero. In Italia, poi, noi ci abbiamo messo il carico da mille; fare
l’artista oggi in questo Paese è deprimente. I tempi futuri li vedo buissimi,
si continua a remare contro vento, finché non si sveglierà una generazione che
dirà: ci avete rotto! Ma il problema è che le rivoluzioni le fanno i giovani e
oggi i giovani sembrano più vecchi dei vecchi. Anche se poi la storia può
cambiare in quarantottore per cui noi siamo convinti che questo sistema andrà
avanti per sempre, anche gli antichi romani lo pensavano, basta un attimo. Se
allarghiamo il discorso, vedo che anche il dominio statunitense sta per
crollare. Attenti: siamo di nuovo vicini alla fine dell’Impero d’Occidente.
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