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Tommaso Cerasuolo (voce e coautore Perturbazione)

Il lessico sentimentale dei Perturbazione

I Perturbazione sono quanto di meglio il nostro paese ha espresso nella difficile arte di coniugare certi linguaggi pop/rock con quelli della canzone “alta”. Hanno dato da poco alle stampe “(Dis)amore”, un album di grande importanza, per loro e per la musica italiana odierna. Un lavoro articolato, ma anche di grande impatto che li riporta sui loro altissimi livelli. E infatti non è sfuggito ai giurati del Club Tenco che, pur essendo uscito in zona Cesarini, lo hanno subito inserito nella cinquina nella categoria “Miglior album in assoluto”.
Di questo disco, ma anche di tante altre cose, abbiamo voluto parlare con Tommaso Cerasuolo, voce e coautore della band torinese, in una corposa intervista non di rado intervallata da belle risate, un’amichevole chiacchierata a (è proprio il caso di dirlo) cuore aperto.

Non avete nascosto che per voi “(Dis)amore” è un album particolarmente importante, e non solo perché è, banalmente, il più recente. In particolare l’avete accostato proprio al disco di cui parlammo l’ultima volta che ebbi occasione di sentirti, una decina di anni orsono, cioè “Del nostro tempo rubato”: cosa lega questi due lavori?
Ci siamo resi conto che i nostri dischi migliori sono quelli imperfetti, quelli in cui abbiamo rischiato di più. Arriviamo da un percorso che parte da “Musica X” del 2013 e “Le storie che ci raccontiamo” del 2016. “Del nostro tempo rubato” e “(Dis)amore” sono due dischi molto diversi, ma hanno in comune il fatto che l’idea di base non è quella di centellinare, di andare per sottrazione, ma di “sbracare” un pochino. E quando succede forse è meglio, perché forse non facciamo dei dischi perfetti, ma vengono fuori dei dischi interessanti.
Per contrapposizione c’è il fatto che quello era il disco in cui avevamo messo dentro tutto quello che avevamo scritto in tre anni, tre anni molto strani, con diaspore e casini vari nel gruppo (come succede spesso nelle band, tra figli, lavori ed altro), invece in questo nuovo lavoro c’è stata una scelta molto più precisa e mirata, che è venuta fuori quando si è stratificata una serie di canzoni che abbiamo capito che avevano a che fare con il tema dell’innamoramento e del disamoramento. Una miccia buona ce l’ha data Natalia Ginzburg, partendo dalla quale abbiamo scritto delle canzoni per uno spettacolo teatrale del Teatro Stabile di Torino nel 2016. Quelli prime canzoni, come “Io mi domando se eravamo noi”, “L’inesorabile”, “Temporaneamente” ed altre, hanno fatto aprire quello scrigno dove io e Rossano (Lo Mele, NDR), che oltre che essere batterista è coautore dei testi, teniamo tutte le idee. Siamo andati poi a mettere il seme di questa storia che volevamo cronologica e che seguisse l’arco temporale di una storia di amore e disamore, intendendo questi termini non come forze contrastanti, ma anzi complementari della stessa energia emotiva: se vuoi raccontare una storia devi fare i conti con tutte le luci e tutte le ombre, senza considerare le ombre come qualcosa di necessariamente nostalgico e le luci solamente come entusiasmi. Nell’innamoramento c’è una sorta di vertigine, un terrore di scomparire uno dentro l’altro: una coppia quando si innamora scompare dagli amici, dagli altri, non li capisce nessuno, sembrano due marziani. Ecco, questa cosa noi la volevamo raccontare. “Del nostro tempo rubato” era un disco che nella metafora del trasloco dava all’ascoltatore la scelta di parecchi brani di tanti stili diversi, mentre in “(Dis)amore” c’è più il concetto di scriverlo come fosse un film, spostando la cinepresa dentro questo appartamento.

Se ho ben capito, quindi, da questo “Lessico sentimentale” della Ginzburg è nata a posteriori l’idea di costruirci un “romanzo musicale” che seguisse passo passo questa storia d’amore. Ora, un precedente storico ci sarebbe, ed è “Questo piccolo grande amore” di Claudio Baglioni, non so se qualche critico perfido ve lo ha già fatto notare (ride). Al di là delle differenze di tempo e di percorsi artistici, mi pare che la differenza sostanziale sia però che in quel lavoro di Baglioni c’era un io narrante che coincideva con il cantante, qua invece, ed è quello che mi ha colpito, voi fate grande attenzione a non assumere un punto di vista LUI o LEI, anche grammaticalmente, il che in italiano non è affatto facile per via delle desinenze così connotative del genere. Ecco, come mai questa scelta?
Mi fa molto piacere che tu l’abbia notato, perché questo è un aspetto su cui abbiamo lavorato molto. Volevamo che ci fosse una voce narrante, ma volevamo anche che le voci dei due protagonisti a volte fossero precisate, cioè che si capisse chi parla nella coppia, se lui o lei (o lui-lui, o lei-lei, non importa, i generi li stabilirà l’ascoltatore). Tuttavia volevamo anche che ci fossero dei momenti in cui i piani si sovrapponessero, che non fosse così chiaro chi dei due stia compiendo un tradimento, per dire. Le canzoni sono un tessuto molto elastico e questo è un aspetto bellissimo della musica, della radio, di tutto ciò che ti lascia molto tempo per l’immaginazione, e allora quello spazio all’ascoltatore glielo devi dare: era bello che nella storia in certi punti non fosse così chiaro chi sta facendo cosa. Naturalmente siamo due uomini a scrivere, io e Rossano, e abbiamo personalità diverse, ma ho notato che in questo dialogo c’è una sorta di contrapposizione creativa e conflittuale che è esattamente quella che si genera in un rapporto amoroso. Non dico che io ho una energia maschile e lui una femminile, o viceversa, ma penso che nel conflitto tra queste due energie si sia generato qualcosa di interessante. Ma tutto ciò l’ho capito dopo, man mano che il lavoro proseguiva. 

Mi aspettavo che il “tedio” della vita quotidiana tra i due amanti cominciasse un po’ dopo: invece arriva già dopo le prime canzoni: perché? E’ più difficile raccontare l’amore felice piuttosto che quello dei dubbi? C’è più Disamore che Amore, quindi?
No, c’è l’idea che comunque l’abitudine faccia molto in fretta a insinuarsi. Ecco, più che “tedio” la chiamerei “abitudine” che è qualcosa che sta dentro alla nostra epoca. “(Dis)amore” è una storia domestica, tutta dentro un appartamento. L’abbiamo proprio scritta così: io e Cristiano abbiamo preso il bagaglio dei testi e poi lo abbiamo portato con noi in Liguria, in una casa di mare fuori stagione in cui per dieci giorni ci siamo immersi dentro la storia. Mi ricordo che con Cristiano annotavamo tutte le canzoni e dicevamo “Va bene, questa è lo sgabuzzino, questa è la soffitta, questa è la cantina…”. Volevamo immaginare tutti gli spazi domestici, e ognuno è un pezzo della storia. E la stessa cosa abbiamo fatto con i vestiti. Poi ci siamo detti: “Ok, è una storia domestica, ma questa deve essere la finestra, vista da dentro, da fuori”. Sono loro due, i nostri amanti, che guardano il mondo, ma anche il mondo intanto li sta guardando e inevitabilmente entra dentro questa coppia che vive nella contemporaneità e che ne è influenzata. L’abitudine è qualcosa che, proprio per il modo in cui consumiamo le cose, tende a subentrare molto presto. Ma dicendo “abitudine” non volevamo dare un giudizio, cercavamo di rilevare il fatto che essa entrerà per forza di cose, perché ce l’hai nell’aria, è come l’ossigeno, entra quando apri la finestra, tuttavia la brutalità del mondo e la sua forza vitale, arrivano anche quelle, come uno schiaffo, qualcosa che ti fa capire che poi quell’abitudine è una facciata, è qualcosa che può essere consolatoria. Ma devi stare attento, perché le acque tranquille in realtà sono esattamente quelle in cui si muovono gli squali, e non lo sai. Per esempio una canzone come “Il ragù” è una canzone fatta di quotidianità, che nasce da un racconto di Rossano, con una sua metrica che poi io cantando ho un po’ cambiato, un racconto che mi ha fatto venire in mente Raymond Carver, per come ti restituisce qualcosa di molto ordinario, e poi improvvisamente ti arriva uno schiaffo, come la morte di una vicina, con la quale i due non hanno neanche una relazione così profonda o intima, è  solo un rapporto fatto di simpatia, di scambio di cortesie. Questa morte, combinata con la quotidianità del ragù, volevamo raccontarla: è la società che entra nella loro casa. Perché una coppia si chiude dentro un uovo, ma poi quest’uovo per forza di cose va in frantumi, prima o poi, e bisogna farci i conti con questa cosa.

Ecco, hai citato a proposito questo pezzo. Tra i 23 brani che compongono questo “romanzo musicale”, ce ne sono alcuni che fungono da interludi, sono brevi frammenti, e “Il ragù”, di cui parlavi, è uno di questi. E’ una canzone che lascia di sasso, si interrompe all’improvviso quando la storia drammatica della vicina ci aveva già fatto commuovere… Mi spieghi meglio la chiusura: “Meno male che il ragù è finito ieri a cena, altrimenti c’era da perderci la testa un’altra volta”?
Questa morte è un avvenimento violento e inaspettato, una morte nel sonno di questa vicina olandese (che poi eravamo in dubbio su quale nazionalità darle). Il finale “Perderci la testa un’altra volta” è perché tu la rivuoi quella quotidianità, pensi che sia qualcosa che vada protetto. Ma sono uova che si sfasciano: pensi di averli messi in cima alla spesa, ma finiscono sempre sotto, e fare i conti con questa cosa è dura, per cui quello che si tende a fare è nasconderla sotto il tappeto. Ma la morale è che poi tutto torna fuori, in malinconia, in rimpianto, o in quella rabbia che è così contemporanea e che tanto sentiamo raccontare nelle cronache in questi anni, vedi i casi di femminicidio, che è un tema che non rientra in questo disco, ma comunque viene da domandarci quale sia il nostro lessico emotivo e quanto le parole siano sintomo di un qualche “handicap emotivo”. Molti uomini che sono stati cresciuti con l’idea che la donna non deve stare in un certo posto nella società, poi non sono in grado di fronteggiare il rapporto con la donna. E poi questa cosa spesso nelle canzoni la senti cantare, perché la donna o è la “bella stronza” di Masini, oppure una che se ne frega dell’uomo abbandonato. La realtà non è così per maggior parte delle persone: ci interessava raccontare questo aspetto.

Prima mi dicevi che non sapevate bene che nazionalità affibbiare alla vicina de “Il ragù”, però poi mi pare che abbiate scelto benissimo: l’assonanza tra “Olanda” e “salma”, detta con quella scansione metrica con cui tu la canti, è qualcosa che si conficca profondamente in chi ascolta. Senti, Edoardo Albinati, uno scrittore che amo, una volta ha detto che bisognerebbe rovesciare il classico detto che “il matrimonio è la tomba dell’amore”, perché è vero anzi il contrario: ”l’amore è la tomba del matrimonio”, nel senso che un’unione fissa di due persone è sempre assediata dall’amore, sia da quello che si può provare per altre persone al di fuori della coppia, sia dal ricordo pesante della forza che aveva quell’amore all’inizio della relazione. Ora, stai tranquillo, non ti ho scambiato per Willy Pasini, ma mi chiedevo tu cosa ne pensi.
(ride) No, guarda è una domanda che ci sta, anche perché Albinati è stato una delle fonti narrative di questo disco. Scrivendo canzoni ti nutri di tante cose, capti quello che ti serve, sia a livello letterario che a livello di chiacchiera da supermercato. Credo che ci sia una grande verità che riguarda tutti noi: questa coppia alla fine di “(Dis)amore” decide di lasciarsi, ma qualsiasi coppia di zii o i di nonni arrivati alle nozze d’oro ti potrà dire che un matrimonio è fatto di grande affetto, ma anche pazienza, sopportazione, assenze, rinunce, rimpianti, malinconie…ci sono tanti sentimenti dentro. E’ interessante che al colpo di fulmine si assegni il beneficio di Cupido, e quindi lo accettiamo, però anche al disamore può capitare la stessa cosa, puoi avere il colpo di fulmine al contrario, e non lo sai, magari non te ne rendi conto. Pensiamo che tutto questo processo di lasciarsi debba essere solo nella testa, e non nella pancia o altrove. Una storia amorosa ha a che fare con una gamma di sentimenti praticamente infinita, con la chimica, che è importantissima, e con il tempo.

L’impressione è che con questo album abbiate abbracciato una strada in controtendenza: “(Dis)amore” è un album adulto, sia perché non potevate scriverlo a 20 anni, credo, sia perché sembra poter arrivare maggiormente a un pubblico adulto, quando invece oggi c’è la gara a puntare al target dei ragazzini, quelli che si nutrono di streaming che poi determinano le classifiche, quelli che riempiono i palazzetti dello sport… Ve lo siete posti questo problema?
No, non troppo, per fortuna, perché è giusto assecondare la propria Musa e fregarsene. Per forza di cose la tecnologia influenza il proprio tempo e adesso ci sono le singole canzoni, mordi e fuggi, e questa cosa è chiarissima. Così come sappiamo benissimo di essere un po’ fuori dal tempo con l’idea dei dischi fisici, ma per noi è una cosa preziosa, siamo cresciuti con i dischi in vinile. Però quando dopo una decina di anni abbiamo ripubblicato “In circolo” (uscito originariamente nel 2002) abbiamo fatto una piccola tournée risuonando tutto il disco, e ci siamo domandati: come mai vediamo un pubblico che non ha più la nostra età (noi ne avevamo sulla quarantina, e loro 20-25 anni), come mai questi ragazzi vengono a sentire le nostre canzoni, le cantano? La risposta è che “In circolo” era stato scritto sull’idea di maturare, di uscire dal nido, dei problemi che si hanno con le prime storie serie, quelle nate al liceo. Che fai, ti lasci, vai a vivere da solo, o ti sposi? Insomma, tutte le questioni che riguardano più o meno quell’età. E quindi anche se le generazioni cambiano, quelle cose le ritroveranno nei nostri pezzi. Credo che questo lavoro che è appena uscito sia un disco maturo, i protagonisti li abbiamo immaginati tra i 35 e 40 anni, hanno già avuto delle storie, sono creature urbane di una grande città, simile a Milano, vivono in appartamenti piuttosto scomodi, relativamente piccoli, molto cari, hanno i problemi dei conti a fine mese, le spese, la lavatrice che si rompe, tutti i problemi ordinari che abbiamo noi, però hanno già avuto storie d’amore… Mi immagino che forse tra dieci anni questo disco possa essere ancora valido per chi vorrà ragionare su questi temi. Che poi io credo che non abbia veramente età, perché maturiamo tutti in modo diverso. Io stesso, muovendomi nella musica, mi considero un profondo immaturo in un certo senso, sono arrivato tardissimo a certe cose, e ancora adesso sento di essere ancora in attesa, incompleto, irrealizzato. Però mi piace sempre cercare delle cose nuove. Penso che innamorarsi sia davvero una cosa strana, magica e terribile, perché non sappiamo quando saremo veramente pronti: sono tempeste che possono capitare a persone che hanno anche sessanta o settant’anni, come a un giovane. L’importante è scrivere la propria storia senza avere troppo in mente per chi la stai scrivendo.

Senti Tommaso, ti devo confessare che il precedente “Le storie che ci raccontiamo” del 2016 è stato un album che non mi era arrivato granché e ho avuto il terrore di avervi perso. La mia felicità quando ho ascoltato “(Dis)amore” è stata quindi legata al fatto di avervi ritrovati. A distanza di qualche anno devo farti questa domanda: quanto ha pesato, dal punto di vista compositivo, l’uscita di Gigi Giancursi nel 2014, dopo “Musica X”?
Beh tanto, sicuramente all’inizio. Infatti “Le storie che ci raccontiamo” è un disco in cui ci siamo persi un po’, perché stavamo cercando una strada, e quindi è un lavoro che ha un’anima non così definita. Un disco confuso, lo sento così, ma nonostante sia un po’ fuori fuoco, ci sono alcune delle nostre canzoni più belle, in particolate la title track che magari ha il torto di venire alla fine, quindi forse non tutti ci sono arrivati…(ride), ma penso che sia davvero una delle nostre cose migliori. Vedi, ci sono dei dischi nati un po’ zoppi, come anche “Canzoni allo specchio”, ma alla fine impari a volergli molto bene perché sai che rappresentano una parte di te: forse non eri del tutto a fuoco, però avevi bisogno di raccontare. “Musica X” è stato uno dei motivi per cui alla fine Gigi se ne è andato. Gigi ed Elena (Diana, violoncellista del gruppo, anche lei uscita nel 2014, NDR) erano insieme e si sono separati durante l’anno in cui abbiamo fatto Sanremo e ognuno è andato nella propria direzione. Però in Gigi c’era già una sorta di disamore rispetto al lavoro fatto con “Musica X” che era un disco che in quel momento voleva cercare una propria direzione, diversa dagli album precedenti. E lavorare sul groove, sulle linee di basso, è stata una cosa che allora ci piaceva molto. Mi piaceva la sintonia che c’era tra il punto di vista narrativo, legato al tema dell’omologazione, e tra il piano estetico, cioè il fatto che noi stessi omologassimo i nostri suoni, campionassimo il violoncello, la voce ed altre robe.

Un metasignificato, diciamo.
Sì, ma questa cosa qui nel successivo “Le storie che ci raccontiamo” non c’era. Era un disco in cui siamo rimasti noi quattro, siamo andati avanti a comporre però con una forma che in parte era legata al disco precedente e in parte cercava un nostro linguaggio. E quindi ne è risultato un disco che alla fine non ha baricentro. Abbiamo sentito che ha lascito molti spaesati e probabilmente ci siamo ritrovati anche noi un po’ spaesati dopo un po’ di tempo. D’altra parte sappiamo che non è facile essere giudici delle cose che fai: devi farle e dopo prendi delle gran craniate (ride). Ritornando alla tua domanda, abbiamo sentito che Gigi non era più convinto: ha attuato una forma di “sciopero bianco” che alla fine ha stancato lui per primo, Quindi quando poi se n’è andato, in realtà si è compiuto quello che era già una forma di separazione latente.
Sono molto contento di “(Dis)amore” perché ho sentito Cristiano (Lo Mele, NDR) crescere enormemente da “Musica X” in avanti. Poi lui è pazzesco perché fa dei progetti assurdi molto sotterranei, come Totò Zingaro, un collettivo di pazzi scatenati che lavora sul blues, sui suoni roots, ma anche sulla canzone popolare italiana, tutte cose che poi Cristiano ha riversato nella colonna sonora di un documentario dedicato a Anna Magnani che è stato anche presentato a Cannes. E credo che tutto questo lavoro che porta avanti anche con altri progetti, tra cui un quartetto con cui rivisitava degli standard jazz, a poco a poco abbia dato i suoi frutti: ho visto nel lavoro fatto insieme per “(Dis)amore” una ricchezza armonica diversa. Va bene, ci sono sempre gli Smiths, tutti i nostri riferimenti, quel modo suo di suonare la chitarra, però io che sono un “bestione” musicalmente parlando, mi sono comunque reso conto in questo album di muovermi in tessuti armonici nuovi, e questa ricchezza di scrittura di Cristiano è stata la grande novità di questo disco, insieme all’impianto narrativo.

La versione in vinile dell’album, che consigliamo caldamente, è notevole: doppio disco, confezione cartonata, pesante al tatto, e bella grafica: ma perché non c’è il codice per il download?
Guarda, semplicemente perché non ci abbiamo pensato, siamo stati dei pirla (ride). Però chi ha comprato il vinile ci può scrivere su pertubazione.com nella sezione Contatti e gli mandiamo i file audio. Sai con tutto il lavoro di star dietro al crowfunding è andata a finire che nessuno si è posto questo problema, ingenuamente. Se avremo la fortuna di ristampare il vinile, sicuramente ci rimetteremo mano.

C’è una particolarità, tra tante, che vi rende un gruppo anomalo nel panorama italiano: in più di 20 anni di carriera discografica non avete ancora pubblicato un vero e proprio album live. Come mai?
Sì, hai ragione, l’unica uscita live è stata “Le città viste dal basso” che era un vinile che però non aveva dei pezzi nostri, era un viaggio dentro le grandi canzoni della musica italiana, con tanti amici ospiti. Vedi, abbiamo sempre pensato che i “best of”, o i live, devi farli quando chiudi una carriera. Però, sai, ci sono stati dei momenti in cui si era aperto un discorso su un disco dal vivo, ma poi si è subito chiuso. Mi piace pensare che la nostra carriera sia ancora incompiuta.

Passami ora un piccolo gioco: Spotify mi dice che ai vostri fan piace anche Moltheni, Paolo Benvegnù, Virginiana Miller, Le luci della centrale elettrica, Bugo, Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo, Amour Fou: a quali di questi artisti ti senti più vicino?
A parte i Gatto Ciliegia, che sono di Torino e sono degli amici con cui abbiamo fatto tante cose insieme all’inizio, direi i Virginiana Miller, perché apparteniamo un po’ a una generazione che forse ora non è più esattamente al centro delle cronache, ma che ha scritto tanto e ha fatto delle cose belle, importanti, e che oggi penso fatichi a riuscire a continuare la propria strada, intesa come professione. Tutti gli artisti che hai citato stanno più o meno in questo discorso. Credo che tutto quel solco tracciato da queste band sia stato in parte metabolizzato dalle nuove generazioni, a modo loro: prendono quello che vogliono, lo digeriscono e poi lo filtrano come lo sentono. Le pagine scritte dai Virginiana Miller o da Paolo Benvegnù mi hanno accompagnato in tutti questi anni, sono artisti che sento molto vicini. Dai racconti che ci facciamo, quando ci capita di incontrarci, magari a un concerto, ci percepisco come vagamente logorati dal tempo, ma non dal punto di vista artistico, più nel senso squisitamente quotidiano, di sopravvivenza. Mi piacerebbe che ci fosse una rete un po’ più larga, per appoggiarci, senza questo senso di rincorsa e di assedio che ti dà il presente. Nel frattempo i ¾ dei Perturbazione hanno figli dai 9 ai 12 anni, e non è che i figli vengano su come il basilico: ci devi dedicare delle belle energie e quindi no, non ho rimpianti da questo punto di vista.

Uscirà mai la registrazione dello spettacolo su La buona novella di De André che avete messo in scena con Nada e Alessandro Raina?
Ce lo siamo chiesto anche noi, recentemente, ma non so… Era uno spettacolo che sentivamo molto bello da fare dal vivo, nella messinscena teatrale. Considera che era stato rappresentato solo una volta, per cui conteneva tutto il potenziale ma anche tutte le piccole sbavature del caso, quindi poi ci siamo detti che forse potevamo anche lasciarlo lì. Sarebbe bello rifarlo, piuttosto, perché vabbè, il disco di De André è immenso, poi con le voci di Alessandro e di Nada, era davvero intenso. L’abbiamo suonato all’interno della Cappella del Sacro Monte, anche perché è una musica che ha anche fare con la fede, con qualcosa di molto più grande di tutti noi, e quindi riuscire timidamente ad affacciarsi lì e contemplare il modo in cui De André ha cercato di raccontare quel mistero, è stata un’avventura bella. Bisognerebbe però trovare il modo di rimetterlo in scena un po’ di volte. Uno dei grandi problemi di questi progetti che abbiamo fatto è mettere a sistema queste cose, dare loro delle strutture per non farle arenare. Poi, vedi, noi veniamo da un circuito più legato al rock, ai club, quando esci da quel seminato lì ci sono problemi. Però a me piace tantissimo mettere in scena linguaggi diversi. Per esempio qua a Torino, al Teatro Carignano dal 4 al 9 agosto rifaremo uno dei tre testi di Natalia Ginzburg, “La segretaria”, che poi è una delle prime cose da cui è nato “(Dis)amore”. E’ un bellissimo lavoro che ci permetterà anche di suonare qualcuna delle canzoni di questo disco.

Ultima cosa: avete lavorato in qualche occasione con Remo Remotti, per esempio nel video di Battiti per minuto o nei concerti di “Le città viste dal basso” che prima ricordavi. Che ricordi hai di questo straordinario personaggio?
Ah, bellissimi! E’ stato un personaggio trascinante, meraviglioso. Aveva questa cosa di vivere la vecchiaia a modo suo: “Quanno sei vecchio nun te ne frega più un cazzo, dici quello che te pare!”. Era liberatorio. Anche ingovernabile, anarchico in un modo bellissimo. Mi ricordo la prima volta che venne a “Le città viste dal basso”, che mi raccomandai con lui: “Remo, vai sul palco, fai quello che vuoi, ma mi raccomando, il titolo: lo spettacolo si chiama “Le città viste dal basso”. Insomma, quello che fai deve avere a fare con la città.” Gliel’avrò detto venti volte prima di salire sul palco. E infatti quella volta è andato dritto, bene. Poi siamo andati a Cremona, e siccome ci siamo rilassati, non gliel’abbiamo più ripetuto e infatti ha sbracato alla grande e ha fatto di tutto: “La guerra dei vecchietti”, cose con tonnellate di sesso, con la gente che si alzava e partiva (ride). Ci manca molto, è stato un regalo grande, era disponibile, entusiasta: un essere umano meraviglioso.

 

 

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