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Pilar

Il vino, il mito, la barca: il mondo di Pilar

"Questo è l'odore che mi piace. Questo è il trifoglio appena tagliato, la salvia calpestata quando uno cavalca dietro un armento, il fumo della legna e delle foglie che bruciano d'autunno". (Ernest Hemingway, 'Per chi suona la campana')  
Doveva intitolarsi Canzoni d'amore involontarie, poi è arrivato un testo di Pacifico ed è diventato 'L'amore è dove vivo'. Parliamo del quarto album di Ilaria Patassini, in arte Pilar, uscito il 30 ottobre scorso per la Esordisco. Undici pennelli che tratteggiano una figura caleidoscopica, un'artista a tutto tondo, un'ugola potente, elegante, gentile. Il lavoro, presentato dal vivo lo scorso 6 novembre all'Auditorium Parco della Musica di Roma, la vede nel doppio ruolo di autrice e interprete di testi di Mauro Ermanno Giovanardi, Joe Barbieri, Alessio Bonomo, Pino Romanelli, Pacifico, che hanno scritto per lei canzoni d'amore "involontarie", ritratti di Pilar uniti a due deviazioni in lingua francese e a un "brindisi senza sintassi", Autoctono italiano. Il tempo di ordinare un caffè d'orzo da Necci, storico locale romano nel cuore del Pigneto, e via a parlare della sua musica, della letteratura che odia e di quella che ama, di Paolo Conte, del prossimo tour, del viaggio a Lugano per le fascinazioni a puntate sulla RSI (Radio Televisione Svizzera, dal 15 al 20 febbraio, ndr) di Sanremo e dei talent.

 

Cominciamo proprio da Sanremo, visto che abbiamo ancora nelle orecchie i  brani e le performance degli artisti. L'hai visto o l'hai seguito solo tramite giornali e sui social?
Sanremo l'ho visto tutto, come ogni anno. Certo, il fascino della manifestazione clou che poteva avere negli anni d'oro ormai si è persa, quel momento in cui la gente aspettava un evento televisivo (e quell'evento in particolare...) per scroprire cose nuove è per molti versi superato. La musica prima aveva un altro tipo di valenza sociale, altri codici di comunicazione. Quel mercato, quell'esigenza, quella priorità si è spostata da un'altra parte. Allargo il discorso toccando per esempio anche il mondo dei talent e ricordo un intervento di Mara Maionchi che diceva "oggi per fare un progetto come si deve bisogna stare in ufficio dieci ore al giorno". Ha ragione e alcune persone uscite dai talent hanno innegabilmente talento, sono ben preparate tecnicamente, però poi sento che manca un po' di pepe nel loro esser così professionali.

Vuoi dire che troppa professionalità rischia di soffocare la spontaneità?
Provo a dirlo in un altro modo. Dopo che mi hai dato un'interpretazione perfetta cosa resta? Dove ti perdi? Ci deve essere un punto in cui ti perdi, altrimenti cosa mi racconti? Che ti svegli alle sei del mattino, leggi il giornale fino alle sei e trenta e prepari una torta?

E poi in tutta questa "giovane professionalità" Sanremo lo vincono gli Stadio...
Hanno portato una canzone giusta, perfetta. Però sentivo Curreri dire "siamo un'altra generazione, ma vogliamo far capire ai ragazzi che non si deve necessariamente passare dai talent per fare questo mestiere". Non è la storia della volpe e l'uva, io in un importante talent sono stata rifiutata! Mi hanno chiamata dalla Magnolia e ho chiesto a venti persone, tra addetti ai lavori e non, che mi hanno detto "Vai Ilaria, devi farlo!". Dentro di me sentivo uno strappo allo stomaco, ho dovuto fare un esercizio di umiltà. Dato che dicono che sono snob...

Sinceramente non sembra.
Lo dicono spesso. Va bene, ma c'è differenza tra essere snob e essere selettivi...

Il talent è sicuramente figlio dei tempi, ma dicevamo anche che non è necessariamente l'unica via.
Il rischo è che ti ammazza. Dei cantanti che escono fuori da un talent, chi è che mi dice qualcosa di interessante? Qualcosa che non ha a che fare soltanto con quello che canti, qualcosa del mondo che ha il colore di quello che fai? Riguarda l'intervento di Renato Zero ospite a questo Sanremo, li ha presi e se li è messi tutti in tasca. Nelle sue parole, nel modo in cui le canta, c'è una libertà profonda che io non vedo in quelli che escono fuori dai talent: ci vedo solo una catena di montaggio.

È sempre affascinante invece chi, come te, fa un percorso parallelo, quello dei concorsi, un po' più artigianale se vogliamo. E da lì escono persone che qualcosa da dire ce l'hanno.
Ha un qualcosa in più. Ma non è che dalle altre parti non escano persone con qualcosa da dire, è solo che quando li vedi sul palco di Sanremo, nel posto mainstream per antonomasia... non so, sento qualcosa che stride e giuro che non lo sto dicendo perché volevo stare lì.

Ma ci proverai, prima o poi?
Solo se ci sono le condizioni, perché altrimenti ti ammali. Un'esimia collega, molto più famosa di me, è stata su quel palco due anni fa e dopo due mesi in cui le chiedevano di portare una canzone fotocopia di vent'anni prima, ha chiamato la sua casa discografica e ha detto di ritirare la candidatura. Lo dicevamo prima, una volta Sanremo aveva il compito di farti conoscere le novità del mercato discografico, oggi cerca di importi un prodotto che non esiste nel sentire comune o perlomeno ne è solo una parte minima. E così anche quest'anno ho visto almeno tre o quattro artisti che "non esistono". Tutti a dire che è stato un Festival di alta qualità, ma... si sta togliendo il posto a gente come Joe Barbieri o come Pierluigi 'Piji' Siciliani. Quest'ultimo, oltre che un artista, è un autore, un operatore culturale, uno che fa musica, che sa cos'è una direzione artistica. Per dirla in maniera terra terra, Piji esiste, è parte del mercato. Così come Joe Barbieri esiste, scrive, suona, ed ad ogni suo concerto la gente esce ed è contenta di aver conosciuto un artista vero. Ma ce ne sono tanti altri, adesso non posso citarli tutti. C'è un do ut des che è più grande di noi. Io ragiono sempre sul fatto che sono veramente troppo anacronistica.

L'anacronismo però ha il suo fascino... veniamo al disco. Autoctono italiano l'hai definito un "brindisi senza sintassi". Com'è nata l'idea?
È nata da un gioco, da un divertissement. Ci siamo ritrovati in questo gruppo di lavoro tutti enogastronomicamente ferrati, anche professionisti dell'enogastronomia, compreso il mio produttore esecutivo che è sommelier. C'era stata la notizia che la produzione vinicola italiana aveva superato quella francese, e un'azienda siciliana a cui sono molto legata mi omaggia dei suoi prodotti. Ho visitato le cantine: è un mondo straordinario, la terra, il sole, i profumi, e mi piacciono molto gli elementi che sono rimasti così com'erano tanto tempo fa, quelle cose che non cambiano nel tempo, sono ancestrali. Quando vai al mercato o in pescheria sembra che esistano solo tre pesci sulla faccia della terra. La realtà è che c'è una coltura intensiva tale per cui i piccoli, che sono quelli che creano equilibrio e diversità, non vengono considerati perché è faticoso coltivare poco a poco. Chi fa vini in Italia è ancora molto radicato a questo profilo artigianale della produzione, che per fortuna sta crescendo esponenzialmente. Sta ritornando un po' l'amore e il rispetto per la terra in tutti i suoi risvolti, anche per quella coltivata, e questa è una buona notizia.

Quindi il brano nasce da questa riflessione condivisa?
Sì, ci siamo detti "perché non facciamo una canzone sui vini?", consapevoli però del rischio che poteva uscirne una cosa retorica, banale. Ma è un mondo che amo e ci siamo avvicinati con le dovute "attenzioni" artistiche. Tra i vari esempi in musica che hanno toccato questo tema, ricordo che l'anno scorso per una trasmissione alla radio ho cantato Il vino di Piero Ciampi. Perfetta se a scriverla (e a cantarla) è uno come lui, ma non era facile fare una canzone che potesse parlare di vino dal mio punto di vista. E allora ci è venuto in mente di prendere tutta la lista dei vitigni autoctoni italiani e ci siamo divertiti a scoprire che hanno dei nomi assurdi; a leggerli c'erano nomi evocativi, quasi surreali, alcuni che somigliavano a delle parole, che avevano un significato, altri no. Li ho divisi in bianchi e rossi e ho fatto un testo che non doveva essere una supercazzola, ma avere un piccolo senso. E alla fine in un pomeriggio, prima ancora che ci fosse la musica, mi sono divisa le cose metricamente, e mentre scrivevo ridevo: ho trovato dei doppi sensi... c'è questa tizia per la strada – "Incrocio Terzi n.1", poi "Incrocio Bruni 54", che sono due nomi di vitigni – che nella prima strofa, quella dei bianchi, incontra il Cortese Guardavalle, che non ha le proporzioni giuste diciamo, e nella seconda strofa un mammone, Mammolo... È stata una cosa molto divertente. Scrivendo nella mia cucina, prima di mangiare – ho ancora la registrazione – mi è venuto un acuto (quello con cui termina il brano, ndr) e Tony ha detto "ma questa è un'invocazione talmente italiana, tu sei così, facciamolo": le lacrime. È più difficile fare le cose che fanno ridere, ma se mi diverte farle significa che anche il pubblico si divertirà.

Tu scrivi i testi delle tue canzoni, ma la collaborazione con gli altri autori come nasce?
Con Tony Bungaro è il secondo album che facciamo interamente insieme, con la sua produzione artistica. Anche per quanto riguarda l'altro disco, 'Sartoria italiana fuori catalogo', tutti i testi erano miei e tutte le musiche erano sue. In questo nuovo lavoro su undici brani ce ne sono nove con le musiche di Tony. Abbiamo scelto di fare quest'operazione centrando la mia figura più da interprete che da autrice. Una prova non semplice per me, che aveva ed ha avuto qualche difficoltà in più rispetto alla possibilità di cantare parole mie. Ci sono poi alcuni amici come Pacifico, Mauro Ermanno Giovanardi, Alessio Bonomo, Pino Romanelli e Joe Barbieri, con cui si era sempre detto "mi piacerebbe avere una canzone tua": si è creata l'occasione e ci abbiamo provato, lasciandogli carta bianca. Per ognuno di loro, pensare a me nella modalità in cui mi avevano conosciuta, è stata una cosa naturale.

Ci trovo molta allegria in quei brani, un saper interpretare con delicatezza alcuni aspetti del tuo carattere.
È vero, è stato molto divertente, perché soprattutto Alessio, Joe, Gino Pacifico e Mauro hanno riflettuto nei testi quello che conoscono di me, filtrato dalla loro personalità. Quindi Giovanardi mi ha scritto questo testo molto sixtie, frutto anche delle chiacchiere a notte fonda sulle nostre situazioni amorose. "Io non lo so come cantare queste emozioni se nelle canzoni di cui mi innamoro non c'è mai allegria", questo verso l'ha scritto espressamente per me, dicendomi "tu ti innamori sempre delle canzoni struggenti, sei così, scriviamocelo". Joe ha filtrato tutta la mia parte più 'napoletana', diciamo così. Il testo di Pacifico è invece venuto fuori da una conversazione che avemmo in un bar di Parigi davanti a una macedonia scaduta; siamo stati cinque ore a parlare e in quello che ha scritto ritrovo molto di quella chiacchierata.

Quasi come fossero dei ritratti.
Sì, anche se ognuno di loro ha parlato d'amore e questo mi ha creato non pochi problemi all'inizio, perché... "Io non so parlar d'amore". No, scherzo (sorride, ndr), so parlar d'amore, solo che lo dicevo prima, cantare le mie parole mi mette a mio agio, quando affronti il testo di un altro artista devi entrarci pian piano, farlo tuo.

Mi ricordo che nel concerto di presentazione all'Auditorium le avevi definite "canzoni d'amore casuali".
Infatti io volevo chiamare il disco Canzoni d'amore involontarie, ma me l'hanno bocciato.

Un bel titolo, peccato.
Era carino. Ma quando è arrivato il titolo di Gino ho capito che doveva chiamarsi L'amore è dove vivo.

Nella biografia sul tuo sito c'è scritto che odi tutti i personaggi de I promessi sposi. Ci spieghi perché?
La frase è un po' forzata, volevo solo sottolineare il modo in cui li fanno studiare a scuola, che è un modo pedissequo. È anche vero che lo stesso professore mi fece studiare Dante, ma alla fine Manzoni l'ho odiato, mentre Dante lo idolatro. In Manzoni trovo un essere democristiano ante litteram, trovo nel personaggio di Lucia molto della Mimì pucciniana che non sopporto, mentre invece amo Musetta (personaggi de La Bohème, ndr). Sempre puccinianamente, un Cavaradossi ha il sex appeal di una tazzina al contrario di Scarpia (personaggi della Tosca, ndr)... Manzoni è pastello. Lo so che è un affresco storico, però mi sembra la storia della Piccola fiammiferaia. Forse è anche vero che ci sono dei prototipi italiani talmente forti che fanno ancora oggi da specchio a quelle tipologie che detesto, dalla pavidità e la vigliaccheria di Don Abbondio all'Azzeccagarbugli.

Di Bravi anche ce ne sono tanti.
Sì, ma sono quelli forse meno colpevoli. Sta di fatto che Manzoni mi ha sempre annoiato a morte.

Sono d'accordo che il modo in cui lo insegnano a scuola rende particolarmente pesante sia I Promessi Sposi sia Manzoni in generale.
Sì, però poi vado a leggere i classici latini, oppure Dante, Leopardi, e non solo non mi annoio ma grido "Ancora!". Omero? Iliade? Odissea? Ancora! Manzoni è di quel periodo italiano che mi è particolarmente antipatico, perché penso che questo Paese sia stato fatto con lo scotch, per cui tutto viene insegnato dal punto di vista dei vincitori, e trovo che questo sia un modo di proporre culturalmente un'immagine e crescerci insieme. E quell'immagine io la rifiuto.

Al contrario, quali sono i personaggi letterari che ami? Mi viene in mente il brano Meduse, che fondamentalmente si ispira a un personaggio a tutti gli effetti letterario, mitologico.
Diciamo che la mitologia greca trova largo spazio in tutte le mie influenze, sia musicali che di vita. Tutti gli archetipi mi hanno sempre affascinato e non mi mollano. Anche in Eternamente, alla fine, c'è quel "non voltarti mai" che non è scritto a caso: è un "viviamo l'hic et nunc, perché se ti volti come ha fatto Orfeo mi perdi, se guardi avanti, anche se non ci sono, mi hai". Poi ci sono molti personaggi letterari, non solo italiani. La Pilar di Per chi suona la campana di Hemingway è uno dei motivi per cui mi chiamo così.

Riferimenti che entrano comunque nella tua scrittura, indirettamente o direttamente?
In maniera inconscia. Un libro che conoscono in pochi, e che fa parte invece della mia top ten, è L'ora di tutti di Maria Corti, una critica letteraria che ha scritto una sorta di sceneggiatura di Altman alla America oggi, ambientata però a Otranto durante la presa dei Turchi. Lei racconta i vari personaggi prima dell'arrivo della nave... è una cosa ambientata molto tempo fa ma sempre al Sud. Idrusa, il personaggio femminile più giovane del libro, mi ha folgorata. Mi piacciono libri e personaggi che analizzano se stessi. Adesso sto leggendo l'ultimo di Michela Murgia (Chirù, ndr), è bellissimo.

La scrittura non riguarda soltanto la letteratura. Ci sono dei modelli autoriali relativi alla musica? E come entrano in contatto con la tua scrittura?
Ci sono dei modelli ai quali aspiro, ma so che non si possono riprodurre. Tant'è che quando mi innamoro di qualcosa cerco sempre di allontanarmene, con la consolazione che è da quando sono piccola che scrivo, più che versi di canzoni, versi dove posso estrapolare le cose che mi convincono di più e farne delle canzoni, se hanno un'urgenza di dirsi. Ad esempio la scrittura di Paolo Conte mi fa impazzire molto più di quella di Fossati, perché Conte fa dei film che sono poesia e riesce in tre righe a raccontarti tutto. Uno dei miei dischi preferiti è 'Una faccia in prestito', dove c'è la canzone Un fachiro al cinema, che inizia con "Mi sono perso un film, perché nel cinema tre file avanti, sì, c'eri tu". Basta, la canzone è finita. È geniale, così come un altro incipit di quel disco, L'incantatrice, che rappresenta uno dei miei modelli di canzone: "Ti chiami Ines, ma adesso il nome che porti è Judith". Conte svetta... e poi Lucio Dalla per l'assoluta contemporaneità e visionarietà di testi dove non c'è metrica. Lui si inventa una formula aperta di canzone che oggi non accetterebbe nessun tipo di radio.
Per quanto riguarda l'oggi, a livello testuale mi piace moltissimo l'ultimo disco di Mario Venuti, Il tramonto dell'Occidente, scritto da lui, Kaballà e Bianconi. Ha dei testi che raggiungono vette altissime, come I capolavori di Beethoven, dove c'è un verso che recita "perché i capolavori di Beethoven non erano l'ardore dei vent'anni, non erano il segnale del divino, ma il primo dono della sordità". Cantato da Battiato, ma questi son dettagli. Ecco, se devo pensare a un autore contemporaneo bravo, dico Bianconi. Tra quelli più giovani…

…tra quelli più giovani si fa più fatica a trovarne?
Ma non perché non ci siano delle cose buone. Faccio più fatica io perché ho dei modelli e delle memorie diverse. Però questo è un male, perché bisogna sempre ascoltare cose nuove. Trovo che adesso ci siano persone che scrivono canzoni non canzoni: molte giovani cantautrici hanno come modello Carmen Consoli, che però è Carmen Consoli e si può permettere un tipo di accentazione e stortezza del verso, laddove l'ha affermato come modello di canzone. Adesso invece mi sembra che ci sia tanto talento, ma non le canzoni. Però ecco, se ti dico Caparezza, che a me piace molto, non parlo di un ventenne. Il testo di chi ha vinto tra i giovani, Gabbani, è di Fabio Ilacqua, che era in concorso con me a Musicultura 2007. Quindi si parla sempre di un mio coetaneo o giù di lì. Però ascolto tutto.

E per uno che fa musica ascoltare penso sia la prima cosa.
Sì, è vero.

Qualche tempo fa i Marlene Kuntz hanno presentato il nuovo disco a Roma, e in quell'occasione Godano ha detto di ascoltare un centinaio di dischi l'anno.
Io non sono capace di ascoltare così tanto, perché sono più lenta, mi piace andare una volta ogni due mesi a comprare quattro o cinque dischi. Comprare quelli veri, che si toccano e deperiscono. L'altro giorno ne ho comprati tre, non recentissimi ma che non avevo: Pearl di Janis Joplin, Born to die di Lana del Rey – è del 2012, ha un suono contemporaneo e lontano da me, ma molto interessante – e poi il primo album di Melody Gardot, perché volevo sentire da dove era partita. Non so se sono pigra o lenta, ma non riuscirei mai ad assimilarli: cento dischi l'anno sono praticamente un disco ogni tre giorni. A me piace entrarci dentro e fare delle proiezioni, però ognuno è diverso dall'altro.

Dopo la settimana a Lugano per le puntate che condurrai sulla Radio Svizzera, il disco verrà accompagnato da un tour?
Stiamo fissando delle date per aprile e maggio, ma stiamo creando qualcosa anche a marzo. È un disco a rilascio lento, come oggi praticamente quasi tutto. Però sì, ho l'urgenza di far vivere queste canzoni, quindi certamente avremo delle date a primavera inoltrata e poi in estate. È la cosa che mi preme di più.

Pensando al live e al concerto dell'Auditorium, una cosa che mi affascina è la tua semplicità nel cambiare lingua. La trovo molto naturale, e non è da tutti.
È una freccia al mio arco ma anche una grande fregatura, perché è frutto della grande versatilità e della grande possibilità di riproduzione che ho. Ma non è un merito, è semplicemente che ascolto un suono, un mood, e ci entro dentro. In questo senso a volte mi faccio degli scrupoli e penso che forse avrei dovuto fare l'attrice e non la cantante (sorride, ndr), perché mi viene molto facile entrare dentro l'anima di un suono. È molto più difficoltoso produrre una cosa che sia soltanto tua: questo è il mio grande e infinito tormento che soltanto un caffè dopo una nuotata in mezzo al mare può sedare. Stando in barca io mi sento in pace. Forse dovrei passarci più tempo possibile, e non è detto che non succeda.

Foto di Paolo Soriani

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