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Ilaria Pastore

Ilaria e il suo disordine

Incontriamo Ilaria Pastore dopo avere ascoltato il suo cd d’esordio, Nel mio disordine, e dopo averla vista in concerto alla serata di presentazione di questo suo lavoro. Sedute in un angolo di un pub di Milano che richiama un salottino anni Settanta, chiacchieriamo tranquillamente con lei del suo mondo musicale, di cosa significhi oggi essere una cantautrice indipendente e dei suoi progetti futuri.



Nel mio disordine è il titolo del tuo disco. Vorrei che ci spiegassi il significato di questo titolo che secondo me non è solo musicale ma anche interiore.

È un disordine ormai definito patologico dalla mia famiglia, dai miei amici perché sono disordinatissima in casa, ho i miei momenti in cui metto tutto perfettamente in ordine, poi senza neanche accorgermene la casa è di nuovo come prima. Sono un turbinio, sono sempre dietro a pensare, fare cose, prendi, lascia, cambio idea perché credo molto nel cambiamento delle idee anche se sono una con delle convinzioni ferree, ma sono sempre pronta a modificare il mio pensiero. È un continuo vivere nel caos fondamentalmente, per tanti anni questa cosa mi ha veramente fatto stare male. Poi mi sono accorta che alla fine, in tutto questo disordine, qualcosa di buono c’era e c’è anche questo disco che è nato negli anni più disordinati della mia vita, più difficili. È stato un modo un po’ per perdonarmi da sola per questo mio modo di essere così incontrollabile, così impulsivo, così disordinato e così è nato il titolo, anche in memoria dei mitici litigi con la mamma “metti in ordine, metti in ordine”, ed io non ero mai capace di fare questa cosa, tutto qua.


Avendo fatto la recensione del disco, quindi avendolo ascoltato molto attentamente, mi sono detta che Il mio disordine fosse un bel titolo sicuramente, però ho colto anche un disordine interiore. Leggendo alcuni testi, alcune frasi in particolare, mi sono chiesta se avessi utilizzato le tue canzoni come sfogo per arrivare alla felicità. Leggendo l’interno del booklet, ho visto che ringraziavi alcune persone per i momenti felici passati insieme, solo che leggendo i tuoi testi di momenti felici ne ho trovati pochi. Allora mi sono detta che forse avevi utilizzato le canzoni per esprimere qualcosa e poi attraverso esse avessi trovato la felicità. Volevo sapere se era effettivamente così o è stata solo una mia impressione?

Hai beccato il punto. Sicuramente queste canzoni sono state un mezzo per tirare fuori tutto quello che io avevo dentro dalla mia adolescenza, dai vent’anni fino ai trenta. Oggi ho 30 anni quindi sono dieci anni in realtà che scrivo. Sicuramente avrai notato che nelle canzoni c’è sempre tantissima riflessione, a tratti malinconia, ma c’è sempre poi la virgola d’ironia, di risoluzione felice, di accettazione. Quindi è stato sicuramente un mezzo per me per stare meglio, perché oggi sto meglio. Vengo da esperienze di vita molto forti e la musica è stata una cura, un canale per buttare fuori il negativo di quelle esperienze e capirne la gioia nascosta, perché dietro ogni cosa difficile si nasconde sempre un insegnamento che se tu sai cogliere ti cambia la vita veramente. Quindi hai assolutamente centrato la cosa.


Mi sono anche chiesta come sono nate queste tue canzoni, se sono nate in un anno o nell’arco di dieci anni che è il periodo appunto della tua vita musicale?

Sono nate nell’arco di tanti anni, quasi dieci. La chiamano notte è la più vecchia di tutte, poi la metà degli altri brani sono nati negli ultimi due anni, da quando ho messo su questo trio che è stato per me un modo stimolante di girare l’Italia, suonare, vedere cose, conoscere gente e quindi concretizzare quello che forse sono stata rispetto a quello che sono oggi. Ad esempio Ora è nata l’estate appena passata ed è finita sul disco. Io non sono una cantautrice che scrive una canzone al giorno, invidio tantissimo chi riesce a fare questa cosa. Io devo avere uno stato emotivo che mi permetta di farlo, non riesco a scrivere sempre tutto quello che vorrei. Poi ho dei momenti in cui magari butto fuori un sacco di canzoni, però generalmente ci metto tanto tempo a scrivere.


A mio parere Il mio disordine è un disco anticommerciale, nel senso che non c’è la classica hit che molti si aspettano. È stata una cosa prettamente voluta, quindi una ricerca tua personale, oppure è stato qualcosa di casuale?

È un misto tra queste due cose, nel senso che io ovviamente ho un modo di scrivere, questo è innegabile, ma è anche una cosa su cui ho lavorato tanto. Lavorare sullo stile significa due cose: stare meglio con se stessi perché è un lavoro di riconoscimento di quello che sei tu artisticamente e come persona, e poi è anche una scuola per imparare a scrivere. Sforzarsi di fare qualcosa che va al di là di una cosa già sentita è un metodo di studio, ed io ho sempre fatto così. Poi in realtà mi capita di scrivere in certi modi, infatti c’è chi adora i miei testi e chi non li sopporta. È un disco che divide completamente le acque, tutti mi dicono che è un bene, io non lo so. Però in realtà insieme a Gipo Gurrado e a Lucio Fasino ed Antonio Fusco con cui ho lavorato a tutta la produzione artistica, si è cercato un po’ un compromesso cercandomi di farmi sentire sempre a mio agio, perché io sono una persona che se non lavora a proprio agio fa dei disastri tremendi. Questo è il miglior compromesso riuscito tra qualcosa di più facilmente ascoltabile per gli altri e qualcosa che mi rappresenti appieno. Mi accorgo che in effetti manca il singolone radiofonico per quelli che sono i canoni di oggi. Io la penso così: metti che mi dessero la possibilità di mandare in onda per una settimana Céu per tre volte al giorno. Io accetterei la sfida, secondo me andrebbe più che bene. Anche su questo pensiero l’ho prodotto serenamente questo disco. Alla fine sono io, non posso piacere a tutti come nella vita così nella musica.


Facevo anche un’altra riflessione: se in dieci anni hai fatto un solo disco mi sono chiesta come mai visto che oggi con la tecnologia che si ha a disposizione quasi tutti fanno dischi. È ancora difficile per un giovane cantautore incidere un disco?

Oggi fare un disco non è poi così difficile, però dipende dal tipo di disco. Questo è un tipo di disco che ha una produzione un po’ complessa: è tutto suonato dal vivo, c’è una scelta molto controcorrente anche rispetto agli arrangiamenti, alla scelta dei suoni, alla scelta dei tempi. Partorire un disco così significa raggiungere una maturità di gruppo di un certo tipo. È come se fosse una raccolta di quello che noi facciamo dal vivo. Noi nasciamo come band dal vivo. Poi è arrivato un momento in cui ho sentito il bisogno di mettere un punto. È stato un po’ un percorso al contrario, disordinato. C’è chi fa un disco e poi va in tour, invece noi siamo in tour da un sacco di anni e abbiamo fatto un disco. Poi ovviamente ci sono delle difficoltà economiche. Oggi non ci sono più le etichette che ti pagano i dischi, quindi è tutto bene o male autoprodotto.


Ascoltando molti dischi spesso mi chiedo se sia veramente necessario portare alla conoscenza di molti, soprattutto di chi non conosce il proprio vissuto, il frutto di un’evoluzione interiore che nel caso della musica si traduce in un cd con canzoni. Ci sono casi, infatti, in cui, a parte gli amici, un terzo soggetto fa fatica a comprendere quello che si è composto. Allora mi chiedo se forse non sarebbe più giusto per l’artista aspettare a diffondere il proprio lavoro, soprattutto quando ci si presenta per la prima volta ad un pubblico. Mi piacerebbe sapere che ne pensi di tutto ciò?

Sicuramente quello che dici ha un fondo di verità. Non lo sento il mio caso perché io scrivo anche il mio vissuto ma non solo. Ascoltando il disco avrai visto che ci sono riferimenti autobiografici ma anche personaggi completamente inventati, oppure analisi di una vita di tutti i giorni. Quello che dici è vero. Qui sorge la questione sul perché stai facendo il disco, se per te, per gli altri, per diventare qualcuno. Nel mio caso il disco l’ho fatto perché credo nel mio mestiere, credo nella mia musica, penso che sia un progetto che valga la pena fare ascoltare perché può dare anche agli altri indipendentemente dal mio vissuto.


Dopo il disco cosa vuole Ilaria Pastore?

Voglio suonare. Se devo essere onesta quello che voglio è proprio suonare perché per me è un’esigenza. Dopo il disco vorrei dare una forma più completa a questo progetto. Ovviamente le date cambieranno, noi facciamo una media di 80 date all’anno e si finisce con il suonare un po’ ovunque. Adesso invece vorrei cercare di suonare in situazioni dove esprimere al completo il disco. Sarei felice di entrare nel circuito un po’ più ufficiale, mi piacerebbe molto affacciarmi alla Francia che è un Paese che ci ha dato tanto. Sembrerà banale ma io vorrei suonare, mi piacerebbe molto riuscire ad arrivare a vivere di musica, alzarmi e sapere che è il mio lavoro, che è un mestiere di tutto rispetto ma che in Italia non è riconosciuto, è giudicato ma non riconosciuto. Poter fare la cantautrice, questo vorrei.


Fotografie di Zoe Vincenti

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