Introduzione al personaggio

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Giorgio Laneve

La canzone come idillio

Quella che segue non è - e non vuole essere - una classica intervista, ma qualcosa di più ampio e completo su Giorgio Laneve, un artista che L’Isola che non c’era in tutti questi anni non ha mai trattato con la dovuta attenzione. Abbiamo cercato di recuperare grazie al prezioso lavoro di Francesco Caltagirone, storico giornalista torinese che da molti anni si divide tra musica, teatro e libri, collaborando con prestigiose testate oltre a tenere corsi di Storia del teatro nelle Scuole e in Università della 3ª età e che fin dal primo numero di questa rivista ha periodicamente messo la sua penna al servizio dei nostri lettori. Prima dell’estate Francesco (sempre accompagnato dalla sua inseparabile compagna Marinella Fabbris) ha incontrato Giorgio Laneve e oltre ad aver passato con lui alcune ore ha voluto fare una lunga introduzione al personaggio. Un lavoro prezioso, che unitamente all’intervista vera e propria, ci permette di inquadrare al meglio l’opera di un artista fuori dagli schemi e, va da sé, dai giochi che contano in termini di visibilità. Eppur si muove ancora qualcosa intorno al suo nome...
Buona lettura.

 

Introduzione al personaggio

Ci sono artisti che si nascondono, che preferiscono sparire dalla scena definitivamente. Penso a Salinger soprattutto, un autore che il successo de ‘Il giovane Holden’ non poté stanare dal suo volontario e irraggiungibile ritiro. Avevo il sospetto, ma era solo una supposizione, che per Giorgio Laneve le cose non fossero andate molto diversamente. All’inizio degli anni ’70, quando comparve con le sue incantevoli ballate, così delicate e profonde, così preziose, già si intravedeva in alcuni atteggiamenti la necessità di starsene ai margini, se non quella di sparire del tutto. L’ho cercato senza successo una prima volta, cercato ancora, raggiunto e incontrato e il nostro colloquio ha sfatato del tutto le mie congetture. Dalle sue scarse note biografiche non mi colpisce più di tanto il fatto che all’epoca fosse un laureando ingegnere elettronico. Capita sempre più spesso, al di là dei luoghi comuni, di incontrare uomini di scienza che detengono un patrimonio umano e poetico fuori dall’ordinario.


Classe 1946, Laneve si affacciò al mondo dello spettacolo partecipando al Disco per l’Estate del 1970, portando in finale una canzone malinconica e meditativa, molto originale nella sua pura bellezza, Amore dove sei? Legato idealmente al mondo degli chansonnier italiani e francesi, si trovava sulla scia del primo Fabrizio De André, ma con uno stile molto personale, levigato in una dizione perfetta che incorniciava e univa dolci melodie a versi forgiati in una salda cultura classica, dotati di penetrazione, misura e felici assonanze. Ai tempi del debutto girava in concerto accanto a Georges Moustaki, poi si allontanò in punta di piedi dalla ribalta, continuando però a scrivere canzoni sulla straordinaria chitarra che, si dice, si fosse costruito da solo. La sua discografia comprende cinque LP (di cui due dedicati ai bambini) e pochi 45 giri, in un arco di tempo che va dal 1970 al 1976.

Sull’onda del successo di Saint Vincent, nel 1970 esce il suo primo album, pubblicato dalla Philips, l’eponimo Giorgio Laneve. Gli esempi di Georges Brassens, di Fabrizio De André, caratterizzano un’opera sobria ed equilibrata, poetica. Come un Donovan lombardo, Laneve idealizza l’amore, cantandone le incongruenze, con un fondo di misoginia e di scetticismo. Il combattuto e spesso deludente rapporto di coppia rimarrà una delle costanti delle sue canzoni. Le tematiche sociali occupano un ruolo di rilievo. Antimilitarismo e denuncia dell’indifferenza, la pratica della violenza e il senso della morte caratterizzano Tu non sai che cos’è, una delle migliori composizioni, arpeggiata sulla chitarra. Sono un vagabondo sembra riecheggiare Le métèque di Moustaki, rivendicando una cittadinanza universale. La caducità della bellezza, secondo precisi canoni rinascimentali che tanto piacquero anche a Fabrizio, riconduce alle stanze del Poliziano nella Ballata delle rose, cadenzato madrigale fra flauto e chitarra. Cronaca della città, uno dei pezzi più originali potrebbe avere come tema la ricerca della felicità, mentre l’affascinante e crudele favola de Il cavaliere e la dama ci riporta a un 1729 in cui allora come oggi, se non si coglie l’attimo si paga un duro fio. La giustamente celebre Amore dove sei? si impone per la sua accorata melodia e una dissertazione sulle ragioni dell’amore, data come raramente si sia mai potuto sentire. Le altre sono la rarefatta L’amore stasera è venuto nella mia stanza, con una curiosa personificazione di Eros, la leggiadra e dylaniana Gloria, la feroce Le mutazioni, non proprio una lode all’eterno femminino, Cerchi rosa, cerchi blu, con le sue digressioni sul libero arbitrio, Che cosa dire di te o l’aleatorietà dei sentimenti e Dentro lo scrigno incantato, in cui flauto e clavicembalo sottolineano il malessere degli abbandoni. Giorgio Laneve si rivelò così un’artista di squisita e fragile sensibilità, degno di appartenere al Parnaso che procede, con rare diramazioni, dalla scuola genovese.

L’anno dopo, ancora per la Philips, esce Amore e leggenda, lavoro in cui le consuete problematiche sulla necessità dell’amore sono trasfigurate nel mito e spesso simboleggiati da personaggi favolosi. È il mondo classico a informare tutte le canzoni di Laneve. Ancora una volta l’arrangiamento orchestrale sovrasta i bei giri di chitarra, le invenzioni armoniche che caratterizzano un’opera che può far pensare a “Tutti morimmo a stento” di De André. Le canzoni sono sempre molto belle, ispirate, libere e slegate da vincoli formali. È musica per immagini, come suggerisce la suggestiva copertina che riporta a un paesaggio nordico, fra mulini e laghi ghiacciati. La scrittura resta forse un po’ elitaria, trobadorica, raffinata. Metempsicosi riconduce alle ‘Metamorfosi’ ovidiane, ma con un segno opposto. Io canterò l’amore dolcemente riporta al mondo poetico del Poliziano, sottolineando la volubilità del carattere femminile. La pascoliana La canzone del grillo, apologo sulla libertà, la misurata Nel domani, esempio di macerazione interiore. Se Riapri gli occhi, poi… è un viaggio nella malinconia, con La leggenda del pirata scivoliamo nel mito, con immagini che riportano all’Olandese Volante. La leggenda del mare d’argento, uscita anche su 45 giri (retro Riapri gli occhi, poi…), è una sfumata favola in musica, con un netto richiamo al mondo di H.C. Andersen. Il pessimismo del richiamo mitologico, La leggenda di Pandora, ironica e graziosa, si stempera in un fondo di speranza. “Ogni cosa non fatta è una cosa perduta” è l’ammonimento di Ogni cosa non fatta, ultimo brano dell’album, in cui compare una chitarra elettrica. Come un cantastorie, un errante trovatore, Giorgio Laneve mette in contatto con un mondo fortemente idealizzato, non alieno da spinte religiose. Una poesia quasi francescana, però pervasa da un rovello d’amore, fisico e sensuale. Idillio e malinconia sono i due lati di uno specchio in cui si riflette la parabola dell’uomo che aspira alle sfere alte, alla perfezione delle relazioni. Le armonie, di conseguenza, si conformano a tale stato di malinconica estasi, di nostalgiche rievocazioni.

Album della maturità espressiva e ultimo come cantautore, Un poco abitudine…, pubblicato dalla Decca, esce nel 1973. La direzione orchestrale che nell’album precedente era stata affidata a Gian Piero Reverberi, vede ora Marcello Minerbi, curatore anche degli arrangiamenti. Sempre l’amore con le sue disillusioni e contraddizioni è il tema principale del lavoro. Canzone portante dell’album è Un poco abitudine, con il suo riuscito refrain, nel felice connubio fra testo e melodia. Altre canzoni come la dolcissima La lancia d’oro, discesa fatata nel mondo dell’infanzia e il lento valzer di Un amore non del tutto sbagliato, ribadiscono la vena di un autore di grandissime qualità che ci consegna le sue ultime vere canzoni. La vicinanza con lo stile dei francesi è confermato più volte, nell’efficace Bella marchesa di Brassens, sull’effimera bellezza, da L’uomo nero, i cui passaggi armonici e le appoggiature riportano al primo De André. Così come la divertente Le tre sorelle, vicina alla storia di Cenerentola. Diverse da tutte le altre sono Ma che volete da noi?, polemica e caustica, vicina come tematiche all’Ognuno è libero di Luigi Tenco e Il dono, rivisitazione in ‘New Orleans style’ di una nota fiaba orientale sulla generosità dell’amore. Molto interessanti sono anche l’arpeggiata Un viaggio lontano e la classicheggiante Signora, di Barbara, ulteriore riflessione sul dramma delle separazioni.

Con i suoi tre dischi Giorgio Laneve conquista un posto di riguardo, soprattutto nel cuore di chi guarda alla “chanson” e ai migliori risultati della scuola italiana. Ma qualcosa nel mondo dello show business lo allontana, lo respinge. Preferisce allontanarsi ancora di più eleggendo il mondo dell’infanzia, puro e innocente, come unico meritevole di poesia. I suoi due ultimi album, Viva fantasia del 1974 (Decca) e Accenti del 1976 (per la Divergo di Ricky Gianco) sono rivolti esclusivamente al mondo dell’infanzia, pur mantenendo immutata freschezza, lucidità e riflessioni, elementi fondamentali nella poetica di Laneve. In Viva fantasia vengono recuperate due canzoni dai precedenti album, ben adattabili a un prodotto destinato all’infanzia: sono Le tre sorelle e La lancia d’oro. Con la collaborazione di Gianni Bobbio e il delizioso lavoro grafico di Annarita Montecroci, il disco presenta una serie di canzoni sapide e intelligenti, in un festoso clima da ‘Zecchino d’oro’. Come Endrigo, come Woody Guthrie, Laneve scelse di rivolgersi ai bambini per proseguire nella sua ricerca dell’innocenza e dell’edificazione possibile di un mondo migliore. I brani più felici di questo album divertente e fatato, ricco di suggerimenti, senza essere troppo didascalico, sono la bella canzone dei dodici mesi La storia di Febbraio, Terra e mare, con la personificazione dei continenti, Il carnevale dei balocchi, la circense e orecchiabile Viva fantasia, cantata con i bambini e la simpatica I solidi, tentativo di far amicizia con la geometria. Le musiche si dividono fra stornelli popolari e musichette swinganti, con larghi spazi concessi ai fregi della chitarra acustica.

Nel 1976, per l’etichetta Divergo, Laneve realizza il suo secondo album per l’infanzia, Accenti, che si presenta con una splendida copertina apribile e un’immensa tavola in stile jacovittiano che mostra tutte le canzoni. Queste, tutte originali, sono condivise con il coro ‘Le mele verdi’ diretto da Mitzi Amoroso. Ascoltando questo album ho pensato a un grande autore di canzoni per ragazzi, che nei decenni passati colorò di pagine indimenticabili la TV dei Ragazzi: Sandro Tuminelli. Con tematiche che parlano di rifiuto della guerra, di grammatica civile, esplorazioni nel mondo della musica e dell’invenzione anche non letteraria, sfilano bei pezzi come Amedeo Wolfango che proprio sulla musica di Mozart ne racconta ironicamente la combattuta infanzia, C’era una volta una storia dell’uomo e dei suoi conflitti, in cui viene recuperata appieno la dimensione cantautorale, la spassosa Bernardo l’eremita, ambientata nel mondo sottomarino, le allegre Rocky boom e I venti. La musica è anche più variegata dell’album precedente e si alterna fra momenti più orchestrali ad altri dove primeggiano strumenti come chitarra, banjo, armonica e tamburi. Ultima comparsa nel settore di Giorgio Laneve è il 45 giri inciso per la RCA e uscito nel 1980, L’ispettore Nasy. I tre casi di Nasy, sigla di una trasmissione televisiva. Da allora di Giorgio e delle sue scatole magiche non si è saputo più niente. Al desolato panorama moderno certo manca un autore di tale sensibilità e talento poetico. È lecito pensare quale arricchimento la canzone d’autore italiana avrebbe guadagnato se lui avesse continuato a seguire la cometa della sua ispirazione. Riascoltare le sue bellissime canzoni rimane una consolazione, venata di nostalgia e di rimpianto per i tempi andati. Mi piace immaginarlo ora, “in tutt’altre faccende affaccendato”, ma pur sempre pronto e capace
di dare un’anima giocosa al più gelido degli ingranaggi.

(F.C.)

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LA CANZONE COME IDILLIO

Ce l’ho fatta! L’ho trovato, raggiunto, finalmente. Una persona gentile e sorridente, proprio come le sue canzoni. Siamo nella sua bella casa di Milano, in una situazione di completa rilassatezza e confidenza. Si è amici in un momento. Felice di poter ricucire per gli appassionati, una pagina fondamentale nella storia della canzone d’autore italiana.

 

Sono passati quarant’anni dalla pubblicazione del tuo ultimo album “Accenti” e questo “La mia più grande storia d’amore sei tu” (Universal, 2016) è stato del tutto inaspettato. Parlami di questo ‘blackout’, unico forse nella canzone d’autore italiana. In questi quarant’anni come è stato il tuo rapporto con la composizione, l’ispirazione, la creatività?
È difficile lasciare indietro la musica. Però quando vivi una situazione in cui ti devi organizzare, hai dei dipendenti, cambia. Io ho un’azienda, sono ingegnere, come sai, e non puoi permetterti di lasciar andare tutto. Ci sono delle persone che lavorano per noi. C’era la necessità di portare avanti l’azienda che, evidentemente, ha bisogno di essere tenuta sotto controllo. Non puoi far finta di niente e quando posso… Fra un po’ andrò in pensione, a 70 anni e passa e sono contento di fare nuove cose.

Quarant’anni sono tanti…
Sono tanti, ma io non penso di averli buttati via. Quello che ho fatto prima mi è piaciuto molto. In Svizzera per cinque o sei anni avevo fatto televisione per i bambini e ogni tanto lo faccio ancora. Le ultime apparizioni sono del 2016 perché magari qualcuno mi chiama e mi organizzo con i miei “aiutanti”, musicisti, naturalmente. Bisogna avere pazienza… È stato giusto così. Mia moglie mi aiuta. Il nuovo disco è stato fatto facilmente.

Sei consapevole di aver lasciato interdetti molti estimatori delle tue canzoni, del tuo modo di scrivere e di interpretare?
Sì, lo sono. Mi dispiace molto di questo. Ho dovuto comportarmi così fino a quando le cose non sono andate come dovevano andare. Fare un disco è mille volte più bello che vendere apparecchiature.

Le tue apparecchiature riguardano il mondo della medicina, ma anche le canzoni sono medicine…
Hai perfettamente ragione. Non è un caso che dopo tanti anni ci siano nuove parole e nuove canzoni che verranno fuori.

Si è parlato a tuo riguardo di una vicinanza con Tenco, ma se si parla di contiguità, io ti sento più vicino al mondo di Fabrizio De André. Che cosa ne dici?
È vero. Fabrizio (qui a fianco in una foto di Mimmo Dabbrescia che lo ritrae negli anni Sessanta e tratta dal sito ufficiale www.fabriziodeandre.it, ndr) è stato fondamentale anche per me. Nell’organizzazione, nell’utilizzare le parole corrette, la dizione. Io stesso ho frequentato uno o due anni di corso di dizione. Prima Brassens, poi Barbara che ho conosciuto e sono andato a trovare a Parigi. Lei è stata veramente carina, mi ha fatto un’impressione fantastica. Quando le ho fatto vedere che avevo tradotto le sue canzoni avrebbe potuto chiedersi chi mai io fossi. Le ho portato un paio di dischi.

Mi spieghi come un autore così delicato e raffinato abbia potuto scendere nell’agone di ‘Un Disco per l’estate’? Cosa ti aspettavi?
Fu per la Phonogram, se non ricordo male. Era un settore completamente sconosciuto per me. Non avevo la possibilità di capire se fosse giusto o no per me fare un Disco per l’Estate. Ero senza esperienza.

Io forse ti ho conosciuto così. Quali sono state le conseguenze di questa partecipazione? Può avere influito positivamente nella tua breve carriera?
No, non più di tanto. Ero giovane e inserito nella Phonogram. Questo era quello che dovevo fare, era il percorso. Partivo da zero.

Oggi degli “chansonniers” non si interessa quasi più nessuno. Brel, Ferré, Brassens, Moustaki (qui sotto nella foto), Mouloudji, Ferrat… la conoscenza è sempre più pallida. Per non parlare del reperimento dei dischi.
Purtroppo, sì ed è un peccato. I francesi sono stati dei maestri. Il numero era a favore loro. Il problema è la conoscenza della lingua francese. Io, per fortuna, l’ho studiata tanti anni a scuola. Credo che sia questa la causa principale.

Tu, ingegnere elettronico, come hai potuto far incontrare tanta attitudine, grazia e poesia, a contatto con un mondo così diverso?
Ti ho fatto vedere prima le immagini e i trofei delle mie gare di sci... Si vive una volta sola.

Un altro mondo ancora…
È giusto tentare da una parte e dall’altra.

Come ti sei accostato alla chitarra?
Ho frequentato un corso di chitarra classica. Poi, da allora, ho cominciato ad ascoltare i dischi. Bisognava che io fossi quello che trovava le note, dalla gavetta…

Nel tuo primo album demitizzi l’amore, ne riveli le incongruenze, giochi sottili e schermaglie crudeli. L’amore quasi come un nemico, un personaggio da cui difendersi…
Senz’altro. I primi amori… ti avvicini a situazioni che non sei in grado di approfondire. Sei spiazzato. Inizia lì, quando esci con una bella ragazza, con una bella signora.

Hai scritto anche poesia o narrativa o la tua ispirazione è rimasta legata alla forma canzone?
Tutto è legato alla musica e basta. La musica era fondamentale, più dei testi.

Sei venuto a contatto con la canzone d’autore d’oltremanica, come Donovan, Jansch, Martyn?
No, era solo una cosa italiana. Ho sentito Donovan, ma non era quello che io avevo in mente. Pensavo ai francesi, in assoluto. Ho sentito Barbara (qui a fianco nella foto) al Piccolo o forse da un’altra parte. Una folgorazione e ho pensato di metterla in italiano.

Le tue canzoni per bambini, come Woody Guthrie. A parte lo Zecchino d’Oro, è sempre stato un territorio difficile. Non c’è molta tradizione… (qui sotto una foto di Giorgio con il coro dei bambini Le Mele Verdi, utilizzato nel suo album "Accenti" del 1976)
Stavo imparando nella mia azienda. Un giorno mi ha chiamato il presidente il quale mi ha detto che questa cosa della musica era in contrasto. “Pensaci un po’”. Ci ho pensato e mi sono detto che, magari se scrivo canzoni per bambini, non mi buttano fuori. Credo mi avessero visto in televisione. Triste, però è la vita.

All’epoca di “Amore e leggenda” le sovrapposizioni orchestrali incorniciavano, a volte, le canzoni di troppa enfasi. Ce n’era veramente bisogno?
No, hai perfettamente ragione. Nel secondo LP, io mi sono organizzato da solo, ma era il gusto dell’epoca.

Le tue canzoni non avevano bisogno di un apparato orchestrale…
Sono entrato nella musica e venivo pilotato dalle etichette.

Il blackout è stato quindi doloroso?
Non lo è stato, perché mi rendevo conto che avrei potuto ricominciare. Questo è arrivato a settant’anni. Mia madre mi incoraggiava, mio padre no, perché era presidente di un’azienda e quindi era distaccato.

Le tue chitarre?
Ne ho sei o sette. Dopo te le faccio vedere.

Dimmi qualcosa della tua formazione teatrale…
Contemporaneamente al primo disco, avevo una fidanzatina che faceva recitazione e poi è diventata importante. Per un po’ di mesi l’ho fatta anche io. Lei mi aiutava.

Si sente, perché esclusi i De André, i De Gregori e pochi altri, non sono molti i cantautori che hanno questa pronuncia perfetta, fino all’ultima sillaba... Per scrittura e fraseggio musicale un pezzo come Che cosa dire di te riporta metricamente a Luigi Tenco. Al tal proposito, ci piace ricordare che tu hai partecipato alla prima edizione del Premio Tenco, nel 1974 (qui una bella foto scattata su quel palco con Guccini). Cosa ha rappresentato per te Tenco?
Con Tenco c’è sicuramente un riferimento. Poi, per quello che è accaduto, è difficile capire. Ci è rimasta la sua produzione che ci fa ricchi.

Sono un vagabondo sa di “Méteque”. Volontariamente?
L’ho presa perché mi piaceva l’idea, ma non sono io.

Sei un poeta moderno, quantunque legato alla tradizione della “chanson”. Credo, se mi permetti, che urga una ristampa almeno dei tuoi vecchi album.
È una cosa che ho messo in conto. Anzi, dammi qualche suggerimento... (La sua cagnetta Olivia finge di allontanarsi. Abbaia un bel po’. Arriva intanto Gianni Bobbio, musicista, collaboratore di Giorgio, presente nei dischi di tanti artisti, da Nicola di Bari a Johnny Sax, ma soprattutto musicista teatrale legato alla favola mondiale dell’Arlecchino servitore di due padroni”. È bello parlare con lui. Sono molte le cose in comune).

Progetti per il futuro?
L’idea era quella di iniziare a rifare “Un poco abitudine…” (come conferma Bobbio, polistrumentista, che tra le altre cose ha curato tutti gli arrangiamenti dell'ultimo album e che vediamo nella foto in un recente concerto con Giorgio, immagine scelta anche come chiusura di questa intervista), rinfrescando con un suono che ci riporta al passato, tenendo conto delle frasi musicali che ci sono. E inserire anche tre, quattro pezzi nuovi. Rifarlo, rigenerarlo.

Concerti, possibilità di ascoltarti?
Mi piacerebbe farne molti di più. Ne abbiamo fatti un po’ l’anno scorso.

 

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Il pomeriggio potrebbe protrarsi a lungo. È stato come un incontro predestinato. Doveva avvenire ed è avvenuto.

Ringrazio Marinella Fabbris, così a suo agio nell’aggiungere parole, domande, appunti e curiosità in quanto si è detto.

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