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Davide Ferrario

La mia musica senza confini.



 
Ai concerti di Max Pezzali allo stadio di San Siro saltava come un atleta, sia con la chitarra elettrica a tracolla che facendo scorrere vorticosamente le dita delle mani sulle tastiere. Davide Ferrario è un irrefrenabile folletto (e dopo aver riletto l’intervista, lo associo – per fortuna - anche ad un inguaribile Peter Pan…) che parla alle note e le note gli rispondono con grande piacere. Un musicista eclettico ma anche molto lontano dagli schemi, un “irregolare” al sistema, che ama il proprio lavoro in maniera assoluta e che, probabilmente, con Max Pezzali ha trovato (per il momento) quella libertà espressiva che qualunque musicista vorrebbe possedere. È questa un’intervista decisamente ‘aperta’, che cerca di approfondire più lati di Davide, che fa piacere a chi scrive e, mi auguro, anche ai lettori, così da contribuire a conoscere meglio un artista raffinato e contemporaneamente ‘passionale’. Un artista per cui la musica non ha confini.

 

A vederti suonare e saltare sul palco sembri un ragazzino mentre hai alle spalle anni di lavoro e di esperienza nel mondo della musica. Al di là dell’aspetto professionale, che cosa alimenta la grande energia che ti contraddistingue quando sei sul palco?
Ma io mi percepisco ragazzino! La figura del grande uomo di esperienza mi ha sempre disgustato. Non è proprio il mio ruolo nel mondo. Ho sempre preferito l’essere preso per mano al condurre, l’ammirare all’insegnare. Sono un non cresciuto, con tutti i difetti del caso. Uno di quelli da cui le donne, che abitualmente si lamentano dell’uomo immaturo, dovrebbero proprio scappare. Di fatto, tolto il mutuo e il bollo dell’auto, vivo ancora come quando avevo quindici anni. L’unica cosa che è cambiata nella mia vita è lo sport: mi alleno parecchio, anche se i risultati fisici non sono eccelsi perché in effetti non credo di essere particolarmente portato. Sul palco sono sempre stato così. Per me suonare è sempre stata quella fisicità, non conosco un altro modo e onestamente spero di non crescere mai. Sarebbe terribile.

Quali i tuoi riferimenti, se ve ne sono, per il tuo suono chitarristico?
Non ho grande passione per i chitarristi, sinceramente. Posso dirti che sono cresciuto con i Beatles, i Pink Floyd, i Radiohead e i Blur. Direi che Gilmour, Greenwood e Coxon mi hanno influenzato parecchio.

Sei un chitarrista ma anche tastierista e suoni, inoltre, molti altri strumenti. Quale strumento manifesta al meglio la profondità del tuo essere musicista a tutto tondo e non solo “un chitarrista da palco e da studio”?
Che io sia chitarrista lo dicono gli altri ma io non mi sono mai definito tale, semplicemente perché non lo sono. Sono cresciuto suonando male un po’ tutto ciò che mi capitava a tiro. La mia attitudine è sempre stata quella di creare musica con quello che avevo a disposizione. Certamente la chitarra è uno strumento molto fisico, con il quale ho un’istintività spiccata, ma a me è sempre interessata la musica non gli strumenti, che invece ritengo un mezzo, mai uno scopo. Adesso faccio elettronica, o perlomeno quando non sono in tour, e al momento il mio linguaggio passa attraverso sintetizzatori, pianoforte e batterie elettroniche. Ho studiato da informatico, mi piacciono le ‘macchine’.

 

Nel tour che stai seguendo con Max Pezzali sei il direttore musicale, un compito strategico nell’economia della struttura musicale dello spettacolo. Quale la responsabilità di tale ruolo e come ti sei posto nell’organizzare le dinamiche delle canzoni sul palco?
Suono con Max da più di dieci anni ormai e credo di poter considerare quel gruppo di lavoro la mia seconda famiglia. Non ho mai lavorato per così tanto tempo in un contesto così felice e non faccio altro che ripetermi quanto io sia stato fortunato e che spero di essere sempre degno di lavorare con lui perché trovare un’atmosfera così, per quanto riguarda la mia esperienza, è davvero rarissimo. Quando sono arrivato molto del materiale era già strutturato da anni di live e non c’era bisogno di fare quasi nulla. Ad un certo punto ho iniziato ad occuparmi un po’ delle sequenze, oltre che suonare, visto che sono piuttosto veloce e produttivo con i computer. Inoltre, quando è stato necessario introdurre del nuovo materiale ho iniziato a lavorare alle preproduzioni e, di conseguenza, a tutte le parti dei musicisti. Su alcuni vecchi brani storici mai suonati dal vivo ho dovuto ricostruire da zero elementi sonori di cui, a parte l’audio che puoi trovare su Spotify, non esiste più nulla, nessun multitraccia o analoghi. Cose fatte con supporti ormai defunti e comunque finiti chissà dove. Mi sono arrotolato le maniche e ho ricostruito tutto. Ancora lo faccio, ogni volta che decidiamo di fare un brano mai suonato. Prendi Io ci sarò: mi sono rifatto tutti gli archi, ad esempio.

Sei stato, giovanissimo, a fianco di Franco Battiato per molti anni, sia in studio che dal vivo. Che cosa ha rappresentato per la tua crescita artistica quel periodo di lavoro e cosa, a tuo avviso, apprezzava Battiato del tuo essere musicista?
Lui aveva preso tutta la mia band, con la quale poi avrei partecipato a Sanremo. Ci siamo sciolti poco dopo. Era divertito dal nostro modo di suonare, ci chiamava ‘Il Trio Devastante’ ed effettivamente all’epoca avevamo forse un senso. Quando la band si sciolse si fece un tour senza ritmica e chiamarono dunque solo me. Era il periodo di “Fleurs 2”. Da quel momento rimasi quasi fino a quando smise, nel 2016. Venendo invece alla tua domanda specifica non saprei dirti cosa apprezzasse in modo particolare. Non sono un chitarrista convenzionale e pur non avendo capacità tecniche virtuosistiche esasperate ho certamente un timbro abbastanza riconoscibile. Con me non si rischiano virtuosismi fini a sé stessi. Forse gli piaceva quello o forse, semplicemente, non era conveniente ripartire da zero con qualcun altro. Chi lo sa. Sta di fatto che, insomma, è stato il mio primo lavoro di peso e da lì ho imparato tutto. Di lui mi rimane la serenità nell’affrontare qualsiasi palcoscenico. Aveva la consapevolezza di cosa fosse davvero importante nella vita e di quanto la musica andasse, in fondo, vissuta con leggerezza, che non è superficialità.

Hai lavorato anche con Gianna Nannini e Syria: due artiste completamente differenti dal punto di vista musicale e dell’approccio al palco ma dotate di grandi doti musicali e interpretative. Come si è sviluppata la tua esperienza con loro?
Della Nannini ho ricordi ‘terribili’... Una volta abbiamo fatto un tour europeo durante il quale chiamavo mia madre piangendo e dicendo che volevo tornare a casa! Con Cecilia, invece, ci siamo semplicemente persi di vista.

 

Che genere di musica ascolti quando vuoi staccare con il lavoro e cosa ne pensi della “liquidità” nell’ascolto della musica che ha ucciso il prodotto fisico?
Le evoluzioni tecnologiche, quando arrivano, sono inarrestabili. Basta pensare a quando inventarono il masterizzatore per i cd. Alle case discografiche sarebbe toccato adeguarsi prima, tanto una volta iniziato il processo non lo fermi più. Così accade con lo streaming. Poco conta di ciò che pensiamo io e te: questa, adesso, è la realtà con cui tocca confrontarsi. A me la tecnologia non fa troppa paura. Ci sono nato e cresciuto e so ribellarmi abbastanza ad essa quando è necessario, però mi rendo conto che il progresso della civiltà è un’altra faccenda. Come dicevo all’inizio, in questi ultimi periodi ascolto solo musica elettronica, quasi mai cantata. Adesso sono in fissa con Christian Löffler (qui in alto nella foto). È venuto a suonare a Milano, sono andato a vederlo e ho trovato tra il pubblico alcune persone che umanamente stimo. Non ci eravamo messi d’accordo ma è stata una piacevole sorpresa scoprire quanto ancora la musica dal vivo possa unire le persone. Mi piace un certo tipo di ambient e mi piacciono le colonne sonore, ma di fatto ascolto poca musica. Quando vado a correre, però, ascolto ancora i Radiohead.

Torniamo alla tua ultima fatica/gioia, il tour con Max Pezzali. Ho visto una delle tre date di San Siro, un live di grande impatto sonoro (grazie anche ad un’ottima band formata, oltre che da Davide alle chitarre e alle tastiere, da Giordano Colombo alla batteria, Giorgio Mastrocola alle chitarre, Marco Mariniello al basso ed Ernesto Ghezzi alle tastiere, qui sotto nella foto di gruppo finale a San Siro) e con un forte appeal anche dal punto di vista delle immagini, senza contare l’empatia che voi e Max siete riusciti a creare con la marea di gente che avevate davanti. Con quale obbiettivo artistico è stato concepito e quale il feedback che arriva sul palco da un pubblico intergenerazionale?
Gli stadi sono spazi davvero enormi e le anime del pubblico risuonano moltissimo. Sei investito da un’energia talmente forte che appena scende un po’ te ne accorgi subito. Può succedere per un dettaglio, per una pausa di troppo o perché in quel momento stai suonando con il livello di convinzione a novantanove invece che a cento. È incredibile come ogni piccola cosa sia amplificata. L’obiettivo artistico - anche se va detto che io c’entro poco in questo visto che è materia di management - è quello di fare andare a casa la gente a seguito di una bufera emotiva che passa dalla nostalgia alla commozione, passando per il divertimento e la festa. Operazione riuscita, direi.

 

Se tu potessi ritornare all’inizio della tua carriera, al tempo della formazione degli FSC, che cosa rifaresti e cosa no e, dall’alto della tua esperienza, quali consigli daresti a un ragazzo infatuato della musica con la speranza di un eventuale lavoro nel campo musicale?
Ma non c’è nessun alto e nessuna esperienza e i miei rimpianti, qualora io ne abbia, non sono in ambito musicale. Tutto sommato sono dove voglio essere a fare quello che voglio fare. A volte è faticoso, a volte precario, a volte faticosissimo, ma che lavoro non lo è? Dall’esperienza della band ho tratto che scendere a compromessi nell’arte è sbagliato. I risultati di questa scelta li ho pagati, in effetti. Mi dicevano: “devi prima diventare famoso, poi fai quello che vuoi!”, una delle più grandi stronzate che si possano sentire, ma quando hai vent’anni non lo sai. Mi è capitato di tornare a Sanremo anni dopo ed effettivamente mi ha intristito molto. Il mondo del pop, in generale, salvo rarissimi casi tra cui quello dove sono io, è tendenzialmente un po’ triste. Senza aver fatto tutto questo, però, non avrei potuto sviluppare questo ragionamento per cui, insomma, va bene così. Va bene essersi staccati, non sapere chi c’è in classifica e sorridere perché, in fondo, ognuno deve stare dove sta bene…

 

L’intervista è terminata è già penso a Davide immerso ad immaginare quali suoni trarre dai suoi strumenti, a come coniugare il pensiero musicale con l’elettronica, a come restare profondamente sé stesso, come persona e come musicista.

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