Folkabbestia!
Folkabbestia, un gruppo musicale tout court, un ensemble situazionista,
un gruppo di combat-folk oppure una band che ha nella canzone popolare e nei ritmi
del rock le affinità più consistenti?
Non ci è mai piaciuto mettere
un’etichetta alla nostra musica, questo è il nostro pregio e forse il nostro
difetto, ma è quello che siamo. Ci piace suonare davanti alla gente, ci piace
cantare quello che sentiamo, la musica popolare per danzare, il blues per
sognare, il punk per gridare, il folk a bestia!
Proporre il vostro genere musicale partendo dal Sud Italia: una
risorsa, una possibilità, un colpo di genio oppure un’arma di costruzione di
percorsi anche culturali?
Il sud ci scorre nelle vene e
nella musica e nel sud ci sono le nostre radici, possiamo suonare una giga
irlandese, una hora balcanica, una canzone rock, ma si coloreranno sempre di
tarantella. Con “Il segreto della felicità” abbiamo voluto celebrare il sud
Italia, la sua storia, gloriosa e povera, dimenticata e nascosta, la sua
musica, viva come lo è da noi in Puglia, la sua gente, quella che è partita,
quella che è arrivata e quella che deve ritrovare la propria via, magari del
folk…
Avete prodotto un album, “25-60-38”, nel quale avete rivisto cinquant’anni di
canzone italiana. Al di là delle differenze anagrafiche, di generi e gusti, che
cosa vi è piaciuto/vi piace della canzone italiana in generale e nella canzone
d’autore in particolare?
Ci piace la canzone che si fa
poesia, quella vera, che ti arricchisce, magari antica ma che sa emozionare o
divertire anche oggi: De André, Modugno, Carosone, Conte, Guccini, Jannacci, De Gregori, Battiato, Fossati. Ma anche Matteo
Salvatore, Otello Prefazio, Cioffi e Pisano. La canzone che i modelli li fa suoi e non li imita, la
canzone popolare nel senso più profondo e reale della parola.
Il vostro ultimo lavoro, “Il segreto della felicità”, è un concentrato
di energia e di allegria, pur filtrata da una inevitabile malinconia presente
in alcune liriche. Che cosa rappresenta, dopo oltre una dozzina d’anni di
musica, palcoscenici, album, concerti, un album come questo e come vi rappresenta
nella dimensione del proseguimento della vostra carriera?
Rappresenta una tappa del nostro
cammino, quello che abbiamo imparato, quello che abbiamo visto, chi abbiamo
incontrato, quello che abbiamo perso e quello che abbiamo trovato. Chi già ci
conosce ritroverà un suo vecchio amico un po’ cambiato ma lo riconoscerà, chi
non ci conosce avrà voglia di leggere il nostro percorso al contrario e di
scoprire da dove veniamo.
Voi che avete la possibilità di girare per varie realtà italiane, come
vi appare questo sempre più “strano” paese, sia dal punto di vista di ricezione
della vostra proposta musicale che nelle dinamiche di partecipazione
complessiva ad un concerto?
Citando una nostra canzone: «cicce
paule u capone, ha perdute u calandrone, kiù non sape ce fe cicce pe cicce pe».
Traduzione dal barese: Ciccio Paolo il testone, ha perduto il calandrone
(grossa calandra), non sa più che fare.. cicce pe cicce pe (onomatopea). La
sensazione è di smarrimento… forse la soluzione è quella di ritrovare la
propria musica, di cantarla, danzarla e suonarla, non da soli ma tutti insieme!
Per molti appassionati della vostra musica rappresentate una sorta di
“casa”, di “comunità” nella quale riconoscersi e con cui condividere dei
percorsi di vita. Brevi o lunghi che siano. Non vi sembra che questo
atteggiamento, presente anche per altri gruppi, esprima il bisogno di
condividere temi, parole, anche sogni di cui si parla sempre meno?
E’ la soddisfazione più grande
del nostro lavoro, creare un senso di identità in chi ci segue e apprezza,
sentirsi dire: «meno male che ci siete ancora voi che cantate e dite certe cose»,
aggiungo, che crediamo nei sogni, nell’utopia, nella poesia al potere!