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Rita Botto

La voce (e il vaso)

Prendendo spunto da uno dei dischi più interessanti dell’ultimo anno, Donna Rita, abbiamo voluto conoscere meglio Rita Botto, e chiacchierando con lei ci siamo resi conto che per descriverla sono calzanti le stesse definizioni che si possono usare per la sua musica. È moderna, curiosa e aperta alla sperimentazione (tanto da arrivare a cantare in un vaso...), e allo stesso tempo saldamente ancorata alle proprie origini e tradizioni, preparata ma non saccente, appassionata e intensa, eppure dotata di una verve e un’ironia che conquistano. Tutte caratteristiche che rendono interessante e brillante la conversare con lei, così come ascoltare la sua musica...


Anche in questo disco il collante di tutti i brani è il dialetto siciliano. Hai trovato definitivamente la tua strada nella musica dialettale?
Ho iniziato con il jazz e la canzone brasiliana, poi sono passata al dialetto, portandomi dietro tutto il mio bagaglio musicale precedente, che emerge nella mia musica attuale. Sono contenta di cantare in siciliano, perché è una giusta missione quella di continuare ad alimentare il dialetto, ma non voglio che diventi una costrizione, o una forzatura. Continuerò a farlo finché mi verrà naturale e ne sentirò il bisogno. Ogni tanto temo che questa scelta diventi un limite. Ad esempio a volte scarto una canzone perché non è in dialetto, e questo mi dispiace. In questo disco canto Haja o que houver dei Madredeus in portoghese e poi passo al siciliano, ma in questo caso è stato un passaggio naturale, suggeritomi dalla canzone stessa. In futuro potrei sganciarmi dal dialetto per fare un disco cantando brani di tante interpreti popolari di varie parti del mondo, perché mi piace impossessarmi di lingue sonanti e pezzi belli, come Canciones y momentos, presente in “Ethnea”.

In Canciones y momentos si ascolta Rita Botto e si sente Mercedes Sosa... In certe parti sembri quasi lei!
Me lo dicono in molti. In effetti, spesso affrontando un brano mi prendo delle libertà, ma questo era talmente bello che non potevo cambiare niente, mi sentivo solo di ricalcare. E poi in comune con Mercedes Sosa ho il timbro scuro e la voce bassa.

La tua interpretazione sembra un omaggio rispettoso alla grande cantante argentina.
Se lo interpreti come omaggio, allora è un doppio omaggio. A Mercedes Sosa, perché nella sua interpretazione non c’era nulla da aggiungere, e poi a Rosa Balistreri, a cui tutto “Ethnea”, il mio primo disco, è dedicato. In particolare questa canzone, che parla dell’interprete, e di come crei un unico momento intenso tra chi emette un suono e chi lo recepisce. E Rosa come interprete era grande.

Rosa Balistreri ritorna in tutti i tuoi dischi…
È stata la mia disgrazia o la mia fortuna. Comunque la mia svolta. Quando l’ho scoperta come cantante ho avuto un’illuminazione, ho capito cosa volevo fare. Cantavo il jazz, ma in inglese, che non è mai la tua lingua e dunque non entri mai veramente nelle pieghe dei suoni, è qualcosa che non ti appartiene del tutto. Poi ho scoperto questa artista e quando è mancata mi sono sentita investita della missione di continuare il suo lavoro, di riprendere la tradizione siciliana. Non mi piace tutto il suo repertorio, ma lei, è vero, ritorna sempre, perché è la madre che ha generato il mio cambiamento.

Tra l’altro le avete anche dedicato un concerto omaggio, com’è andata?
Sì, il 31 maggio di quest’anno in piazza dell’Università a Catania, organizzato da Carmen Consoli. Ci sono stati una mostra e un concerto con cantanti pop che interpretavano Rosa. Le uniche siciliane eravamo io, Etta Scollo e Carmen. Poi c’erano Ornella Vanoni, Marina Rei, Giorgia, Paola Turci, Nada… che erano spaventatissime all’idea di dovere cantare in siciliano, ma sono state bravissime.

Ho letto che “Donna Rita” è uscito in dieci paesi
Mah! Io l’ho fatto in un paese, poi che strada abbia preso dopo, io non ne ho idea. Però è vero che su MySpace mi arrivano messaggi dagli Stati Uniti. Ora anche dalla Spagna, ma perché ho appena finito un tour in Spagna e Portogallo con altri interpreti di varie provenienze.

Leggendo di questa uscita in paesi stranieri, riflettevo sul fatto che in un paese latino è più facile che il pubblico possa capire questo lavoro, ma chissà un tedesco o uno svedese come possono reagire davanti a un disco in siciliano. Poi ripensandoci forse il linguaggio della musica va oltre la comprensione verbale o intellettuale, e per assurdo può essere più facile che a un tedesco arrivi “Donna Rita” che un disco di De Gregori…

Tieni conto che in Germania ci sono molti emigrati italiani, così come negli Stati Uniti, e secondo me quelli che mi hanno scritto su MySpace sono tutti emigrati! Però capisco il tuo discorso. È come ascoltare Cesária Évora. Anche se non capisci la sua lingua, bastano la musica e la sua voce melodiosa a trasmettere significati.

In questo disco ti sei presentata come autrice. Da cosa nasce la tua ispirazione nello scrivere un pezzo?
Io mi vedo fondamentalmente come interprete, la scrittura non nasce da una mia esigenza. Mi sono sforzata di scrivere perché il mio produttore mi ha invitato a farlo, dicendo che mi avrebbe qualificato di più come artista, mi avrebbe completato. Ma io in effetti non ho il “dono della parola pensata”, procedo più per immagini. Mi viene molto più spontaneo inventare una melodia, mentre nei testi, più che scrivere io, mi viene più facile riconoscere il mio sentimento in scritti di altri autori. Ad ogni modo quando lo faccio giro sempre intorno alla tradizione: leggo quartine di poeti anonimi mai state cantate, e trascrivo le frasi per me dense di significato, o un’espressione forte, che mi piace. Poi cucio tutto insieme con frasi mie a fare da collante. Ritango e Solu ppi ttia sono legate ad una stessa delusione d’amore, alla gelosia e al tradimento. Quando ho letto: «Ccu sdegnu ti rinunzio e ti schifiu / sputu li manu ccu cui ti tuccaiu» subito l’ho trascritto, perché è un’immagine meravigliosa! Che disprezzo in quel «sputo le mani con cui ti toccai»! Questa non l’ho modificata perché era già perfetta.

C’è anche una vena giocosa in questo disco. Rosa è esilarante!

In questa canzone voglio fare mettere la testa a posto all’uomo siciliano, che qui finalmente si vuole sposare. Alla fine però come vedi si parla sempre d’amore…

In diversi modi, perché passi dall’allegria di Rosa al disprezzo di Ritango fino a Solu ppi ttia, che è struggente…
Solu ppi ttia
è un brano che mi rappresenta in pieno. Tutte le parole sono mie, sono io in prima persona. Ma se per scrivere una canzone bisogna soffrire tanto, ci rinuncio! Sono anni di malavita! È una sublimazione, ma ne faccio francamente a meno!


Hai cantato con Carmen Consoli, Kaballà, Mario Venuti… Come vedi il panorama della musica siciliana attuale?
Loro sono “siciliani pop”, per così dire. Mario Venuti lo conosco dai tempi dei Denovo, da quando aveva tutti i capelli, tanto per capirci. In Sicilia viviamo nello stesso palazzo, siamo amici e io lo stimo molto. È un autore originale, nelle sue composizioni non c’è nulla di scontato, è molto attento, cura molto sia la musica che i testi. Però è un autore pop italiano, ha fatto solo una canzone in dialetto. Kaballà è più vicino alla lingua siciliana. L’ho conosciuto da pochissimo perché è amico di Mario e spero di collaborare presto con lui, perché ci sono stima e affetto reciproci. Ha un disco quasi pronto da non so quanti anni ma non si decide a farlo uscire. Mi vorrebbe come ospite, ma forse faccio prima io nel mio prossimo disco a invitare lui! Carmen si è entusiasmata per la musica dialettale da poco, in quanto produttrice dei Lautari, e ne sono molto contenta perché un’artista famosa come lei non può che aiutare. Naturalmente lo fa a modo suo, da cantante rock.

Non è l’unica cantante pop-rock che si è interessata alla musica popolare, anzi, sembra un po’ una nuova corrente della musica italiana. Da cosa credi che dipenda?
A volte diventa una moda, come negli anni sessanta. Adesso però si riprende spesso la tradizione in chiave world music.

Forse però negli anni sessanta era un movimento più intellettuale…
Ma io credo che in fondo lo sia sempre. Mercedes Sosa è stata una cantante popolare, ma anche politica. Questa scelta è rivoluzionaria quando è fatta in tempi non sospetti.

Si sente dal tuo modo di interpretare che intendi la voce come uno strumento. Hai dei maestri in questo? C’è qualche interprete che ammiri?

Sicuramente quando si inizia si ha sempre un modello. Io ho cominciato da autodidatta per cui non c’è stato nessun maestro che mi abbia impostato la voce, che si è impostata da sola con l’uso. Nei primi tempi il mio modello era Mina. Cantavo le sue canzoni, tentando di imitarla. Facevo uno spettacolo che si chiamava “Tre voci in una”, dove cantavo pezzi di Mina, Stevie Wonder e Dionne Warwick, che sono stati i miei primi riferimenti. Quindi nella mia formazione c’è molto folk, ma anche soul e canzone italiana. Poi ho capito che imitare non era buono e dovevo trovare una maniera personale di cantare, anche se era difficile perché ormai avevo trovato un modo collaudato di usare la voce. Successivamente mi sono dedicata al jazz e quindi ho avuto altre maestre, infinite, e un’intuizione diversa del suono. Sono passata per tante voci, ognuna delle quali mi ha lasciato qualcosa, e poi sono approdata ad un mio modo, spero riconoscibile. Però i maestri sono sempre validi. Da ogni cantante ho preso delle posizioni, il segreto su come emettere dei suoni.

La tua voce è molto duttile. Sai esprimere una grande tensione come ad esempio in Quantu balisicu e passare ad un’interpretazione scanzonata come quella di Rosa.
Le canzoni struggenti mi vengono benissimo, ci sguazzo! In questo disco però è vero che ho prediletto un po’ la leggerezza e le canzoni ironiche, perché comunque mi piace molto scherzare.

C’è qualcosa della tua interpretazione che vorresti migliorare?
Più che dell’interpretazione, della tecnica. Mi sta piacendo adesso lavorare sui piani e sui forti. Partire da un piano e farlo diventare forte, o lavorare sugli stacchi bruschi. Per fortuna si scoprono sempre delle cose che si possono migliorare e che ti piace fare. Ogni tanto avrei voglia di andare da una cantante seria e farmi impostare la voce, mi piacerebbe guadagnare gli acuti, ma ormai la voce è abbastanza matura, si è formata. Poi ci sono dei limiti fisici per cui una voce non può far tutto dall’altissimo al bassissimo.


A proposito di tecnica: dal vivo ti ho visto cantare in un vaso. Prima che iniziasse il concerto, vedendo il vaso di vetro sul palco, qualcuno tra il pubblico credeva ci fosse un’estrazione della lotteria… Perché lo fai e come è nata quest’idea?

Me ne dicono di tutti i colori! Io, pur non sapendo niente di musica, ho insegnato canto, a Ferrara. È stata una grande esperienza perché mi ha portato a studiare e a prepararmi, per un senso di responsabilità. Infatti ascoltare una voce e doverla modificare, o solo dare dei consigli, è una grande responsabilità oltre che una bella esperienza. Nel fare questo mi aiutavo con dei libri. Ho cominciato dal suono: le onde, le vibrazioni. Un suono per aumentare di volume ha bisogno di un luogo dove risuonare, come la corda di una chitarra con la cassa di risonanza. In un libro si spiegava questo concetto con l’esempio di un vaso. Allora ho provato a cantare dentro un vaso per fare capire il concetto agli allievi. Cantavo dentro qualsiasi cosa che mi capitasse a tiro. Ti accorgi che ogni volume ha una nota che rimbomba, che suona di più… In vasi di grandezza diversa, le note e le vibrazioni entrano in risonanza in modo diverso. In un vaso piccolo risuoneranno le note piccole, che hanno vibrazioni piccole. Le note acute hanno vibrazioni strette e frequenti, la nota bassa di un suono grave ha un’onda sonora lunga, larga, e ha bisogno di posti ampi, come le chiese. Cantare dentro un vaso è innazitutto un piacere per chi lo fa, perché è un bagno di suono, perché senti le note belle, grandi, vibranti. Certo sono effetti che si potrebbero ottenere con un microfono, o con l’elettronica, ma a me piace crearli naturalmente. Poi cantare dentro le pentole è il massimo. Io ho una pentola che mi canta benissimo!


Potresti portarla in concerto con te!
Sì, così poi la gente crede cha faccia la pasta…! E poi c’è già il percussionista che mi accompagna che mette l’acqua dentro le pentole e dà dei tintinnii. A me piace fare musica con i suoi naturali. La cosa bella è che quando si dice “risuonatore” si sta dicendo che quella cosa canta con te. Il mio suono è una vibrazione, che mette in vibrazione il risuonatore. Io canto in una pentola, e le mie onde sonore stanno muovendo leggermente la pentola. La pentola sta cantando con me. Quindi il suono che io faccio è anche accresciuto dal suo suono. Se io canto dentro una stanza, quella stanza sta cantando con me.


Insegnando non avevi paura di svelare segreti che magari ci avevi messo anni ad imparare?
Macché! Tutti i miei segreti erano inconsapevoli. Casomai insegnare mi ha aiutato ad avere consapevolezza. Però bisogna fare molta attenzione con la voce degli altri. Non bisogna commettere l’errore di fare riprodurre la tua voce ai tuoi allievi. Ognuno fisicamente ha dei propri luoghi, e il cantante è il primo insegnante di se stesso. È una cosa buona che ti impostino la voce, ad esempio nel campo lirico, ma la scoperta più grande la fai tu, sei tu che crei il suono: lo apri, lo chiudi, lo puoi scurire… Però già in partenza noi siamo uno strumento musicale. La cavità nasale, la grandezza della bocca, la conformazione della nostra testa, la glottide, l’epiglottide, le zone retronasali… sono luoghi deputati al risuonamento. Non è un caso che le persone di colore abbiano quei suoni forti retronasali: dipendono dalla loro conformazione fisica, per cui il suono si può cambiare fino ai limiti fisici.

Ho letto che dei tuoi brani sono inseriti nella colonna sonora della fiction di Rai3 “Agrodolce”. Che effetto fa?
In realtà la colonna sonora l’ha scritta Olivia Sellerio, che fa più o meno quello che faccio io: rilegge la tradizione siciliana in chiave jazz, poi all’interno della soap opera metteranno alcuni miei brani: Canzonetta 2 e Pirati a Palermo. Sto aspettando le puntate giuste per vedere che emozione si prova a sentire la tua musica all’interno di una soap opera… è una cosa strana, sarà come sentire le tue canzoni guardando “Beautiful”?!


Siamo passate da Rosa Balistreri a “Beautiful”. Forse è il segno che è meglio concludere qui la nostra conversazione!
Hai ragione, fermiamoci, prima che sia troppo tardi!




(09/12/2008)

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