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Marco Notari

Lo spazio etereo dell’Io

Volto post-adolescenziale, voce ruvida e delicata, al contempo grido viscerale e carezza chiara, Marco Notari, classe 1979, insegue la maturità artistica nel suo terzo album Io? (Libellula/Audioglobe), inoltrandosi nei meandri dell’interiorità e negli inferni di una collettività sempre più passiva e catalettica con suoni fluidi e cangianti: da un post-grunge eterodosso, da eclettiche fusioni di alt-rock ed esperimenti cantautorali l’artista torinese passa ad uno stile etereo e personale, che sperimenta con sicurezza e coerenza un’alchimia onirica e delicata di sintetizzatori, glockenspiel, tastiere e programmazioni, che sa accendersi di inquietudini elettriche ed elettroniche, rari suoni distorti e code psichedeliche. Signore e signori, addentriamoci negli interrogativi e nelle risposte di Io?  

La costante di Babele (2008) era, quasi ossimoricamente, la varietà, un’alternanza di stili e suoni, tra sperimentazione e distorsioni da un lato, e momenti dal sound più pulito e cantautorale dall’altro. Io? si presenta invece come una fusione organica della molteplicità, un flusso di colori liquidi in atmosfere eteree, oniriche e surreali, in cui fluttuano suoni filtrati, synths e tocchi di glockenspiel. Come è cambiato Marco Notari musicalmente dal 2008 ad oggi?

Sicuramente c’è stata una ulteriore evoluzione del sound, così come già era stato per Babele rispetto ad Oltre lo Specchio (2006). Se Oltre lo Specchio rappresentava un punto di partenza e Babele era un disco esplorativo, penso che Io? segni un punto d’arrivo a livello di sonorità, grazie anche al lavoro del produttore artistico Andrea Bergesio che ha suonato in prima persona buona parte delle tastiere e delle programmazioni. Tra noi si è creata da subito un’ottima sintonia e credo che siamo riusciti nell’intento di creare un mondo sonoro molto personale. Sono diminuite le distorsioni e sono aumentati i pianoforti, i glockenspiel e le tastiere in generale. Abbiamo usato gli oggetti più svariati per creare delle parti percussive (tra cui un enorme scatolone di cartone che avevamo in sala prove) ed abbiamo inserito diversi elementi orchestrali: fiati, archi, grancassa e anche l’arpa in due brani.

Questi ambienti sonori sembrano coerenti con i testi che appaiono quasi post-apocalittici, come se, partendo dai frequenti riferimenti alle nascite, si attraversasse la vita e ci si proiettasse, con un salto doloroso e visionario, fuori e dopo il reale, oltre le macerie di un presente da cui si prendono apertamente le distanze in Canzone d’amore e d’anarchia, ma anche nella provocatoria, amara Hamsit. Cosa ha ispirato queste canzoni e come vedi effettivamente il nostro oggi e il nostro futuro, italiano, generazionale, sociopolitico?

Il nostro oggi lo vedo dominato dal desiderio di potere, di possesso e di successo, spesso a scapito degli altri. Questi sono i motori di tutto l’odio, la diffidenza e le incomprensioni che governano la società. Siamo in lotta costante con gli altri perché temiamo che ci portino via il nostro potere ed i nostri averi. Non ci rendiamo conto che queste cose non rappresentano la chiave per la felicità, anzi ne sono l’esatto contrario. Canzone d’amore e d’anarchia parla fondamentalmente di questo, perché dall’altro lato dello spettro rispetto al potere c’è l’amore, il dare senza pretendere nulla in cambio, e l’anarco-individualismo, quello che predicavano Max Stirner e poi de Andrè, inteso come libertà d’espressione, diversità di pensiero, dialogo aperto e rifiuto del potere costituito che per sua natura mortifica queste possibilità. Hamsik invece è più legata al panorama sociopolitico e generazionale del nostro Paese, parla di fabbriche che chiudono per lasciare il posto ai centri commerciali e di una classe politica che sta svuotando sempre di più i contenuti della democrazia. Tutto questo con sullo sfondo il disinteresse di una buona fetta delle persone che abitano l’Italia e che scoprono di essere cittadini italiani soltanto in occasione dei Mondiali di calcio e delle Olimpiadi. Hamsik è appunto il capitano della nazionale di calcio slovacca che ha eliminato la nostra nazionale dagli ultimi mondiali.

Questa sorta di sospensione fuori dalla realtà terrena prende spesso i contorni di fantasie fantascientifiche, imbevute anche di cinema, che disegnano appunto apocalissi da cui ci si allontana in una fuga nello spazio. In alcune delle foto promo dell’album sei anche in tenuta da astronauta (con tanto di astronave di cartone con cui utopisticamente involarsi nel cielo lasciando i cumuli di rifiuti della terra). Come mai troviamo questi temi ed immagini?

L’idea delle foto promozionali del disco, che sono state realizzate in un pollaio industriale ed in una discarica, deriva dal fatto che queste location appaiono decisamente surreali nella loro disumanità, e quindi si sono prestate bene al nostro scopo che era proprio quello di realizzare scatti con questo tipo di atmosfere, ma di fatto sono profondamente reali e sono l’esatta conseguenza del nostro stile di vita odierno. E’ profondamente ipocrita mettersi una benda sugli occhi e fare finta di non vedere: questo consumismo esasperato, che ha il solo scopo di reggere in piedi un sistema economico artificialmente sovradimensionato, sta producendo effetti devastanti. Ognuno di noi ne è responsabile e dovrebbe analizzare attentamente la provenienza dei beni che acquista e del cibo che consuma, per il bene della propria salute, dei propri simili e del proprio pianeta.

In Apollo 11 si canta di un distacco terapeutico che prende la misura di spazi cosmici, forse per sempre, ma è anche perdersi sulla luna, anestetizzando i sentimenti e congelando le speranze. Però canti “ci siamo amati, odiati e fatti male. Tu sei la sola cosa per cui vorrei tornare”. Alla terra, con il suo grembo di dolore e di amore, a quell’amore vero, forza conflittuale che esalta e distrugge, non si può fare a meno di tornare?

Non necessariamente, volendo ci si può allontanare dalla terra, fisicamente o metaforicamente, e mettere a tacere le proprie emozioni e i propri sentimenti, ma così facendo si rischia di perdere la parte migliore di sé stessi. Io penso più che altro che non si debba, nei limiti del possibile per ognuno di noi, per il nostro bene. Gli esseri umani a volte sono capaci di imprese straordinarie, come la conquista della luna, che simbolicamente rappresenta ed ha rappresentato ben più che un successo scientifico o politico. Immagino che anche la persona più disperata della terra in un frangente del genere possa sentire una piccola speranza per il proprio futuro, possa tornare a vedere quanto di buono ci può essere nelle persone.

 

Da Io non mi riconosco nel mio stato  a Io?: il brano omonimo parte tra l’altro come un gioco di infrangersi e rispecchiarsi di campionamenti. E la sua reprise è pure un riecheggiare plurimo di voci e un dialogo corale di strumenti. C’è un punto interrogativo sulla e sulle identità in questo disco? Come mai questo titolo, considerato anche che c’è quasi un concetto di Io freudiano in Io, il mio corpo e l’inconscio?

Non tanto sull’identità del disco quanto sulla mia, o sulle mie se preferisci. Il brano Io, il mio corpo e l’inconscio, ed in fondo la maggior parte dei brani del disco, sono nati come una sorta di flusso di coscienza su di me, sul tragitto della mia vita e su quello che spero resterà di essa. Qualsiasi persona è costantemente alla ricerca di se stessa, interrompere questa ricerca significa interrompere la propria crescita, il punto interrogativo di Io? vuol dire questo. Credo che questi due brani racchiudano molto bene l’urgenza compositiva che è alla base di tutto il disco: quando prendi consapevolezza della tua natura, nasce il desiderio di fissare le persone a cui vuoi bene e le cose a cui tieni di più in qualcosa che sia immune allo scorrere del tempo della tua vita. Gran parte delle opere d’arte nascono da questo tipo di urgenza, più o meno consapevolmente. In questo senso Io? è un disco che ho scritto molto per me stesso, come un diario da rileggere tra tanti anni quando molte di queste cose saranno passate o sbiadite.

In un’altra foto promozionale, suoni un piccolo piano in pollaio ed inviti al silenzio per non svegliarne gli abitanti che sonnecchiano: che significato ha questa foto?

In una accezione metaforica potrei dirti che questi polli d’allevamento continuiamo ad essere noi, ipernutriti, stanchi ed apatici, rinchiusi in un enorme capannone/casa di finto benessere e prigionieri di una vita di cui non siamo padroni. Però c’è anche un’altra chiave di lettura: i polli di allevamento vivono mediamente 70 giorni, in cui vengono continuamente nutriti con cibo arricchito da vaccini ed estrogeni e con le luci accese 24 ore su 24 affinché non dormano mai e crescano più velocemente. Ogni giorno molti di loro muoiono per il caldo, ed in pratica non hanno nemmeno lo spazio per imparare a camminare. Quando ho iniziato a suonare il toy piano che vedi nelle foto diversi di loro si sono avvicinati a me e cullati dalla musica sono riusciti finalmente a dormire per qualche minuto. In effetti uno dei motivi per cui ho scelto questa location è che sono vegetariano e che molte persone non hanno idea di come funzionano la maggior parte degli allevamenti di animali.

Dopo il video di Porpora, ora Tommaso Cerasuolo dei Perturbazione firma la copertina di Io? e i cori di Le stelle ci cambieranno la pelle. Cosa pensi della copertina e come è nata e si sta sviluppando questa collaborazione?

Con Tommaso è nata una bellissima amicizia, supportata da una reciproca stima artistica. Visto che lui è anche un bravissimo illustratore, gli ho proposto di realizzare le grafiche del disco. Così ha disegnato a mano cinque tavole, di cui una è diventata la copertina e le altre quattro sono finite all’interno dell’artwork che abbiamo realizzato in formato digibook. E’ un lavoro di cui sono molto soddisfatto e le illustrazioni di Tommaso sono davvero straordinarie. Per quanto riguarda “Le stelle ci cambieranno pelle”, che sarà anche il primo singolo del disco, più che di un semplice coro si tratta quasi di un duetto in effetti.

Nel 2006 hai partecipato al tributo ConGarbo. Quali riferimenti italiani sono stati fondamentali nel tuo percorso musicale e quali sono determinanti tuttora? Come sono cambiati i tuoi ascolti in questi anni?

Da un lato sicuramente i grandi cantautori degli anni ’60 e ’70, come de Andrè, Gaber, Ciampi, Tenco, de Gregori, Battisti, soprattutto per quanto riguarda i testi ed in alcuni casi la voglia di rinnovare e contaminare i modelli della canzone d’autore italiana, che senza volermi accostare a questi mostri sacri è ciò che tento di fare anche io. Per il resto devo ammettere che i miei ascolti italiani attualmente non sono molti, se dovessi citare le tre band che mi hanno affascinato di più negli ultimi anni e da cui mi sono sentito maggiormente influenzato per la stesura di questo disco direi Radiohead, Sigur Ros ed Air.

Babele diventò Babele:noir, vinile con tredici racconti e tredici illustrazioni, ma anche mostra multimediale. Pensi di dedicarti ad altri progetti di contaminazione e fusione di forme d’arte e linguaggi?

L’esperienza di Babele:noir è stata molto bella ma anche molto impegnativa. Resto sempre interessato alle possibilità di contaminare la mia musica con altre forme d’arte, ma al momento non ho progetti a breve termine in questo senso per Io?.

Dal vinile a Viinyl, piattaforma per la promozione musicale su cui hai distribuito gratis il tuo nuovo singolo, per restare in contatto poi via mail con i tuoi fan: è in corso o prossima la fine della discografia come l’abbiamo conosciuta? Gli artisti raggiungeranno sempre più il loro pubblico senza mediazioni? Tra l’altro in questi anni la realtà Libellula, da te fondata per gestire direttamente management, booking e promozione degli artisti, è cresciuta sempre più e con Libellula esce ora il tuo album…

Penso che la fine della discografia come l’abbiamo conosciuta sia già avvenuta. Le etichette non hanno più le risorse e le possibilità di investire sugli artisti, che in gran parte di fatto ormai si autoproducono. L’aspetto positivo di tutto ciò è che i musicisti si stanno riappropriando della gestione della propria attività musicale, come nel caso di Libellula, una realtà in cui siamo quasi tutti musicisti a lavorare. Ci sono altre strutture ben più consolidate della nostra che partono dallo stesso principio e a cui ci siamo ispirati, come Tempesta o Trovarobato, che in questi ultimi anni hanno saputo ritagliarsi un posto importante nel mondo della musica italiana. Credo che trovarsi da entrambi i lati della barricata aiuti a trattare con maggior rispetto e passione le produzioni degli artisti per cui si lavora, e che questo aspetto unito alle giuste competenze consenta di svolgere un ottimo lavoro, anche perché si è perfettamente consapevoli degli sforzi che l’artista ha compiuto per produrre il proprio disco. Per quanto riguarda invece la prima parte della tua domanda, credo molto nel contatto diretto tra un artista ed il suo pubblico, quando si realizza una canzone lo si fa per comunicare qualcosa alle persone ed è bello che questa comunicazione possa essere bidirezionale.  

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