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Marco Ongaro

Marco Ongaro: "I miei Solitari, preziosi nella rarità"

In occasione dell'uscita del suo undicesimo album, Solitari, abbiamo incontrato Marco Ongaro. Una lunga chiacchierata tra l'amore per Serge Gainsbourg e quello per i giochi di parole... e per quelle persone solitarie che hanno la fortuna di incontrarsi.  

Marco, sono stati mesi intensi per te, perché prima dell’uscita del nuovo disco Solitari hai pubblicato una bellissima biografia su Serge Gainsbourg (Un poeta può nasconderne un altro, Caissa Editore). Vorrei partire da qui. Cosa ha rappresentato Gainsbourg per te?
Gainsbourg mi ha accompagnato dall’età di 12 anni, l’età in cui uno cerca di formarsi una personalità unica. Era il 1969 e io sentivo l’annuncio in radio da parte di Lelio Luttazzi di un disco - Je t’aime moi non plus - in testa alla classifica che poi non ti faceva sentire, perché era censurato; è chiaro che la cosa suscitava una certa curiosità. Curiosità legata anche al titolo che nessuno a quei tempi aveva pensato di tradurre per noi non francofoni: spiegarci questa assurdità di dire “ti amo, neanch’io”. Ricordo che quasi contemporaneamente era uscito, come succedeva in quegli anni, una versione in italiano - mi pare cantato da Enrico Maria Salerno -  che faceva: “Ti amo, io di più”. Questo ti dà l’idea del livello delle traduzioni in italiano, che poi non erano traduzioni o adattamenti ma la sostituzione di un testo qualsiasi su una musica. Io mi trovavo così davanti a una canzone che non potevo ascoltare, che non sapevo cosa volesse dire, anche perché a quei tempi non è che prendevi un telefonino e andavi a cercare la traduzione. D’altronde poi anche quando arrivavi alla traduzione non avevi la chiave per capire cosa volesse dire “ti amo, neanch’io”. Ma perché? Capisci che eravamo in un mistero dentro un altro mistero. Quando mi è stato proposto di scrivere un libro su Gainsbourg ho subito pensato: lui è mio! Anche se esistevano già altri libri in Italia.

In sede di recensione (qui) ho molto apprezzato il fatto che tu abbia evitato da una parte l’agiografia e dall’altro il vuoto gossip. Cosa non semplice parlando di una persona come Gainsbourg che aveva consacrato tutta la sua vita alla costruzione di un mito.
Un conto è diventare una star, un conto voler diventare un mito. Cocteau diceva: “Io devo creare un nome che poi darà il titolo all’intera mia opera quando non ci sarò più”. È quello che ha fatto anche Gainsbourg: ha creato il nome e un’immagine che ha poi dato un nome a tutta la sua opera. E in questa opera è inclusa anche tutta la sua discendenza e le sue congiunte, più o meno legali. Il mondo Gainsbourg è ancora qui, vivissimo. Questo per quanto riguarda il mito; per quanto concerne il gossip, be’ io ho studiato dei libri precedenti, alcuni anche italiani, che hanno questo atteggiamento quasi melò. Intendiamoci, ha un senso parlare di amore quando si tratta di Gainsbourg, solo che se poi riduci tutto a gossip viene svuotata in qualche proporzione l’importanza dell’opera che invece è monumentale, perché lui era un genio della parola applicato a una formazione musicale davvero notevole.

In Solitari appare la tua traduzione de La chanson de Prevért di Gainsbourg. Come mai hai scelto proprio questa canzone?
Perché l’amavo molto ed è legato a un altro amore della mia vita: quello per Truffaut. L’episodio Antoine e Colette nel film L’amore a vent’anni comincia proprio con quella canzone. Inoltre è una meta canzone e io sono di quella generazione, come l’amico Max Manfredi, che ha conosciuto e praticato la meta canzone, quella canzone insomma in cui si parla di canzoni. La canzone di Gainsbourg, parlando della canzone Le foglie morte, celeberrimo brano di Prévert e Kosma, è una meta canzone che ci mette in moto tutta quella idea di brani malinconici che fanno sì che il nostro amore, che la nostra malinconia per gli amori finiti continui a restare viva e che quindi noi moriamo continuamente come quelle foglie che Prévert aveva così ben cantato. Nel libro ho dedicato un intero capitolo a questa canzone, lì la chiamo “La canzone del prato verde”, perché il nome Prévert potremmo tradurlo così. È come se il nostro Gainsbourg involontariamente avesse lavorato per prendere questo brano autunnale e lo avesse trasformato in un brano primaverile, quindi si passa dalle foglie morte alla canzone del prato verde in cui cambia proprio il polo e dal negativo lo passa al positivo. Gainsbourg, insomma, scrive una canzone in cui dice: Prevert, senti, riprenditi questa canzone, che se ne vada insieme all’autunno; facciamo venire l’inverno, che si muoia veramente, che quelle foglie siano davvero morte e che anche gli amori che loro ricordano muoiano; solo così finalmente potremo dedicarci a qualche amore nuovo. Una volta che ho capito l’enormità di quello che lui aveva fatto con una semplice canzone ho capito che c’era un’enormità sotto ogni canzone di Gainsbourg e allora se devo tradurne una, traduco quella!

Tu ti eri già confrontato con le tradizioni (penso ai Dire Straits, a Leonard Cohen, ai Rolling Stones), credo che però tradurre dal francese sia un po’ più semplice essendo una lingua neolatina…
È neolatina ma è piena di parole tronche… 

Parole tronche che è un delirio rendere in italiano…
Sì, è un delirio se tu decidi di tradurle come tronche. Quando infatti insegno ai ragazzi, ricordo loro che l’italiano è una lingua piana: se voi volete tradurre qualcosa in italiano voi le traducete come lingua piana, come hanno fatto De Gregori e De André con Via della povertà. Se tu cerchi di restituire tutte le parole tronche presenti in un’altra lingua come l’inglese diventi grottesco e ridicolo. Esaurito il campionario di “già”, “pietà”, “perché”, “te”, “ne”, “se” hai esaurito la canzone e l’hai resa un campo minato, un cimitero di croci e ogni croce è una tronca.

L’amico comune Max Manfredi diceva infatti che nelle traduzioni è più importante sapere bene la lingua d’arrivo, quindi l’italiano, che non quella di partenza.
La regola vale anche per i libri, il traduttore deve conoscere benissimo la propria lingua, perché può arrivare a capire il significato esatto di quella parola anche con i dizionari e la ricerca, ma se non conosce bene la lingua d’arrivo non riuscirà poi a renderla.

Da Gainsbourg arriviamo finalmente a Solitari. Se Gainsbourg era un giocoliere della lingua, anche tu ami i giochi di parole, seppure senza i suoi virtuosismi, in maniera più sobria diciamo. Solitari può essere, per esempio, inteso come sostantivo e quindi come un gioiello della parure, come aggettivo ma anche addirittura come un gioco di carte.
Hai detto bene, a me piace giocare con la lingua in modo più delicato; ad esempio io non uso mai la figura retorica della tmesi, quella per cui tagli una parola per far rima andando a capo usando la metà di una parola, che è una cosa in cui Gainsbourg si è dato da fare tantissimo, una cosa che faceva anche Pascoli in Italia. Io tengo ben a mente sempre tutte le accezioni di una parola; ce lo diceva anche Roland Barthes che le parole non sono orizzontali, non si confrontano solo con la parola precedente. Se io scrivo ‘solitari’ ho ben in testa, in quel momento, tutte le sue accezioni quindi so che vuol dire tutto ciò che tu hai citato: il brillante, il gioco di carte e la persona solitaria, nel senso di gente che è sola. Ma, vedi, poi si crea anche una sorta di nuova accezione dell’aggettivo, cioè il solitario è una persona sola che non soffre di solitudine ma soffre di solitarietà, una solitudine che può essere anche una cosa appagante e piacevole, quasi eroica. Nella canzone Solitari il fatto di sentirsi solitari ci rende più preziosi (e qui torna il tema del gioiello),  perché l’incontro tra due solitari che non fanno “mucchio” li rende “solitari nella rarità”.

Anche Sei rimasta qui, una canzone che amo molto, può essere letta in una doppia chiave: mi sei rimasta dentro oppure mi sei rimasta sul gozzo perché non sono riuscita ad averti in questa estate.
Questa è la grandiosità di un avverbio di luogo come ‘qui’. Dice e non dice, dove c’è rimasta? Se ci pensi noi abbiamo un sacco di posti metaforici nel nostro corpo: mi sei rimasta nel cuore? mi sei rimasta nella testa? mi sei rimasta sui coglioni? È aperta la cosa. Poi, è vero, la canzone racconta una storia estiva e sottolinea la dimensione poco mistica della questione, da una parte c’è la processione per la Vergine e dall’altra la ragazza da conquistare che invece vergine non è. C’è anche una sorta di speranza, perché la Vergine è assunta in cielo e quindi l’ho persa, è entrata in questa dimensione superiore; la donna che invece vergine non è - e che aveva aspirazioni più alte - deve districarsi tra il bagnino e il maitre dell’hotel. D’altronde pensa a un verso come: “Il bagnino aspetta che tu torni”, se il bagnino aspetta che tu torni, vuol dire che tu ci sei andata a salutarlo; anche qua vedi tutta la grandezza di un verbo come ‘tornare’, che ci indica tutto il prequel della questione. Se c’è una cosa che ho imparato in questi anni e che nella poesia devi lasciare lasco il significato di una parola, l’area di significazione, perché se no non stai facendo poesia ma della prosa e nella prosa la parola deve significare, è un oggetto che ti porta “dall’altra parte”; come diceva Sartre, le parole sono protesi di trasparenza. Mentre nella poesia le parole sono oggetti opachi che non ti permettono di vedere al di là, deve rimanere una vaghezza meravigliosa, come diceva Verlaine.

Già Leopardi parlava di poetica a del vago e indefinito…
È vero, e lui viene prima di Verlaine.

Senti, sempre in Sei rimasta qui citi alcuni arcani maggiori dei tarocchi di Marsiglia. Che rapporto hai con i tarocchi?
Direi lo stesso che ho con l’oroscopo. In certi periodi di malattia mentale li ho frequentati, perché sono veramente degli agganci anche a livello letterario, nel senso che possono rendere la tua vita letteraria, come se il destino potesse essere davvero previsto o modificato. Ci sono dei momenti in cui è un gioco a cui ti puoi aggrappare per dare un senso alla tua vita in un momento in cui magari c’è una deriva. Ti riempiono una giornata di significato e di senso dalla mattina alla mattina dopo e possono darti speranza, consolazione, possono aiutarti a ragionare. Poi, nello stesso modo, puoi anche staccarti da questo e scoprire che la vita prosegue ugualmente senza oroscopi e senza tarocchi. D’altronde l’unico arbitrio che c’è nei tarocchi è quello di decidere se vuoi usarli o no.

Una cosa che mi ha sempre affascinato nel tuo modo di scrivere è la tua grande capacità lirica, di entrare nell’animo dei personaggi, ma al tempo stesso mantieni una grande vocazione narrativa. Come la prenderesti se ti definissi il più lirico dei narrativi e il più narrativo dei lirici?
Questa potrebbe andare bene come definizione, anche perché il lirismo è qualcosa da cui bisogna guardarsi, il lirismo può portarci direttamente ai baci Perugina! La parola ‘emozioni’, che è stato il più grande successo di Battisti-Mogol, è l’archetipo di questo lirismo d’accatto. Io invece abbraccio l’epica del fatto poetico, e l’epica è proprio la parte narrativa, quella che serve sempre a tenere attivo il contatto con la realtà, quella che evita di cadere in tutto ciò che rischia di essere il più delle volte stucchevole. Questo lo fa anche Max Manfredi, il cui lirismo è apocalittico, ha sempre delle improvvise cadute nel reale, direi dantesche, irrompono nelle sue canzoni delle cose che non dovrebbero proprio esserci e queste spezzano il lirismo o le danno ancora più forza. Se noi prendiamo le semplici sequenze narrative, esse possono essere statiche o dinamiche, quelle statiche sono la riflessione dell’autore e la descrizione, quelle dinamiche sono l’azione e il dialogo. Ecco, la miscela delle due ci salva dal lirismo; quel tanto di narrativo che entra anche in un’analisi lirica del personaggio o di una situazione serve a dare un movimento dinamico all’aspetto politico e lo rende più fruibile, lo rende meno fermo.

Sempre a proposito del discorso che stai facendo, per me le tue canzoni sono dei micro film dove piani sequenza si alternano a soggettive. Segui il personaggio, lo collochi in un preciso paesaggio. Quanto ha influenzato in tutto ciò il cinema?
Io sono un appassionato di cinema, direi che sono cinefilo, ho visto milioni di film, anche se non sono appassionato delle serie TV, d’altronde non ho la televisione in casa da molti anni per scelta. Il cinema mi influenza tantissimo, così come può avermi influenzato la lettura della fantascienza degli anni d’oro, quella degli anni 40. Se ci pensi la poesia è anche filmica, lo è sempre stata, prima ancora che esistesse il cinema, pensa all’Iliade. Il lirismo staccato da un realismo e da un dinamismo anche visivo ci disperde, non siamo in grado di affrontarlo con la mente, è come affrontare dei concetti puri senza immagini. È già da Platone che noi abbiamo bisogno delle immagini per afferrare i concetti e le idee, bisogna avere sempre presente la concretezza quando si lavora nella poesia altrimenti disperdi il lettore o l’ascoltatore in dimensioni che poi non dicono nulla.

Per tornare a Solitari, mi pare che uno dei temi del disco sia quello del tempo. Alle volte i personaggi sembrano fermi mentre la vita continua a scorrere (penso a Metaforicabionda). Altre volte addirittura il tempo viaggia in senso inverso come in A ritroso, oppure è circolare come in Ricominciando, cosa che mi ricorda l’Arcano 11 dei tarocchi, la Forza, che fa iniziare un nuovo ciclo.
Mi fai venire in mente che questo è il mio undicesimo disco e quello su Gainsbourg è l’undicesimo libro della collana di Caissa, quindi sono due lavori in effetti in cui c’entra la forza. Però, sì, il tema del tempo è sicuramente un tema centrale; se ci pensi abbiamo anche L’atteso, per esempio, che ha a che fare col tempo; cioè è un atteso che non arriva mai al punto che non si sa neanche se è morto, non arriva e questo non arrivare gli impedisce anche di poter morire, avere una biografia autentica, una biografia dove c’è una nascita e la morte. Resta sempre “aperto e in attività”, è un po’ come siamo noi che attendiamo che accada una cosa risolutiva. Noi siamo sempre in attesa di un cambiamento e quindi pensiamo a ritroso o pensiamo in avanti, il problema è che non siamo mai qui, nel presente, e quindi l’atteso rappresenta e tratta il tempo atteso come un tempo che non esiste, perché il tempo dell’attesa è un tempo sprecato, è un tempo fuori tempo.

Un altro tema è quello della presenza/assenza di Dio. Anni fa cantavi che era altrove, qui - in Parcheggiare a Delfi - che “di vederlo ritornare non c’è verso”... 
Tu hai trovato il collegamento con Dio è altrove e giustamente, perché è come se fosse il finale di quella canzone, quando dicevo che Dio non si vede. È il grande dramma dell’umanità: Dio è immateriale e quindi non lo vedi, non hai la prova che esista, non puoi avere la certezza che l’atteso - in questo caso Dio - arriverà o che semplicemente non esiste. Però quello era un Dio assoluto, era un Dio delle religioni monoteiste. A Delfi invece il dio è ben definito: è Apollo. Parcheggiare a Delfi l’ho scritta proprio lì a Delfi. E non c’è verso di vedere tornare questo Dio, per quanto si provi, non riusciamo a vederlo neppure nel verso che stiamo scrivendo!  Davvero se uno è in Grecia è impregnato di tutta la mitologia greca. Il mio tentativo è stato quello di umanizzare la situazione, trasformando la ricerca del dio Apollo nella ricerca di un parcheggio che in effetti è uno dei grandi problemi a Delfi. D’altronde anche la signora di Atene ha graffiato la sua auto a Tebe e anche quello è un fatto verissimo, che io ho visto. La cosa che mi divertiva in Grecia è che qualsiasi cosa accadesse, anche la più corriva, come un problema assicurativo o un problema di parcheggio, ti faceva pensare agli dei, immaginavi gli dei litigare per queste cose. E questo ti fa umanizzare gli dei, li porta più vicini a noi. Gli dei sono stati sconfitti, ma in quelle terre sono ancora presenti, sono immanenti. 

Tu sei bravissimo a cantare l’universo e l’animo femminile, ti piacerebbe fare l’autore per una donna?
In realtà l’ho fatto, ho scritto l’album per Grazia De Marchi, Lasciatemi vivere. Ogni venerdì lei mi raccontava un episodio della sua vita e io il venerdì successivo le portavo una canzone. Mi ricordo che quando presentavamo i pezzi in concerto la gente in effetti mi chiedeva come avevo fatto, perché quelle erano canzoni femminili anche se scritte da me. L’immedesimazione nell’altro e soprattutto nell’universo femminile è una cosa che mi viene naturale forse anche perché mi piacciono tanto le donne più di quanto loro piacciono a se stesse, o almeno a volte ho questa impressione. Così come a volte ho avvertito una grande competizione nel mondo femminile cosa che c’è meno nel mondo maschile, perché noi siamo più rozzi, siamo tagliati con l’accetta e abbiamo una forma di stupidità grandiosa; le donne sono invece la cosa più vicino a Dio in quanto complessità, per cui se io devo parlare di complessità parlo di una donna. Le donne sono superiori agli uomini e per questo gli uomini hanno sempre cercato di sottometterle, perché ne hanno paura. Pensa che proprio in questo disco Gandalf Boschini mi diceva che non dovevo parlare di una donna: “Voglio che tu non parli d’amore!”. Io ci ho provato scrivendo A ritroso, ma poi già ne L’atteso si palesava una donna che aspettava; poi è arrivata Sei rimasta qui e quindi, no, non ci sono riuscito! 

Questo è il tuo disco più rock, persino prog in certi momenti…
È vero, si avvicina a una sonorità alla Deep Purple in certi momenti. La cosa curiosa è che il disco è stato scritto in piena pandemia e quindi in solitaria, per citare il titolo. Io mandavo il pezzo a Gandalf, Gandalf lo mandava all' arrangiato, Luca Sammartin, e lui me li rimandava; o facevo la voce guida e poi un musicista metteva un altro suono. Questo è il disco musicalmente più ricco partendo da tutte queste solitarietà. Pensa che alcuni musicisti non li ho neppure conosciuti.

 

 

 

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