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Max Manfredi

Max Manfredi, vi spiego il mio orso Dremong

Incontriamo Max Manfredi a pochi giorni dalla pubblicazione del suo nuovo, splendido, disco: Dremong. L’invito, a casa sua, prevedeva un “mediocre caffè”. Alla fine ce ne offre due (e per nulla mediocri). Così come ci offre una lunga chiacchierata in cui, come suo solito, spazia dalla musica alla letteratura, dal costume alla politica. 

Max, come ti è nata l’idea di dedicare una canzone ad un orso?
Cronologicamente è nato prima il titolo, nel senso che mi piaceva proprio il nome Dremong. Me ne aveva parlato mia moglie, che conosce le tradizioni del Tibet.  Mi è cresciuta la curiosità di sapere qualcosa di più su questo orso, senza avere la pretesa di fare una ricerca etologica, ovviamente. Poi mi è sorta l’idea di fare della canzone Dremong il pezzo principale di un ipotetico, inesistente  concept di musica Progressive.  Quasi che   questa canzone  fosse  un brano erratico che proviene da un altro disco, e che è capitata lì dove sono finite tutte le altre. D’altronde tutto Dremong è una costellazione di corpi erratici.

Il termine Dremong dove lo avevi scovato?
È un termine locale tibetano. Il nome infatti scientifico di quella specie di orso è Ursus thibetanus, mentre viene chiamato Dremong in alcuni testi devozionali, in cui è visto come una figura malvagia. Ricorre in espressioni come “liberaci dal Dremong”. D’altronde è davvero un rapporto strano quello tra orso e uomo – come abbiamo visto recentemente con l’uccisione dell'orsa  Daniza, che ha scatenato in rete  una forte reazione emotiva. L’orso mi ha sempre affascinato anche da bambino proprio perché è una specie di anello mancante, di zona di confine tra l’animale e il demone, inteso non come demòne  ma  come Daimon; è  una forza non umana che però collabora con l’uomo o, viceversa lo distrugge. Questo porta da una parte alla nascita di immagini  positive o consolanti,  come l’orsetto di peluche con cui far giocare i bambini, fino ad arrivare all’orso ballerino asservito; ma c’è anche l’orso predatore e feroce.

Va detto che però nel caso specifico semmai è il Dremong vittima dell’uomo.
Sì, perché da secoli i Cinesi praticano su di lui questa forma di tortura organizzata che è l’estrazione della bile. Oggi, per fortuna, viene difeso da alcune associazioni.

Il Dremong può essere perfetta allegoria del cantautore che è costretto a tirare fuori la bile per gli altri.
Certo, la rabbia che diventa cosmetico, farmaco, afrodisiaco.

Tornando al tuo Dremong, anche questa volta hai tirato fuori dal cassetto un po’ di tuoi pezzi vecchi…
Sì, come sempre. In tutti i miei dischi ci sono canzoni vecchie. Sono i cassetti che sono precari, le canzoni restano.

Provo a spararne una e vediamo se ci prendo: Sestiere del Molo.
Sì, è vecchia ma non vecchissima… credo che sia degli anni Novanta. Di certo si riferisce a quegli anni, a parte l’ultima strofa che è puro delirio. Ma anche Il disgelo è degli anni Novanta, ho solo cambiato qualche parola.

A proposito del Disgelo, tu la definisci come “lo sfogo apocalittico di un piazzista in trasferta invernale che mette in luce il fallimento della new economy e della sua cultura”. È un tema questo che rientra anche in altre canzoni.
Dando per buona l’allegoria di cui parlavamo prima, il cantautore scrive in effetti canzoni rancorose, tira fuori la bile. Il primo motivo per cui si scrive una canzone è lo sfogo. La canzone è un’irruzione di parole e musiche, di un tema. Che poi viene condiviso e si spera venduto. Ma viene venduto dopo, invece ci sono  in giro certe canzoni che vengono fatte appositamente per essere vendute o, almeno, io spero sia così, perché sono talmente brutte che se fossero  scritte come sfogo personale bisognerebbe vietarle!

Ecco, hai parlato di canzone come sfogo. Mi domando se invece secondo te esiste, o se esiste nella tua produzione quanto meno, una canzone scritta in un momento di felicità estrema? È una questione un po’ annosa, in particolarmente per le canzoni d’amore che sono sempre tutte tristi.
È la vecchia definizione di Bruno Lauzi…

Quella secondo cui è difficile tenere in mano una chitarra mentre si fa l’amore…
Guarda, di solito le canzoni nascono sempre "prima" o "dopo". E c’è una dimostrazione storica di questo fatto: i trovatori, che dovevano scrivere canzoni per tutti gli usi, componevano la "Serena" - che era il saluto alla donna amata - alla sera, e all'aurora,  l’"Aubade"  - cioè il saluto, quando la si lasciava velocemente, l’amata, per paura di essere uccisi, perché naturalmente la donna amata era già sposa di altri. In questi casi si parlava del desiderio o della nostalgia, ma non della gioia in atto. Persino i Righeira hanno scritto Vamos a la playa e poi L’estate sta finendo, manca anche in loro il momento "esatto" di descrizione  della gioia "in tempo reale"!

È un po’ come la felicità per Leopardi: o è attesa del piacere o rimpianto di esso. La canzone è qualcosa di simile.
La rappresentazione della felicità dell’amore in atto c’è solo nella pornografia, dove però manca la gioia. Se proprio vogliamo cercare canzoni che parlano dello stato d’animo di un esatto momento possiamo forse citare Far niente di Chico Buarque che parla di come il protagonista passa la domenica e quindi è la cronaca della gioia in tempo reale, anche se a ben guardare è più un pregustarla;  oppure mi viene  in mente Guido piano, di Fabio Concato. È difficile però trovare canzoni che esprimano la gioia del momento. O forse, all’opposto, lo sono tutte se per felicità del momento intendiamo la gioia del riuscire a dire.

Senti, già che abbiamo parlato di amore. Pur avendo tu scritto molte canzoni d’amore, a me sembra che questo sia il tuo disco dove maggiormente lo hai cantato. Certo a tuo modo, inserite in storie esotiche o noir. Insomma Dremong lo possiamo considerare un disco d’amore?
È un disco misto. Un po’ come nei western, dove c’è anche la storia d’amore. Ci sono poi film come Via col vento che vogliono rappresentare un periodo storico e che sono anche d’amore. Diciamo che ci sono molte storie nelle mie canzoni in cui si parla anche d’amore, che riguardano anche l’amore.

Ti potrà apparire una domanda stupida, ma volevo chiederti se è difficile scrivere una canzone d’amore.
No, non credo che sia difficile. Se vuoi tutte le canzoni sono d’amore, molte delle più belle canzoni sono canzoni d’amore, pensa alla tradizione napoletana, per esempio. Quella pre-neomelodica, quella dei primi del '900, quando fu inventata in Italia la "canzone d'autore" così come la conosciamo ancora adesso.

Allora formulo meglio la domanda: il rischio non è quello di cadere nella retorica dell’amore, nella ricerca della nota giusta e dell’accordo un po’ furbetto? Insomma il rischio non è la Maniera?
Secondo me no, non esiste in questo caso la maniera. Si può, semmai, essere più o meno mediocri o più o meno volgari nello scrivere una canzone d’amore. È una questione di "carattere" e "talento", secondo la distinzione un po' ottusa di cui si faceva beffe il poeta Heine.

Eppure tu ne Il Negro chiedi a un’altra persona di scrivere una canzone d’amore al tuo posto. E lo fai rifacendoti a uno dei tuoi pezzi più belli, Il regno delle fate.
Rifacendomi in parte a quella canzone ma rifacendomi soprattutto al Canone di Pachelbel, l’unico modo per essere sicuri di non cadere nel reato di  plagio, perché tanto lo hanno copiato tutti! In questo caso è successo che mi sono svegliato con questa musica in testa e ho subito sentito che nell’andamento ritmico aveva qualcosa in comune col Regno delle fate, quindi ho applicato le parole che mi venivano in mente a questa musica ed è stato un lavoro di fino, perché ha una metrica micidiale. Ho dovuto farcire la melodia di sillabe adatte. Ma, come quasi sempre mi succede, è stato un procedimento fluido. Il Negro indica come si possa parlare d'amore solo essendo un altro. E come possa essere una fatica, un compito, uno sforzo, come quando Brel diceva che, sulle coste del Belgio, si doveva gridare "ti amo", se si sussurrava, la voce veniva portata via dal fragore delle onde.

Questo è anche il tuo disco, a mio avviso, meno genovese.
Questo lo spero, perché mi ero un po’ stufato di essere sempre considerato un “genovese”. Mi viene in mente un passaggio del Gargantua e Pantagruele di Rabelais in cui c’è un astrologo che fa tutti i tipi di "manzia" possibili a un signore noto per l'infedeltà della moglie, per giungere ogni volta allo stesso risultato: “Sei cornuto”. Mi viene in mente col fatto del “genovese”. come diagnosi finale e tranquillizzante del mio comporre o addirittura del mio "essere"... Ho persino fatto uno di quei test finti che girano su Facebook, “Qual è la tua città di appartenenza” ed è uscito “genovese”. Ho provato a modificare le risposte e il risultato è stato “genovese”; allora ho risposto proprio in modo opposto a quello che avrei fatto normalmente e il risultato è stato… “genovese”. Mi sorge il dubbio che sia una sola! Ma 'sta cosa della “scuola genovese” è davvero una condanna. Uno può cercare in tutti i modi di far dimenticare, però viene fuori spesso, un po’ perché te l’annettono… vieni da Genova, fai il cantautore, hai una voce mezzo baritonale e in più parli ogni tanto delle zone di Genova, allora non puoi che appartenere alla “scuola genovese”. Ti "deandreizzano", per così dire!

Invece questa volta mancano i dialettismi e mancano i riferimenti ai luoghi genovesi, se si esclude Sestiere del Molo.
Ho cercato proprio di togliere i riferimenti alla mia città. In Finisterre per esempio, che è un pezzo vecchissimo, ho fatto un’operazione chirurgica, ho eliminato la parola “mare” che veniva ripetuta moltissime volte.

Hai fatto un’operazione inversa a quella fatta da Fossati, insomma.
Ma in effetti ci sono delle parole che caratterizzano un artista. Questo è ancora più vero per le parole che sono poco usate nella canzone; pensa alla parola “fortunale” che ti fa venire in mente subito Paolo Conte. Se domani un cantautore scrivesse una canzone e usasse la parola “iride”, qualcuno potrebbe dire che è di derivazione alla Max Manfredi perché in effetti è un termine che amo molto e che adopero spesso.

Ecco, tu ami molto le parole e anche in questo disco hai infarcito i brani di termini poco frequenti nell’attuale produzione musicale.
A me non piace quello che si chiama con un termine un po’ sussiegoso (o ironico) il “canzonese”. Non mi piace fare le canzoni come uno si aspetta, col  gergo "della" canzone, e quindi con quelle parole lì. A me piace usare la canzone come un contenitore di raccolta differenziata: ci puoi mettere qualsiasi tipo di parola. Anche se detta così sembra che poi tutto vada buttato. Meglio, allora, dire che la canzone è una forma di cucina in cui gli ingredienti devono poi essere mangiati. Allo stesso modo, derido il precetto del "parla come mangi". Si parla come si mangia (cioè di tutto, a meno di non attenersi a una qualche stretta dieta), come si cammina, come si bacia, come si sogna e come si legge o come si caga o si guarda la tv.

Anche perché chiaramente la scelta delle parole deriva anche dalla musicalità della parole stessa che va inserita, quindi, all’interno di quel preciso inserto musicale.
Sì, io dico sempre che la canzone è formata da due parti: una poetica che è la musica, e una musicale che è il testo. Questo perché la musica della canzone non è mai una musica pura, ammesso che poi esista la musica pura. La musica di una canzone  non ha un rapporto con le altre musiche e con l’assoluto,   ha un rapporto - ma proprio un  rapporto sessuale, se non coniugale -  con le parole che a loro volta si fondono nella   musica. Ci sono molti luoghi comuni divertenti, come quello che amava ripetere Wolf Biermann che la canzone francese e italiana, che  utilizzano la musica come un piatto di portata, dice lui, mentre nella canzone tedesca il piatto di portata i musicisti e cantanti se lo mangiano. La canzone è invece un tutt’uno, una candela dove la fiamma e la cera si fondono. I due elementi, parole e musica, si devono per forza fondere. La controprova è che se cambi la musica a un testo questo a sua volta cambia totalmente il "senso", il clima, della canzone stessa. 

Torniamo alle canzoni di Dremong, una delle mie preferite è senz’altro Piogge con quell’arpeggio alla Cohen…
Mi sono sempre chiesto dove Cohen avesse preso quell’arpeggio, che oltretutto è presente anche in una canzone di Modugno. Quindi l’ho proprio copiato, come d’altronde ha fatto anche De André più o meno nello stesso periodo. La canzone è stata scritta in un tempo in cui non mi divertivo ancora a far lunghi viaggi musicali all’interno di una stessa canzone. E quindi lo schema armonico, qui è discontinuo ma semplice. Io mi considero un dilettante della musica, per cui per me è davvero una grande scoperta quando faccio delle modulazioni che poi mi riportano al punto di partenza. Mi sono accorto che Disgelo, invece, inizia in un modo e finisce in un altro, termina proprio in un’altra tonalità; ma questo perché c’ha messo mano Fabrizio Ugas, che è un vero musicista.

Già che mi hai citato Ugas, volevo chiederti quanto è stato importante il suo contributo e quanto quello di Elisa Montaldo che ha introdotto sonorità nuove.
Sono stati importantissimi tutti e due. Fabrizio ha fatto un lavoro quasi da archiviatore, nel senso che ha colto le canzoni e le ha orchestrate insieme a me,  in modo da renderle il più possibile belle. Elisa Montaldo mi ha invece introdotto al mondo   delle sonorità usate nel così detto progressive, e in qualche caso ha dato anche un contributo inventivo forte, penso per esempio a Dremong di cui ha scritto la quasi totalità della musica. Ma vorrei ricordare anche Matteo Nahum che, oltre ad essere uno dei capisaldi del disco, ha contribuito attivamente nella pre-produzione di alcuni brani. 

Secondo me i tuoi detrattori ascoltando Dremong diranno: è il solito Manfredi…
Guarda, i detrattori possono anche andare anche a quel paese. Perché poi sai ci sarà sempre chi ne  parlerà bene  e chi ne parlerà male, come della moglie giovane del vecchietto della barzelletta che mi raccontava mio padre. e ci sarà chi non ne parla, che poi è la forma di censura più in voga oggi.

Insomma, l’importante è parlarne…
L’importante è parlarne, ma non partendo da basi e preconcetti che sono semplicemente stupidi. Intendiamoci, c’è anche il diritto di dire stupidaggini, come c’è il diritto di fare cose brutte o di farti piacere cose brutte. Ma è un diritto che riguarda, come direbbe Deleuze, la giurisprudenza.  Mi viene in mente l’apologo di Baudelaire sull’uomo brutto a cui viene chiesto come fa ad uscire con un aspetto così orribile – perché, questo è il punto,  Baudelaire si immagina che l’uomo soffra ad essere così brutto – e l’uomo risponde che in base alla dichiarazione sui diritti dell’uomo ognuno, al di là del suo aspetto esteriore, ha tutto il diritto di mostrarsi e girare per la strada. Al che Baudelaire chiosa, affermando: “dal punto di vista del buon senso avevo ragione io, ma dal punto di vista della legge lui non aveva torto”. È un apologo meno frivolo di quanto sembri ai "brutti dentro". Nel Medioevo i brutti erano considerati turpi, alteravano la figura della perfezione divina. Per tornare a certi critici mi viene in mente un altro apologo di Baudelaire, quello del cane. Lui fa annusare al suo fedele cane un’essenza buonissima, un profumo inestimabile, condivide con lui una cosa preziosa. Ma il cane, invece di apprezzare, abbaia, perché il cane non è come i critici che abbaiano quando credono di riconoscere qualcosa; il cane è onesto: abbaia quando "non" riconosce qualcosa. Baudelaire a quel punto dice che il cane è come il pubblico che scodinzola quando annusa la merda. Perché dico questo – e così collego i due apologhi? Perché se a uno piace la merda, ne  ha tutto il diritto legale, almeno finché una legge non lo vieta. Ma la merda tale resta. E non si può neppure dire: eh ma piace a tutti. Perché altrimenti occorrerebbe ricordare l’aforisma di Marcello Marchesi: “Mangiate merda, miliardi di mosche non possono sbagliarsi”.

Tornando alle canzoni di Dremong, una canzone che a me piace moltissimo è Notte. Devo ammettere che la prima volta che l’ho sentita, ho pensato fosse una sorta di continuazione di Retsina. Poi ad un ascolto più attento mi sono reso conto che in realtà il Tu è un Io. Insomma non c’è nessuna Lei nella stanza, ma degli oggetti che tengono compagnia a una persona che non riesce a dormire.
Sì, il Tu sottintende un Io. Io non soffro di insonnia, semmai soffro di ipersomnia. Però c’è sempre quel momento in cui anche quello che meno soffre di insonnia non riesce a dormire, e cerca di richiamare i sogni al sonno, per dirla alla Cohen. Nella canzone c’è una specie di inviluppo: c’è una sorta di veglia in cui le cose sono sveglie e il protagonista sembra dormire, poi la situazione si capovolge. L’ultima strofa è fatta, invece, di pure immagini che non vogliono dire nulla ma che indicano che il protagonista si sta addormentando.

A proposito di Cohen, musicalmente mi ricorda molto il suo tipo di sonorità.
Sì, ha in effetti un andamento ieratico alla Cohen anche se è più slabbrata armonicamente, ci sono dei rivolti d'accordi e dei passaggi un po’ più audaci che quelli che di solito usa lui. Però davvero un certo far musica di Cohen ha rappresentato per me un imprinting… per cui se qualcuno respira un poco dell’aria poetica  di Cohen in certe canzoni di Dremong non solo non mi offendo, ma dico che respira giusto.

Alcuni tuoi colleghi si arrabbiano quando gli si fa notare che certe loro cose possono ricordare altri artisti.
Ma perché sarebbe più giusto sforzarsi di sentire le differenze, e non le somiglianze. Non ricordo più chi diceva che le differenze si sentono con la testa e le somiglianze col cuore. Non bisogna confondersi e quindi non bisogna sentire le differenze con il cuore perché sei già affezionato a uno e quindi senti un altro e dici: “Ha copiato, lo dico alla maestra”. Ecco, in questo caso davvero il cuore è vicino al buco del culo!

Però io non credo che necessariamente sia una questione di copiatura, se uno è imbevuto di sonorità di artisti che ama è normale che tali sonorità si ritrovino nella sua musica.
Questo sì, è una cosa normalissima. Succede con chiunque. Ricordo che quando ho sentito per la prima volta Captain Beefheart ho capito da chi avesse attinto Tom Waits. Poi è chiaro che Waits è Waits, per cui può aver preso quell’andazzo ritmico da Captain Beefheart ma l’ha fatto suo e ci ha messo dei testi che sono   diversi. 

Come è nata, invece, Castagne matte, una canzone che sembra un po’ distaccarsi – quanto meno nella tematica, la Resistenza, - dalle altre?
Anni fa con gli amici Claudio Roncone e Cristiano Angelini scrissi un pezzo sulla Resistenza, Futuro Bella sposa, brano oltretutto fortemente sponsorizzato da Don Gallo e commissionata da Raimondo Ricci. In quel caso utilizzai alcune cellule di una canzone che stavo componendo. Purtroppo Futuro Bella sposa non fece molta strada e io ripresi a lavorare al pezzo originario, che è appunto Le castagne matte.  La canzone prende spunto, come segnalo nel disco, da un racconto di Mario Mantovani, magico compagno di serate e sbornie musicali, interminabili discussioni nelle case di campagna che lui si inventava di volta in volta  come un  oculato Mago Merlino dagli ideali comunisti.

Un altro brano che mi incuriosisce molto è Anni Settanta in cui citi più volte gli scout. Ma cosa ti hanno fatto di male?
Anni Settanta è un pezzo strano perché è un rifacimento di una canzone molto molto vecchia, anzi è proprio un rivestimento di una vecchia canzone, un po’ come una capsula con un dente. C’era già questa frase che concerneva i Boy Scout, l’unica variante è che cantavano non “cori extraterrestri” ma “cori troppo tristi”. La figura del Boy Scout poi l’ho aggiunta nella nuova versione anche nell’ultima strofa ed è quella che dà il senso a questa canzone che comunque rimane piuttosto criptica. Ci sono dei riferimenti non difficili  di per sé, ma quasi arbitrari,   che non si sa bene dove collocare. Uno è appunto il rimando ai Boy Scout. Negli anni Settanta c’è stato un passaggio da una realtà sociale molto congrua, che era quella dell’Azione Cattolica, dei Boy Scout, appunto, alla contestazione generalizzata,  che in molti casi è sfociata nella vera e propria lotta armata. Grazie a Dio non tutti in quegli anni hanno fatto i Boy Scout, ma molti sì, compreso il nostro attuale  discutibile Premier. Io ho preso dei “campioni” di Boy Scout di inizio anni Settanta e mi sono immaginato di vederli alla fine del decennio. I “campioni” che ho idealmente preso sono diventati appunto contestatori o comunque hanno fatto una brutta fine; infatti canto che “intasano le strade”, verso che può voler dire che sono morti (vuoi per la droga, vuoi per uno scontro armato) e i cadaveri sono rimasti per la strada. I quartieri non sono più quelli tranquillizzanti del decennio precedente dove la ragazza dorme con l’orsetto abbracciato o dove le luminarie accese sconvolgono il rione perché si è abituati al poco. Le cose cambiano in fretta: i Boy Scout non cantano più sotto le stelle ma, come dicevo, intasano le strade; l’orso si è strinato, che può voler dire che ha preso fuoco durante qualche conflitto oppure, favolisticamente,  che si è fatto una pera; la gente corre e non sa più dove andare. Insomma, è successo qualcosa di grave. Un altro sta girando un film in strada “con le iridi in fiamme”, tipo Blade Runner, perché le telecamere riprendono quello che sta succedendo ed evidentemente sulle strade ci sono dei fuochi, degli incendi. Dal fumo che dirada – che è metafora della fine degli anni Settanta – compare questo “sorriso laccato” che è simbolo di una sorta di Stregatto, di Berlusconi, di un finto benessere, del falso edonismo che regala ricchezza solo a pochi e lascia la maggioranza sempre più povera e triste, ma senza neppure la possibilità di dirselo. È una storia che continua fino ai giorni nostri, ma io ho voluto fermarla lì. 

È una canzone in qualche modo “apocalittica”, intrisa di simbologia. Per esempio che il vento passi “con il suo vecchio loden/ bussando agli sportelli/di farmacie di turno” è un’immagine che mi appare abbastanza chiara: sono i ragazzi di quegli anni che vanno a comprarsi le siringhe per farsi una pera. Ma perché “i Santi Innocenti/ stanno impallando Erode/ per non esser men belli”?
Per quanto possa apparirti strano, è un’immagine che mi è venuta in mente guardando un vecchio film, e a cui solo dopo ho cercato di dare una spiegazione. I Santi innocenti sono i bambini martirizzati da Erode che sono stati poi santificati nel Medioevo. Erode, in questa discutibile strategia malthusiana, li ha ammazzati per non farsi “impallare” da Gesù,  per non farsi togliere la scena di Re, ma così facendo è stato a sua volta “impallato” dagli stessi bambini che ha fatto uccidere, perché loro sono diventati i protagonisti – come in una commedia - di quel tragico avvenimento. Lui ha commissionato la strage degli innocenti perché aveva paura di essere surclassato sulla scena da un altro re e invece viene surclassato dai Santi innocenti stessi. I "giovani più giovani" dell'Esercito del surf e di Zabriskie Point.

E quindi, fuori di metafora?
Significa il giovanilismo commerciale degli anni Sessanta che finisce con la grande contestazione del Sessantotto, dove appunto si rivendicava una sorta di Santa Innocenza: noi siamo i puri e innocenti, voi siete i vecchi e colpevoli. 

Be’ vista così in effetti la canzone diventa più chiara. Senti Max, per concludere, dove possiamo trovare Dremong?
Questa è la domanda più impegnativa. Si può seguire la normale trafila, chiedere a un negoziante di fiducia specificando la distribuzione, IRD, e l'etichetta che lo ha pubblicato, Gutenberg. Il numero di catalogo, per i negozianti più pignoli, è 3009. E questo mi sa sentire una specie di Bach o di Mozart! Oppure si può comprare per posta alla Ibs o su Amazon. Infine si può scaricare a pagamento da iTunes. Temo si possa già ascoltare gratis in rete. Ho detto "infine", ma manca la più importante: si può comprare venendo ai miei concerti. 

(Foto di Manuel Garibaldi)

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