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Remo Anzovino

Musica «contemporanea»

Dialogare con Remo Anzovino è un’esperienza davvero interessante, e per certi versi sorprendente: musicista poliedrico, curioso, dalla mentalità aperta, profondamente consapevole del proprio percorso musicale, eppure pronto a stupire per l’imprevedibiltà delle sue prossime mosse. Già, perché dopo due album (tra cui l’ultimo Tabù) in qualche modo legati tra loro, il futuro prossimo è completamente da scoprire. E da creare.


Hai iniziato la tua carriera occupandoti di colonne sonore cinematografiche; in che modo questa esperienza così complessa ha formato il tuo approccio musicale?
Il mio metodo è scrivere sul ricordo emotivo delle immagini, dopo aver visto molte volte il film, e solo dopo provare ad appoggiare la musica sulla pellicola. Questo procedimento di lavoro mi ha permesso di staccarmi gradualmente dallo stimolo del cinema e mi ha aiutato a lavorare su altre immagini, quelle interiori, commentandole come se fossero quelle di un film.

Sei stato, almeno inizialmente, considerato un musicista jazz; ti riconosci in questa definizione oppure la trovi limitativa?
Mi rendo conto che non sia facile trovare una definizione per le mie cose. La mia è musica scritta in cui gli elementi di improvvisazione sono inseriti in uno spazio definito della partitura. Far coesistere il colto e il popolare è una scelta stilistica che rivendico. Trovo però limitativa qualunque definizione, se non quella di musica che parla della contemporaneità, in questo senso contemporanea

Nell’ambito del jazz, hai una formazione specifica? Quali sono, eventualmente, i tuoi riferimenti ed i referenti musicali più importanti, anche non in ambito jazzistico?
Ho studiato pianoforte, composizione e tecnica dell’orchestrazione per la parte classica; improvvisazione e musica di insieme per la parte jazz. Ma ho sempre cercato di approfondire quello che mi incuriosiva. E tuttora l’esperienza che più mi affascina è lo studio della grandi partiture o l’ascolto delle cose che fanno gli altri. Difficile rispondere in modo meno sintetico, se non dicendo che sono musicalmente davvero onnivoro.

In modo improvviso, e forse inaspettato, la tua notorietà ha superato l’ambito del “genere” ed hai suscitato l’interesse di radio e televisione. Come hai vissuto, emotivamente e professionalmente questi avvenimenti?
Con molta serenità. Imparando a confrontarmi con l’idea di un concerto di musiche mie, e con il fatto di creare, anche dal vivo, un piano comunicativo diretto con il pubblico…

L’interazione con strumenti, radio e televisione, più immediati e meno meditati del cinema, hanno modificato il tuo metodo nel “fare musica”?
Direi di no. Quando scrivo una musica non penso allo strumento di comunicazione che la farà conoscere.

L’approccio visuale che offri allo spettatore ha capovolto il rapporto musica/immagine per cui la seconda diviene “accompagnatrice” della prima; quali sono le radici di questa impostazione, ed eventualmente gli artisti che, anche in passato, l’hanno ispirata?
Nel 2007 sono stato inviato a suonare al Festival di Venezia. Anziché portare un film con l’accompagnamento musicale dal vivo pensai di fare una cosa diversa: pensare a tutti i film che avevo musicato, raccogliere le sequenze che più si legassero ai tanti significati di “tabù”, parola attorno alla quel stavo già da un po’ girando. E ho pensato che dopo un secolo di cinema fosse arrivato il momento di invertire per una volta le parti: non più la musica come colonna sonora bensì le immagini in bianco e nero di vecchi film che fungono da commento visivo della mia musica. Il successo di quell’esperimento mi ha fatto capire che l’intuizione era moderna e permetteva alle immagini stesse di rivivere con maggiore modernità proprio perché sganciate dalla musica stereotipata e didascalica dei pianisti che di solito accompagnano i film muti e che ancora oggi continuano a riprendere gli stilemi musicali della musica da saloon che andava di moda ottanta anni fa, non rendendo, a mio parere, un buon servizio a quei film.  Credo non esista uno spettacolo come quello che porto in giro e l’ispirazione è nata osservando come le grandi produzioni pop-rock usano i visuals durante i concerti, usando però vecchi film che avevo negli anni davvero assimilato. Volevo un approccio molto elettronico ma anche molto rigoroso e rispettoso dei film che avevo selezionato, senza che venisse modificata nessuna sequenza originaria ma lavorando ad un montaggio delle sequenze diverso e fortemente strutturato sulla partitura musicale dei brani in scaletta, come fossero racconti a storie paralleli.

In quest’ottica sei interessato alla collaborazione con qualche regista per realizzare colonne sonore per nuovi film?
Sono interessato. Mi piacerebbe poter lavorare con registi che credono nella possibilità che la musica non debba assolvere ad un semplice compito di atmosfera, di tappezzeria sonora che svanisce quando si accendono le luci in sala,  dove il compositore abbia invece uno spazio musicale adeguato in cui potersi esprimere compiutamente mettendosi al servizio del film.

Come hai maturato ed affrontato l’esperienza dal vivo del trio, più asciutta ed essenziale rispetto all’orchestrazione di una colonna sonora?
All’inizio è stata un’esigenza di agilità, anche economica. Poi in tre mi sembrava molto più…rock’n’roll! In realtà si è da subito trasformata in una scelta di linguaggio, vista l’anomalia dell’organico – fisarmonica, chitarre, piano – accattivante perché senza strumenti ritmici ma tutto incentrato sul “tiro”, sul groove, tutto giocato sui contrasti, sul fatto che in un certo senso ogni strumento tradisce un po’ la sua natura, infrangendo altri tabù. Mio fratello Marco è il vero motore ritmico dello show, perché usa la sua Martin in molti brani come una percussione, costruendo trame ritmiche davvero efficaci, battendo sulla cassa armonica della chitarra acustica. Io stesso sul pianoforte suono in modo prevalentemente percussivo, gestisco le linee del basso, faccio cioè tutto un lavoro che contrasta il mio melodismo, che è invece molto affidato alla fisarmonica di Gianni Fassetta, il quale suona lo strumento popolare per eccellenza con rigore classico e grande raffinatezza. L’effetto è molto essenziale ma anche molto orchestrale, e questo ha permesso al trio di avere, dopo un periodo di rodaggio, un suo suono.

“Tabù”, il tuo nuovo lavoro, è considerato da molti una sorta di concept-album. Ti piace e ti riconosci in questa definizione, oppure è stato casuale il fatto di realizzare un insieme di brani legati da una sorta di filo conduttore comune?
Forse la definizione di concept è legata ad un periodo e ad un modo di fare musica che oggi non c’è più. Però il collante del progetto è la parola “Tabù”, l’idea della contemporaneità, della trasgressioni, del bisogno di liberare, attraverso il movimento del corpo, attraverso i passi di una danza, gli istinti.

Cosa ti ha affascinato riguardo ai tabù, al punto da rivisitarli musicalmente nel tuo album?
Il fatto di poter parlare, senza usare le parole, di quello di cui la gente normalmente non parla, se non quando è sola, la notte, di fronte ad uno specchio, durante certi silenzi. E soprattutto il fatto che in una società in cui quasi tutto è ormai concesso siamo sempre più pieni di tic, di tabù, di paure. Volevo fosse un disco costruito su brani immediati, vere e proprie song da tre minuti e via, senza fronzoli e senza orpelli, tutto “girato” con una camera a mano nella metropoli, dentro la notte, dentro noi stessi, dentro i desideri, dentro i rimpianti, tutto in una musica, tutto in una notte, quasi se il disco fosse una sola musica, divisa in dodici movimenti, un solo piccolo romanzo diviso in dodici capitoli, in dodici racconti della contemporaneità, in presa diretta dalla realtà.

Con “Tabù” hai chiuso una sorta di cerchio, sintetizzando jazz e composizione per cinema e teatro. L’esperienza nell’ambito sinfonico che hai vissuto con il documentario “Nanook l’Eschimese” è un discorso ancora aperto?
Assolutamente. Quella esperienza mi ha regalato emozioni e soddisfazioni. Non escludo possa capitare nel futuro di utilizzare nuovamente un organico orchestrale, anche non per il cinema.

Nell’ottica della continua evoluzione, che caratterizza il tuo modo di porti nei confronti della composizione e dell’esecuzione, quali sono, attualmente, le possibili esperienze future che ti stimolano maggiormente?
Dopo due album solo strumentali mi affascina l’idea di confrontarmi con la voce umana. E’ un percorso che non escludo, ma che voglio affrontare con calma perché mi affascina tantissimo la voce, quello che mi affascina di meno è la parola. Le prossime collaborazioni saranno importanti per sviluppare ulteriormente le possibilità del mio linguaggio.

A questo proposito consideri l’approccio fondamentalmente “acustico” dei tuoi brani un dato acquisito, oppure non escludi di considerare l’inserimento dell’elettronica come un’eventualità percorribile in futuro, considerando l’attitudine alla multimedialità che hai già manifestato?
Mi è già capitato di usare l’elettronica in un alcuni progetti paralleli. Non escludo affatto che in futuro possa trovare spazio nei miei dischi. Sarebbe limitativo e poco lungimirante escludere qualcosa in fatto di musica.

Hai, fra i tuoi programmi futuri, l’intenzione di proporre, o accettare, la collaborazione con altri artisti? Ce n’è qualcuno, in particolare, che suscita il tuo interesse e la tua curiosità?
Mi incuriosirebbe sentire Mario Biondi cantare una melodia inconsueta per il mood che lo ha reso celebre. Qualcosa di più mediterraneo, di più cinematografico, mi piacerebbe scrivere per la sua voce. Fuori dall’Italia sono molto affascinato dalla voce di Rokia Traorè, è straordinaria. Sono anche molto interessato a collaborazioni con artisti provenienti dal mondo dell’hip hop, della club culture, forse potrebbe uscire qualcosa di interessante unendo il mio modo di intendere la musica e la melodia con il mondo delle macchine e del trattamento sonoro. 

In conclusione, come descriveresti l’evoluzione intercorsa fra Dispari e Tabù? Quali i punti di contatto fra i due album, quali le differenze più sensibili, dal tuo punto di vista?
Con questo secondo disco credo di avere tirato fino in fondo la linea musicale che avevo tracciato con il primo. E di avere anche consolidato una cifra stilistica. I due lavori sono in continuità, ma credo che “Tabù” abbia un grado di sintesi, sia nella scrittura sia nella produzione, più matura. La differenza è che per “Tabù” prima ho scritto i brani, poi li ho suonati per circa un anno nei teatri, nei club e nei festival, e poi ho inciso il disco. Forse per questo c’è una forza ritmica e di coesione sonora nuova, frutto anche dell’esperienze maturate. Entrambi gli album però sono uniti dall’idea di lasciare sempre libero chi ascolta di mettere in sequenza le immagini che il suono e le musiche suggeriscono e di viaggiare con l’immaginazione, attraverso le emozioni più diverse.




(13/01/2009)

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