Flavio Oreglio
Come è nata la collaborazione con i Luf in “Giù”, il tuo ultimo
progetto discografico? Perché hai scelto di farti affiancare da un gruppo così caratterizzante
e caratteristico?
A questo proposito vorrei
chiarire alcuni punti. Nella vostra recensione sono state scritte delle cose
che avrei sottolineato in altra maniera. La recensione era spostata troppo sul
discorso musicale, lasciando in secondo piano l’aspetto dei testi, fondamentali,
e con tematiche forti. Il progetto discografico è mio, non dei Luf, ma scritto in collaborazione con Dario Canossi. A scrivere da soli si
finisce con il copiare se stessi. È bello contaminare e prendere spunto da
altri e scambiarsi idee, con Dario da questo punto di vista il rapporto è
ottimo. Il concetto dell’album è mio, le tematiche dell’album sono mie, alcune
musiche le ho scritte io, canto io. Per quanto riguarda le sonorità, la scelta
di affidarsi ai Luf è stata voluta, perché per questo progetto avevo bisogno
dell’energia tipica di un gruppo come loro. Anche la strumentazione era quella
che desideravo: i Luf usano banjo, violino, due chitarre, contrabbasso. La
genesi del disco è particolare, il progetto nasce da un contatto tra me e Dario
Canossi che è anche uno degli autori dello spettacolo “Non è stato facile cadere così in basso”, che è un insieme di canzoni
e monologhi. Poi per un collegamento al live si è introdotto il discorso Luf ed
è nata una magia così straordinaria al teatro, che è nata l’esigenza di mettere
su cd il tutto.
I tuoi ultimi 3 dischi (“E ci chiamano poeti”, “Siamo una massa di
ignoranti...parliamone”, “Giù”) sono molto differenti tra loro.
Sono uno sperimentatore, i dischi
sono volutamente uno diverso dall’altro, sono sempre in una fase di ricerca. In
“E ci chiamano poeti” ci sono influenze regtime, jazz, swing; “Siamo una massa
di ignoranti” è forse il mio progetto ad oggi più legato al progressive e vede
la partecipazione anche di Clive Bunker,
mitico batterista dei Jethro Tull e di Walter
Calloni, per molti anni nella PFM. Ma i miei primi vecchi lp degli esordi,
anche se come contenuti sono i più ricchi di comicità, avevano un sound che per
alcune caratteristiche si avvicinava parecchio a “Giù”, con chiari riferimenti
al folk e al country.
Come ti comporti in studio nei confronti dei musicisti che ti
affiancano?
Io non dico più di tanto al
musicista, dico dove dovrebbe fare un intervento, ma lascio lo spazio a lui per
darmi delle proposte tra le quali scelgo. Non amo dare la partitura scritta
precisa ma voglio sfruttare la creatività del musicista che ho invitato. Io
preferisco parlare di testi e contenuti, ma la musica non è secondaria, ho
fatto tanta musica, jazz , rock, fusion, progressive, anche il liscio agli
inizi. Ho un approccio alla musica profondo.
Nel libretto di “E ci chiamano poeti (il momento è catartico)” scrivevi
«Sono e resto un cantautore che si esprime attraverso il linguaggio comico e
umoristico». Ti riconosci ancora in questa definizione?
Mi riconosco in tutto quello che
ho fatto. Esiste una persona che si esprime. E sono io. L’uomo o ride o piange.
L’uomo che ride sempre è un coglione l’uomo che piange sempre è un disperato,
l’uomo normale ha momenti dove ride e momenti dove piange. Io sul palco
rappresento un uomo normale, le sue due facce. I cantautori in un certo periodo
non si interessavano quasi della musica ma utilizzavano testi forti, poi si
sono evoluti nel filone che ha dato conto anche alla musica, ora non vorrei che
diventassero musicisti che ogni tanto parlano, il cantautore va valutato per
quello che esprime. La differenza tra cantautore ed essere cantante e autore è
notevole. Per Gaber il cantautore è
un artista che attraverso le canzoni da una propria visione del mondo, una
visione critica, quasi filosofica.
Nelle tua vena artistiche troviamo scrittura, musica, immagini. Come
pensi che la tua personalità sia maggiormente valorizzata?
Nell’era della multimedialità si
devono usare tutti questi strumenti. Io di base uso il teatro, l’editoria, la
discografia con delle puntate al video. Il video aiuta a vendere bene il teatro
canzone. Il modo migliore per capire cosa faccio è vedermi a teatro, o al
limite in un dvd perché c’è la componente visiva, si ascolta quello che
racconto e cosa canto. Il cd invece è un ottimo documento storico. Esce, ha una
data, testimonia il fatto di cosa stai facendo. Ha un valore documentale, se
diventa di successo tanto meglio, ma resta comunque un bella testimonianza.
La televisione è stata ovviamente d’aiuto per farti conoscere ed
apprezzare. Ritieni questo “il mezzo” per eccellenza oppure ritieni che, forse,
la tv renda tutto “sterile” lasciando poco alla fantasia ed immaginazione del
pubblico?
La tv è un fattore espansivo e
limitante al tempo stesso perché riduce quello che fai ad un icona. La mia
esperienza è emblematica. Sono diventato il poeta catartico, che è una cosa che
non esiste, è solo una minimale parte di quello che faccio, ma ha avuto utilità
fondamentale. Mi ha aperto tutte le porte mi ha fatto vendere milioni di libri,
è stata una cosa devastante, ben venga quindi, non la rinnego e dico grazie ma
il percorso va avanti. Non mi accontento di stare li a ripetere all’infinito la
stessa cosa. Un artista non deve limitarsi ad esprimere una cosa perché
conveniente economicamente ma in certi contesti le poesie catartiche le
rispolvero senza problemi. Non sono comunque un presenzialista, vado in tv se
ho un motivo per farlo.
Il decennale della morte di Fabrizio De André è stato anche un momento
attraverso il quale si è potuto riflette sulla canzone d’autore come veicolo di
cultura ed elaborazione del pensiero critico-emotivo. A te, come uomo e come
artista, cosa lascia in eredità questo grande artista?
Fabrizio De André appartiene alla categoria di artisti che hanno
segnato l’epoca in cui sono vissuti. A tal proposito, ci sono citazioni Gaberiane
che io uso perché straordinarie. Una in particolare è perfetta ora per
risponderti: “Ci sono artisti che vogliono passare alla storia. Artisti che
vogliono passare alla cassa”. De André è uno di quelli che sono passati alla
storia, e poi ovviamente anche alla cassa, ma di riflesso, non era il suo principale
obiettivo. In questo periodo inoltre stiamo montando un omaggio a Faber che
propongo con Oliviero Malaspina e
con Dario Canossi. L’idea è di trasformare i brani di De André in teatro
canzone usando le sue canzoni e costruendo io i monologhi di raccordo. Concludendo
con un omaggio personale, un pezzo che stiamo scrivendo dedicato a Fabrizio.
Canossi è un grande esperto di De André, la canzone si intitolerà Dicio, che era il diminutivo di Fabrizio,
come lo chiamavano i contadini quando ero piccolo.
A tuo avviso il teatro-canzone è una forma d’arte, uno stato d’animo oppure
un mezzo per smuovere le coscienze e tu come ti poni in questa dimensione
artistica?
Il teatro canzone è una forma d’arte
che esprime stati d’animo, una forma d’arte che io ritengo non sia stata
inventata da Giorgio Gaber, lui l’ha perfezionata. Il termine teatro canzone è
di Gaber, è una forma che già esisteva ma non era stata battezzata e lui l’ha
fatto. La nascita del teatro canzone la faccio risalire agli anni ‘60 con il Derby,
i Gufi ad esempio. Lo stile di Gaber
è diventato però di riferimento e il rischio, se non si risale a studiare le
origini, è di diventare tutti un suo clone, si deve andare alle origini per
creare qualcosa di diverso.
Nel nostro Paese si discute spesso di politica ma poco di cultura.
Secondo te la canzone d’autore potrebbe essere un elemento di crescita
culturale e, in caso affermativo, con quali strumenti e modalità operative?
La musica d’autore deve essere
uno strumento di crescita culturale, forse ancora uno degli ambiti dove è possibile
la libertà di espressione, però deve crescere culturalmente chi la propone. Si
deve stare attenti. Ci sono forma e contenuti. Sulla forma possono essere bravi
tutti, sui contenuti è più difficile. Io posso dire delle scemenze dette bene
come delle cose molto profonde dette male, se dico delle cose profonde dette
bene, faccio bingo. La canzone d’autore può avere il ruolo di fare cultura, di
fare politica, di trasmettere valori. Deve avere un ruolo di stimolo ma non di
indottrinamento, deve stimolare.
L’artista cerca di esprimersi o cerca il consenso?
Qualche concessione, compromesso,
può essere fatta, ma con dei limiti. Un artista dovrebbe domandarsi “ma io mi
sto esprimendo veramente bene“? Io cerco di essere molto critico con me stesso.
Tutto deve essere detto semplicemente per essere compreso da tutti. Le cose
difficili vanno affrontate come se fossero facili, come le cose facili devono
essere affrontate come se fossero difficili, ed ora sono stato catartico! Ma
l’importante è essere soddisfatti di quello che si sta facendo.
Nel ’94 hai ricevuto il premio “San Scemo”. Alla luce della tua
carriera te ne penti oppure ne vai (giustamente) fiero?
Era un premio della critica,
forse l’unica cosa sbagliata era il nome attribuito alla manifestazione che ha
visto emergere nomi poi divenuti importanti. Io ho fatto 3 festival nella mia
vita, il “Premio Rino Gaetano”, il “Cabaret di Loano” e, appunto, “San Scemo”, è
una via che ho tentato per cercare di farmi conoscere.
Quali artisti ti hanno maggiormente influenzato?
Le mie influenze provengono
essenzialmente da tre fronti. Quello cantautorale, il cabaret e il rock. Per
quanto riguarda i cantautori non posso non citare De André e Guccini. Il vero cabaret in Italia è
stato dagli anni ‘50 alla fine dei ’60, oltre c’è un’altra forma di spettacolo
differente, quindi cito Jannacci, Gaber,
fino al limite estremo di Cochi e Renato.
Per quanto riguarda il rock la mia passione è principalmente il progressive
anni ‘70, con i principali gruppi inglesi e italiani del periodo (Emerson Lake
e Palmer, Jethro Tull, PFM...).
Comico, scrittore, cantautore, musicista, come vorresti essere
ricordato ?
Vorrei essere ricordato come uno
che si stava esprimendo con i linguaggi che la natura gli ha messo a
disposizione, io uso la parola, la canto, la recito, la scrivo. Può essere un racconto,
un monologo, una poesia, una canzone. Non vorrei essere giudicato e ricordato
per una sola di queste forme.
Appurata la tua continua voglia di sperimentare e ricercare nuove
sonorità e tematiche, come pensi di approcciarti al tuo prossimo disco?
Per il prossimo disco vorrei
tenere una base tipo Luf, come fondo, ma caratterizzarla con dei suoni
differenti, ma è ancora un discorso prematuro. Vorrei l’energia e la vitalità
dei Luf in commistione con le sonorità più particolari di “Siamo una massa di
Ignoranti”.