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Marco Parente

Oltre il rassicurante

Napoletano di nascita, toscano d’adozione, “byrniano” nel DNA, Marco Parente porta avanti fin dal suo primo album (pubblicato nel 1997 per la collana Taccuini del Consorzio Produttori Indipendenti) la sua ricerca musicale, bypassando qualunque maniera del momento e cercando di inoltrarsi sempre di più in quel territorio selvaggio e raffinato che abita oltre le frontiere dello stile ritenuto rassicurante. Il suo sesto album in studio, La riproduzione dei fiori, persegue con passione una classicità tutta “parentiana”, al di fuori di qualunque canone: grazie ad una nuova consapevolezza, ogni suono, delicato, elegante, distorto, aggressivo, diventa strutturale. Abbiamo parlato con Marco delle sue nuove canzoni, di poesia vissuta e maledettismi inautentici, di diavolacci che collezionano anime per riscattarsi attraverso l’atto artistico, delle collaborazioni musicali come confronto e completamento.

Partiamo dalla tua voce, molto poliedrica: in questo album prova spesso anche il ritmo del parlato nei brani più veloci, prende cadenze blues in Shakera e Motown (L’omino patologico, Bad Man), sfodera vigore rock, ma soprattutto solitamente assapora i suoni, ne impasta e prolunga le note in una fluidità che sfocia o si spezza in un falsetto tra i più limpidi ed espressivi (quasi dolorosi…) della musica italiana. Che ascolti pensi ti abbiano influenzato nell’elaborazione di questo stile vocale del tutto originale? Penso sicuramente David Byrne…e poi?

Non saprei dirti, perché ormai cominciano ad essere cose un po’ inconsapevoli e non troppo ponderate…

 

Certo, dopo tanti anni…

Ci sono ascolti che ho avuto negli anni, anche distratti, che poi però sono rimasti ed ho assimilato…Per quanto riguarda in generale la voce, ormai dopo tanti anni, spero sì di non essere autoreferenziale, ma studio e mi appoggio su quella che è un’idea della mia voce: so quello che posso fare e quello che non posso fare e mi muovo in questo range d’azione che è da una parte la mia voce e il mio stile, e dall’altra in modo molto più inconsapevole i miei ascolti, a questo punto casuali, non mirati o esplicitamente studiati. Tu hai citato David Byrne: ce l’ho nelle ossa, nel dna…più che vocalmente, dal punto di vista dell’idea di musica e soprattutto di ricerca, che è il mio punto di partenza e di arrivo. Io sono interessato alla ricerca in tutto quello che faccio. Mancano i fondi per la ricerca all’università, ma anche per la cultura, l’arte e la musica: lo dico perché secondo me ognuno può fare ricerca, ecco, però l’importante è che sia sostenuta, autorizzata e confermata…Invece, anche se non mi interessano i confronti, noto che spesso mi trovo ad essere accostato a situazioni del tutto rispettabili, ma con direzioni e approcci molto diversi dal mio. Per fare ricerca, certo, bisogna partire dalla tradizione, ma la ricerca si chiama così proprio perché non si sa dove  possa condurre: non mi interessa un risultato tangibile, l’importante è quel filo che lega ciò che continuo a fare, il non accontentarsi e provare ad andare sempre un po’ oltre lo stile che rassicura il pubblico. Quest’ultimo tipo di stile può anche essere formalmente impeccabile e bello, ma non è quello che faccio io. E mi dovrebbe essere riconosciuto: sono 15 anni che lo faccio!

 

Beh, sì, credo sia evidente...(sorrido)

Poi è opinabile il giudizio: una persona può dirmi “la tua ricerca non mi piace”, ma non è opinabile che io abbia un certo tipo di approccio che non può essere confrontato a un altro…

 

Non ti preoccupare: non ti definirò “cantautore”!

Oh, ecco, brava…! (ridiamo).

 

Senza nulla togliere al cantautorato “classico”, il tuo è appunto un approccio di tipo diverso…

Poi ovviamente nel cantautorato in senso letterale mi riconosco, ma non nel senso estetico…

 

Per quanto riguarda proprio la ricerca che porti avanti e questo tentativo anche di spiazzare di volta in volta l’ascoltatore, in questo disco troviamo brani con sonorità anche piuttosto diverse tra loro: suoni delicati, come gli archi poetici di Sempre, suoni rarefatti come il theremin onirico e malinconico de Il diavolo al mercato o tocchi leggeri di vibrafono (Dj J, Il diavolaccio), suoni essenziali e classici come il piano della gemma Dare avere, arpeggi o glissati struggenti, ma anche distorsioni, chitarre trascinanti e pezzi rock piuttosto tirati come C’era una stessa volta: come sono nati questi arrangiamenti e come pensi eventualmente di essere cambiato musicalmente nei cinque anni che ti separano dal dvd Neve Ridens Un giorno+Il rumore dei libri, visto che ci sono state tante altre esperienze nel frattempo?

Sì, sì, ce ne sono state tante, anche se non sotto i riflettori canonici, che ho spento ad uno ad uno, proprio per preservare la ricerca e l’istinto. Poi il resto è un percorso, influenzato da quello che succede quotidianamente, da umori ed atmosfere. Secondo me La riproduzione dei fiori ha come differenza sostanziale l’interesse ad arrivare al centro di uno stile: per questo l’ho definito «canzoni allo stato puro». In realtà ormai l’estetica non c’entra più: per questo ci sono brani diversi uno all’altro, ma comunque legati da questa sintesi, dalla voglia di arrivare al nocciolo della questione, lo stile che ho cercato di mettere a fuoco in questi anni nei miei dischi. Però mentre prima lo facevo come un barbaro, mangiavo, divoravo, non guardavo mai indietro o al lato, questi cinque anni di attesa e di pazienza hanno portato l’occhio ad astrarsi, per quanto non possa essere obiettivo, a diventare più critico nei miei confronti. Sempre con passione ha cominciato a svilupparsi in me una consapevolezza maggiore. In questo senso sono passato dal barbaro al classico: queste canzoni sono il frutto di una sottrazione, più che di un’addizione. Non c’è arrangiamento, ma accompagnamento. Le atmosfere cambiano, ma al centro resta la volontà di andare a fondo: analizzando tecnicamente il disco, è ricco, ma non sovrastrutturato, perché in ogni pezzo ci sono sempre massimo cinque strumenti e pochissime sovraincisioni. I suoni presenti sono talmente distillati, ragionati, seppure sempre con passione (altrimenti potrebbero risultare freddi), precisi, quasi da spartito, che ogni piccolo particolare diventa strutturale al livello compositivo, tanto da essere arrangiamento. Il coro ormai è struttura, gli archi di Kirby [n.d.r: Robert Kirby, che è celebre per la sua collaborazione con Nick Drake, ma è stato al fianco anche di Paul Weller, Elvis Costello e tanti altri] sono strutturali: Sempre non a caso ha due chitarre e l’arrangiamento di Kirby, che è simbolico, diventa parte dello spartito. Non c’è più l’idea dell’arrangiamento: siamo rimasti in mutande, ecco!Questo è il massimo dell’esposizione. A proposito di riferimenti, l’unico vero faro di questo disco per me è stato Plastic Ono Band di Lennon, il più estremo: dopo venti o trent’anni è stato inserito tra i grandi classici, ma ce n’è voluto di tempo. Era un disco in cui Lennon non poteva mentire, neanche a se stesso, sapeva dove era arrivato e cosa aveva fatto e tutto quello che c’era era il massimo dell’essenza di quella che era la sua storia. Prendo le distanze anche da questo disco, con tutto il rispetto, però è stato un riferimento di attitudine, non per un “provo a mettere quel suono…”: per me l’importante era arrivare ad essere quella cosa lì, non farla.

 

Nella canzone che dà il titolo all’album, invece che dei “fiori del male”, si parla dei «fiori del bene». Alcuni versi della canzone recitano «sono molto stanco di queste facce tristi, della moda del dolore, il dolore è fuori moda»: a cosa fanno riferimento?

Beh, il testo della canzone fa riferimento a questo crogiolarsi molto di moda in una gestione del male in senso estetico: Baudelaire era Baudelaire, non si può fare Baudelaire o essere à la Baudelaire, mi dispiace!

 

Diventa assumere una posa…

Sì…questo dolore lo vorrei vedere! Diventa uno show e a me sembra il dolore di un terzo, di un altro: vorrei capire se quel dolore lì, quelle parole lì sono veramente o ci fanno. Secondo me ci fanno e basta. E non ho bisogno di prove, perché penso di saperlo, ho questa presunzione…Ogni grande personaggio considerato il capostipite di una corrente non ne era consapevole: sono la storia, la società, i costumi ad arrogarsi il diritto di fare diventare un certo sentimento generazionale. Io ho avuto il piacere e l’onore di parlare con Ferlinghetti, colui che ha sostenuto e creato il caso Ginsberg [n.d.r.: anche come uno dei proprietari della casa editrice City Lights]: non sia mai a nominargli la beat generation! Lui ti ride dietro!Ti dice che appartiene alla categoria dei bohemienne, ti cita tutt’altri riferimenti, come Pound, non ti cita quello che la storia e la società hanno ridotto agli occhialetti neri e una camicia a fiori…Così come con Ginsberg potevi parlare di Dante… Oppure pensiamo a Pasolini, ostacolato in tutti i modi e ora invece “riciclato” perché c’è bisogno di rifomentare questi miti…ma questi personaggi si rivoltano nella tomba, quando sono citati da certe pseudo-star!E non è compito loro essere eroici, cambiare le cose, ma essere concentrati su quello che stanno facendo, la loro arte, se di arte si può parlare. Il brano La riproduzione dei fiori non è polemico, ma sottilmente ironico; poi in tutte le cose, persino nelle pile abbiamo il positivo e il negativo, che si attraggono, ma sono le due facce della stessa medaglia. In questa canzone provo a dire come vedo io oggi le cose e di cosa sono stanco: «Fatti il bene» e lascia stare il male. Non è un insegnamento, ci mancherebbe altro, non è neanche un consiglio. Solo una mia personalissima opinione.

 

Poco fa parlavi di scrittori e del concetto di arte…Nei testi di questo disco sono frequenti i riferimenti alla poesia e ai poeti, dalla «poesia bianca» de L’omino patologico a Shakera. Ancora in particolare ne Il diavolaccio canti «a parte il diavolo non ho conosciuto / uomo in grado di impugnare la contraddizione / nemmeno la poesia questa infallibile realtà». E poi aggiungi: «stanco sono io di scrivere lettere al mondo». C’è un po’ di disincanto relativamente alla possibilità della poesia di comprendere, oppure, al contrario, di essere compresa?

Sì, la poesia per me artista (tra molte virgolette…) è il punto di arrivo: le nostre cose sono state definite poesie. E in questo senso sì, c’è un disincanto: non mi interessa più questa cosa qua. Poi in ogni brano secondo me c’è una visione diversa della poesia, che viene presa ad esempio dell’arte in generale: Shakera è il galateo del poeta, ma soprattutto esprime il dato di fatto che della poesia di base non frega più niente a nessuno. E a me dà fastidio. Per quanto riguarda Il diavolaccio, è un riconoscimento che la poesia, cosa che ho seguito fino ad ora, non esiste. La poesia a questo punto non è quella che si scrive, ma si può provare a viverla, dando un senso poetico alle cose, alla fatica, a te stesso…C’è chi prova a darsi un senso in un altro modo, ma per noi che proviamo a cimentarci con l’arte in generale la poesia è e ci dà un senso. E potrebbe salvarci. Il diavolaccio comunque è l’epopea di un individuo, in cui c’è anche una stanchezza per le lettere che scrivi al mondo e non arriveranno mai a una destinazione: la poesia è essere poesia in quell’istante, non riportarla, perché poi la moda, il costume, la storia proveranno a storicizzarla, a farla diventare un evento nazionale, fino a renderla un giorno di festa in cui non si lavorerà…!E a me questo non interessa, mi interessa quell’istante in cui la poesia avviene (se avviene). Che non è riportabile: come fai a riferire qualcosa che passa attraverso una giornata, una luce, un’atmosfera, la persona che hai davanti? La scrittura poi passa attraverso miliardi di filtri. Certo, il messaggio può sopravvivere al tempo, o Dante non ci arriverebbe oggi in modo così preciso, però io sono vivente e vivo. E posso solo vivere la poesia e non darle un valore storico, che nella migliore delle ipotesi è un’unghia di ciò che è successo davvero.

 

Il diavolo è protagonista di due canzoni dell’album, Il diavolo al mercato, e appunto, Il diavolaccio, che è il titolo anche di uno spettacolo, in cui un diavolo dimostrava la sua «non esistenza estromettendosi da secoli di storia», come si legge sul tuo sito. Come mai?

Lo spettacolo Il diavolaccio incarna quello che ho detto poco fa: io ho definito questa figura del “diavolaccio” l’ “ultimo degli umani”, l’ultimo che rimane. Ed è evidente il perché…Tu hai mai visto il diavolo?

 

Eh, no (sorrido).

Appunto, ecco, un po’ come Dio, penso! Però Dio svolge il suo ruolo in maniera più positiva, da rockstar (rido). Il diavolo no! È sempre stato relegato a figura che doveva gestire il male al posto nostro, talvolta anche con eleganza: è un professionista, si è assunto sempre le sue responsabilità. E la contraddizione, come afferma il verso che citavi prima, perché per forza sei contraddittorio. Il diavolo è l’alter-ego che ci serviva per rendere sopportabile la vita: abbiamo creato un recipiente per tutti i nostri pensieri malati, insani, miseri, contraddittori appunto, cioè il diavolo, che si è sempre comportato bene nei secoli. Ha gestito questo ruolo al posto nostro, è stato bastonato poi alla fine, si è fatto carico di tutto questo, molto più di Dio. Però per me ha una rivalsa: nel disco c’è sempre un lieto fine consapevole che rende tutto solare o comunque sopportabile e anche il diavolo si deve riscattare in qualche modo. Si dice sempre che compra l’anima e ne ha acquistate tante nei secoli, ne ha fatto collezione nel mercatino della storia. E dove collochiamo il mistero, il segreto del mondo, la bellezza, l’arte, se non nell’anima? Secondo me allora il diavolo voleva acquistare l’anima, perché solo attraverso di essa, cioè attraverso l’atto artistico, si poteva riscattare. Il diavolaccio era appunto il percorso del diavolo, che nasce, si assume tutte le responsabilità, viene umiliato, non ce la fa mai, ecc. ma verso il finale trova il suo lieto fine nell’atto artistico che si consuma ne L’omino patologico, in cui si cita il sommo Dante: qui l’atto creativo scaturisce dal suo atto sessuale autoreferenziale ed è la rivalsa del diavolo.

 

Questo spettacolo fondeva musica, danza e figuratività, ma hai all’attivo nella tua carriera anche altri spettacoli come Cuore distillato o Il rumore dei libri, geniale performance che si nutriva anche della poesia sonora con tanto di sfogliare le pagine dei libri assunto come strumento musicale. Il posto delle fragole omaggiava invece Bergman, mentre un altro brano Michelangelo Antonioni: credi in una possibile complementarietà o necessaria fusione delle arti, la poesia, la danza, il teatro, il cinema, la musica, o comunque nell’importanza di sperimentare performance innovative?

Sì, assolutamente, ma è sempre un’arma a doppio taglio: quando faccio queste incursioni, vado a curiosare in altri mondi e provo a confrontarmici, lo faccio sempre avendo ben fisso in mente cosa sono io, un musicista. Cerco allora di farlo con rispetto, perché confrontarsi con altre arti significa anche confrontarsi con il percorso e i sacrifici di altre persone che si sono dedicate solo a quell’arte. Ho cercato quindi di non mettere troppo avanti l’ego; ho piuttosto una sana curiosità che mi permette di affacciarmi ad altre finestre. In questo confronto ci sono sempre molte possibilità e il risultato finale spero sempre che sia molto rispettoso di tutte le arti che si vanno a toccare. Ad esempio ci sono state delle pubblicazioni di testi più o meno ufficiali o digressioni, ma lungi da me dire che sono uno scrittore, così come lungi da me dire che sono un poeta, un regista o un artista multimediale. Marco Parente fa il suo percorso, prova a cimentarsi con tante cose e spero che esse vengano fuori con umiltà (non modestia), come incursioni in altri mondi a cui ha dedicato del tempo: semplicemente perché uno non si chiama…boh…Vinicio Capossela, Jovanotti, Ligabue, Battiato…anche se si fa il culo da una vita, non ha i riflettori puntati su di sé. Ci possono essere anche nuovi Joyce, ma nessuno li scoprirà mai…Troppo facile così…

 

Nel tuo MySpace avevo letto tempo fa, ad ottobre, un post [n.d.r.: non c’è più nel sito] in cui scrivevi che il tuo nuovo disco erano i live e non eri intenzionato in quel momento a pubblicare niente. Poi invece con la nascita di questa nuova realtà indipendente, la Woland, pensata come luogo dove «poter fare della sana "ricerca"», è finalmente uscito un tuo nuovo disco [n.d.r.: da notare che “Woland” in tedesco indica il diavolo]. Cosa aveva creato maggiormente una frattura tra te e la discografia, le imposizioni, la mancanza di libertà a volte patita dagli artisti, o la miopia nel comprendere certi progetti eclettici e originali, che non rientrino nei canoni, neanche in quelli della scena indie? Anche la nicchia ha i suoi canoni, ma il tuo progetto credo vada molto al di là di qualunque canone…

Quella era una sorta di dichiarazione programmatica, dove dicevo di essere una “pubblicazione vivente”. Era un constatare che la discografia con l’avvento di internet, ecc. stava vivendo un cambiamento che è anche un toccare il fondo, era su di un crinale di fallimento. Non ho mai avuto limiti particolari quando ho avuto contratti discografici, sinceramente: ne avrei voluti avere di più, nel senso che avrei voluto un maggiore confronto con il mio referente. Avrei voluto non che mi imponesse delle cose, ma mi mettesse davanti a delle contrarietà, ad un altro tipo di visione, che è vitale perché si arrivi un risultato. Invece spesso la reazione è stata «lasciamolo stare, tanto lui è così»: nessuno ci capiva niente e nessuno si azzardava a dare un’opinione o a dire se si poteva cambiare qualcosa (sorrido). Questo secondo me non è mai stato positivo, fino al punto in cui ho pensato «se non c’è un dialogo, cosa lavoriamo insieme a fare?». Poi una volta chiuso il contratto con la Mescal, mi sono fermato a riflettere su che senso avesse andare avanti, se trovare una nuova etichetta, ecc. Guardandomi intorno, mi sembrava che ci fosse un panico generale, tra discografici in fallimento, strutture che cambiavano referenti ogni settimana e persone che invece non volevano mollare il carro, ma restarci dentro a tutti i costi: io allora ho fatto un passo indietro. Pur sapendo che l’avrei pagato a livello quotidiano economico, ho preferito fermarmi un attimo, continuando a lavorare, ma non interfacciandomi subito con delle strutture che mi sembrano stiano crollando una ad una. Non in senso etico, ma strutturale: non sanno più che pesci prendere, parlano e non dicono niente. E nessuno dice niente. Non volevo subire questa cosa: io me la racconto in un’altra maniera. Quella era la situazione? Allora ho detto: «Io lì non vengo, perché non ha senso, ma continuo a confrontarmi con me stesso e le persone che vogliono ascoltarmi». Anche per quel che dicevamo prima sull’atto del momento e la non storicizzazione dell’arte, ho pensato: «Ogniqualvolta faccio un concerto, che ci vengano una, due, dieci, cento o mille persone, io in quel momento sto davvero pubblicando». Aggiungevo però anche un post scriptum: «questo non vorrà dire che d’ora in poi non farò più dischi». Avvisavo che quando li avrei fatti, sarebbe stato anche un per senso di nostalgia. Nasco con il disco, ho lottato tantissimo per pubblicare il mio primo album e i dischi sono nel mio dna. Quando si creano le condizioni ed anche per quello che ho da dire vale la pena passare attraverso quel vecchio supporto, allora pubblico un disco.  

 

Un’ultima domanda, anche a proposito di questa esigenza di dialogo a cui facevi riferimento ora parlando dei produttori, nei quasi cinque anni che separano La riproduzione dei fiori da Il rumore dei libri, come accennavo prima, ti sei dedicato ai progetti più disparati, dai Proiettili Buoni (con Paolo Benvegnù, Andrea Franchi e Gionni Dall’Orto), alla collaborazione con CaNeNero e come Betti Barsantini con Alessandro Fiori dei Mariposa, presente anche ne L’omino patologico, oltre ad esserti dedicato in passato spesso a tante altre collaborazioni, da Manuel Agnelli a Carmen Consoli e Cristina Donà. Quanto contano per te queste collaborazioni musicali come stimolo da vera fucina o collettivo creativo?

A parte i progetti paralleli, che vengono fuori autonomamente da altre esigenze, le collaborazioni che hai citato (il lavoro con Manuel Agnelli, la Consoli, ecc.) hanno sempre a che fare con un senso e un bisogno di completezza: bisogna a volte ammettere che alcuni progetti o canzoni sentono l’esigenza di essere completati al di fuori di te. E’ un ammettere che chiaramente hai dei limiti e alcune intuizioni in particolare hanno bisogno di un confronto. E’ sempre avvenuto così, con i nomi più noti che hai nominato, così come con tutti i musicisti con cui ho lavorato, che nella mia musica sono importanti esattamente tanto quanto i nomi già conosciuti. Il metodo e il meccanismo che si instaura è sempre quello: c’è una sorta di completamento di quella che è la tua macchina.

 

Ti ringrazio moltissimo, Marco: è stata un’ intervista molto interessante e non dubitavo sarebbe stata così…

Grazie, grazie… 

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