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Ultimavera

Racconto d'autunno

  Gli Ultimavera hanno realizzato un album di quelli che solitamente vengono indicati come “piccoli capolavori”. “Ai caduti in bicicletta” è, di fatto, un’opera prima che non lascia indifferenti, per via di un approccio compositivo capace di unire leggerezza e sostanza, in un momento storico dove è nettamente più facile incontrare superficialità e mancanza di idee. Ne abbiamo parlato con Diego Nota, cantante e autore della band, il quale non ci ha risparmiato qualche risposta spiazzante.                  

 

 

A chi è riferito il titolo del vostro album d’esordio?

 

È un titolo che inizialmente non mi ispirava molta fiducia; detto velocemente sembra “Hai caduto in bicicletta”! Pensavo che avrebbe generato negli ascoltatori una sorta di gentile ilarità, trattenuta per non scaturire in una grassa risata. Però, rileggendo i testi, si percepisce che è quello giusto, poiché risulta una costante presenza dei ricordi legati all’infanzia, specie alla mia.

 

 

 

Ricordo ad esempio che in un aprile della mia infanzia mio padre tolse le rotelle alla bicicletta e mi disse: «ora vai da solo e stai attento a non cadere». Da quel momento iniziarono le cadute in bicicletta, e con esse tante altre molto più dolorose, da indurmi molti anni più tardi a scrivere un disco che ripercorresse il mio passato. Questo disco è dedicato ai caduti in bicicletta, e i caduti in bicicletta sono tutti coloro che durante l’infanzia hanno dovuto disegnare la propria strada senza alcuna coordinata; sono tutti coloro che dopo esser caduti hanno immaginato, giorno dopo giorno, un percorso tracciato sulle incertezze, sui dubbi, su strade sconosciute e non indicate anticipatamente da nessuno.


 

La prima caduta in bicicletta è quella indimenticabile, è quella da cui prendono il via tante altre cadute che ciascuno vorrebbe francamente evitare.

 

I testi dell’album, che portano tutti la tua firma, evocano costantemente il passato.

 

Parafrasando Marcel Proust credo che l’esistenza abbia il difetto di rimanere incastrata in un passato/presente, in un presente/presente e in un futuro/presente. Ogni momento della vita degli uomini è vissuto con i filtri del presente. A un certo punto della mia vita ho vissuto di ricordi filtrati, essi sono stati così preponderanti da spingermi a trascriverli sul foglio, quasi come volessi liberarmene.

 

Sarebbe interessante vivere senza filtri o senza ricordi, oppure vivere il presente dando a esso il giusto peso. Mi piace ricordare una frase di Lele Battista (spero sia la sua, altrimenti ho fatto una pessima figura), ex cantante dei La Sintesi, che chiarisce in maniera definitiva ciò che voglio esprimere: «…cosa potremmo infatti realizzare in futuro quando abbiamo alle nostre spalle un'eternità in cui si sarebbe potuto realizzare qualsiasi cosa.Come potrà il futuro offrire ciò che non ha potuto l'infinità del passato?».

 

Ricordi che esplodono con fragore in “Agosto ‘87”. Chi non ha trascorso le giornate a correre dietro un Super Santos, quale significato può rintracciare in questo brano?

 

Chi non ha avuto il piacere di passare le proprie giornate a correre dietro un Super Santos, spero percepirà comunque l'amarezza di chi è rimasto in casa ad esistere per inerzia. Anzi, forse chi non ha avuto il piacere di correre dietro un Super Santos è proprio il protagonista della canzone stessa.

 

“Agosto '87” è una questione di punti di vista, se vuoi può essere una canzone spensierata, se invece hai qualche minuto in più per ascoltarla diventa una delle canzoni più tristi del disco, perché si spaccia per allegra, ma allegra non è. Quando ho scritto questo pezzo ho pensato che avrebbe avuto le potenzialità per entrare nella fortunata cerchia dei tormentoni estivi, che ci straziano le orecchie mentre stiamo mangiando il ghiacciolo alla menta. Oggi sono convinto del contrario, e penso che questo sia un pezzo invernale.

 

Nella scrittura si evidenzia una certa ricerca linguistica. Quali sono le tue letture di riferimento?

 

Durante le scuole superiori ricordo che con il mio amico Maurizio nell'ora di italiano attaccavamo le caccole del naso sulle pagine dei “Promessi Sposi”, poi lui prendeva una penna e cerchiava la caccola scrivendo attorno ad essa data e ora. Eravamo arrivati a non studiare nulla, fummo bocciati. Questo è il mio primo riferimento letterario, o meglio è da questo ricordo che a un certo punto ho deciso di dare più importanza alla letteratura e alla grammatica.

 

 

  

Ho iniziato a studiare da solo la lingua e la grammatica italiana perché non sapevo coniugare i verbi, e il più delle volte sbagliavo i congiuntivi. Mi rendo conto che imparare la lingua da bambini e poi mantenere quelle nozioni, specie quelle grammaticali, fino ai trent'anni non è affatto facile.

 

Inoltre ho avuto la sfortuna di avere maestre e professori molto approssimativi per quanto riguarda la cura della lingua italiana. Dopo aver preso la licenza media mi sono iscritto all'istituto tecnico per geometri, poiché mia madre era convinta che appena diplomato avrei trovato immediatamente lavoro. Al geometra lo studio della lingua italiana era ritenuto al pari delle coordinate cartesiane, che alcuni professori spiegavano solo in dialetto. Dopo le scuole superiori mi sono iscritto alla facoltà di lettere e durante gli anni universitari il mio professore di letteratura mi ha consigliato di fare la tesi su Tommaso Landolfi, e da lì è nato un grande amore verso questo scrittore, che ancora oggi per me resta uno dei più grandi maestri della lingua italiana.

Ho scoperto la letteratura in un’età che definirei tardiva e ho iniziato a scrivere quando avevo circa venticinque anni. Il nostro primo demo risale al 2005, lì ci sono dei testi che per me sono poco maturi, molto approssimativi ma più spontanei degli attuali. Al tempo non avevo alcun riferimento letterario e la scrittura era una necessità riempitiva della musica: non si avevano i testi quindi bisognava scriverne per terminare le canzoni. Con il tempo ho imparato a leggere i classici e le opere degli scrittori latini, mi piace molto Giovenale. Me lo immagino di sera Giovenale che passa con la biga, mi saluta dicendomi “ciao stupidone”, e io gli rispondo: “ciao stronzo!”.

 

Al contrario dei testi la musica rilascia una sensazione di leggerezza. Quanto è pianificato questo contrasto?

 

Il nostro è un genere pop-rock. Se per l'ascoltatore i miei testi possono ritenersi impegnativi a me non può che far piacere, però non riesco a immaginare una musica estremamente pesante che accompagni le parole. La leggerezza della nostra musica è senza dubbio pianificata: durante la fase di creazione dei brani diamo molto spazio al testo. Eseguire questa operazione non è affatto facile, perché fare questo non significa banalizzare le parti musicali, ma creare un ensemble, un'armonia tra testo e musica in cui la musica va ad arricchire le sfumature del testo.

 

Il nostro pop a questo punto è definibile come cantautorale. Se così non fosse, se i nostri testi fossero troppo impegnativi o la nostra musica troppo leggera rispetto ai testi, bisognerebbe addrizzare il tiro. Componiamo la musica per dei testi già esistenti: è come se in sala prove, con il testo scritto, arrivasse un quadro già tracciato a matita che bisogna colorare con la tempera. La nostra musica per il momento ha questo ruolo, colorare le vicende descritte nei testi, che da sole resterebbero in bianco e nero. La musica di “Ai caduti in bicicletta” è leggera; è l'altro piatto della bilancia: è l’elemento che lascia questo disco in bilico. Se l'ago dovesse pendere verso i testi si sprofonderebbe nella desolazione, nel rammarico, nell'astio, nella rivincita, nella violenza, nello sfregio e nella bestemmia gratuita.

 

Sul vostro sito ho trovato questo post: “Gran bel disco, credo di aver acquistato un piccolo capolavoro. Grazie”. Avete la consapevolezza di aver realizzato un album d’assoluto spessore qualitativo?

 

Mi rendo conto che con gli anni abbiamo avuto una crescita dal punto di vista musicale. La nostra prima demo, realizzata non troppi anni fa, aveva delle carenze molto gravi, mancava un metodo compositivo che abbiamo acquisito con l’esperienza e con le collaborazioni esterne. Ringrazio di cuore la persona che ha lasciato il commento sul sito, ma sento che abbiamo ancora molto da lavorare e che c’è un margine di miglioramento che ci aspetta, basta solo saperlo coltivare con la curiosità. Se “Ai caduti in bicicletta” per il commentatore è parso un piccolo capolavoro, spero che il prossimo disco sarà per lui un medio capolavoro.

 

Quali sono gli aspetti dell’album che avreste dovuto sviluppare in maniera più approfondita?

 

Credo che durante le fasi di registrazione dovremmo avere una conoscenza più approfondita dei suoni e dei mezzi utilizzati per registrare. Personalmente avrei sviluppato alcune sonorità in maniera diversa; ci sono aspetti del disco che non sono perfettamente in linea con quelli che avevamo immaginato. Ma queste sono particolarità inevitabilmente presenti ogni volta che si registra un disco. Essere completamente soddisfatti di una tua creazione è quasi una presunzione.

Per quanto riguarda i testi mi sento ancora pieno di sacerdoti dentro la coscienza. Tra ciò che penso e ciò che scrivo spesso ci sono dei filtri di cui vorrei liberarmi. Un giorno vorrei vergognarmi di quello che ho scritto o prendermi a schiaffi con un giornale bagnato. Possibilmente Il Resto del Carlino.

 

Siete un gruppo che punta molto sulla qualità, negli arrangiamenti e nell’uso di certe sfumature timbriche. Vista la situazione attuale della musica italiana, vi rendete conto che state percorrendo la strada più difficile?

 

Più che percorrere una strada stiamo cercando di arrivare in cima a una montagna senza né sentiero né traccia. Avere la percezione di percorrere una strada difficile è già di per sé un punto di vista, un obiettivo che ti spinge a un traguardo. Al giorno d’oggi tutti fanno musica, tutti sono dei fantastici pittori, fotografi, ballerini, registi e scrittori. Siamo tutti sul web, presto ci sposteranno da Facebook a Twitter e noi andremo a fare gli artisti lì sopra, perché non sappiamo vivere senza i commenti, senza stare al centro dell’attenzione. 

 

 

Oggi l’artista è paragonabile a chi nel dopoguerra non aveva il pane e cercava di strapparlo ai forni con la tessera annonaria, con la differenza che il pane è stato sostituito con la necessità di apparire anche quando non si ha nulla da mostrare. Ho un grande pregiudizio verso la rete, ma devo assolutamente guarire da questa forma pregiudizievole, soprattutto perché la rete è l’unico mezzo che abbiamo a disposizione, e sputare nel piatto in cui mangi non va mai bene. Comunque, al di là dello sfogo, credo che la nostra visibilità stia crescendo e questo lo devo a te, alle persone che ci intervistano e scrivono le recensioni e alle persone che ci seguono durante i concerti. Colgo l’occasione per ringraziarti di avermi fatto queste domande. Siamo e rimarremo fiduciosi riguardo al futuro, anche se all’anteprima di “Ai caduti in bicicletta” ebbi la sfrontatezza di dire a un giornalista che il nostro obiettivo era quello di fare successo. Lui in poche parole mi fece capire che la mia affermazione fu simile a quella dell’illuso e del presuntuoso. Presi conoscenza del significato laterale della sua risposta solo due giorni dopo e mi misi a strillare, a contestare, ad arrossire di rabbia, ma era troppo tardi.

 

I due ep precedenti e quest’album si muovono, anche se con lievi differenze, su un canovaccio simile. Per il futuro avete in mente qualche sterzata?

 

Questa è una domanda molto difficile. A me piacerebbe fare un disco di filastrocche per bambini o imparare il francese e fare un disco con i testi in francese, ma tanto non farò né l’una né l’altra cosa. Questo è un disco nato dall’esperienza degli anni passati, che è consistita soprattutto nel dare alla canzone una struttura abbastanza regolare: strofa-ritornello-strofa. Durante la registrazione di “Dimore”, ep che precede “Ai caduti in bicicletta”, abbiamo lavorato con Roberto Vernetti, da cui abbiamo preso un’ottima forma mentis per costruire un brano.

Facendo una previsione di ciò che potrà essere il prossimo disco, direi che le canzoni potrebbero allontanarsi da quella forma, ormai condivisa, assodata e metabolizzata. Ma fare previsioni non è mai semplice, vedremo.

 

 

 

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