Luca Carboni
“Musiche ribelli” è un disco che potrebbe
sorprendere chi ti segue da anni, abituato a un Luca Carboni se non
propriamente in versione cantautoriale, per lo meno molto personale, sia per
quanto riguarda la tua idea di canzone, sia per la tua visione del mondo. Come
mai ti sei “impossessato” di queste dieci canzoni altrui?
Innanzitutto questo disco lo considero una
parentesi all'interno della mia scrittura personale, nella quale ho ripescato
queste dieci voci che mi erano famigliari. La realtà è che queste dieci canzoni
si erano impossessate di me già tanti anni fa. Nel senso che io sono il quarto
di cinque figli e avendo in casa un fratello e una sorella più grandi di me che
ascoltavano questi cantautori e i loro dischi quando io avevo undici-dodici
anni, le loro canzoni sono diventate voci che io sentivo come mie, che si
andavano ad aggiungere a quelle della mia famiglia in senso stretto. In quel
periodo stavo giù studiando musica e pianoforte – musica classica, quindi – e forse
l'aver avuto nelle orecchie anche queste voci cantautoriali mi ha spinto a
scrivere canzoni a mia volta, mi hanno spinto a coltivare una vocazione alla
scrittura. Più avanti, quando sono cresciuto, oltre che ad apprezzarne la
musica, ho cominciato ad analizzare i testi, per coglierne anche i messaggi più
profondi. Devo, però, aggiungere che non ho mai amato molto la dimensione delle
cover. Già quando attorno ai quattordici anni ho fondato la mia prima band,
spingevo sempre gli altri membri a impegnarsi per proporre musica che fosse
nostra, musica originale che fosse il frutto della nostra creatività. Ma oggi,
in questo particolare momento storico, ho pensato che potesse essere
interessante rimettere in circolo queste voci di autori che, nonostante siano stati
e siano molto famosi, non sempre sono ricordati. Sono canzoni che nemmeno
allora erano state molto adatte alla radio, perché non ne avevano i tempi,
perché erano più “difficili”, e sono canzoni che oggi non si sentono più tanto.
I dischi da cui ho tratto questi brani sono quelli che io vado ancora a
riascoltare adesso di tanto in tanto, e mi rendo conto di quanto siano ancora
validi e attuali. Oggi queste canzoni sono slegate dal tessuto socio-politico
degli anni settanta in cui sono nate, ma hanno dentro ancora dei messaggi che
possono stimolare la mia e la nostra riflessione sul mondo che viviamo. In
particolare, le canzoni che ho scelto, oltre a essere canzoni che mi piacciono
molto, sono canzoni che mi servivano per costruire un racconto che si sviluppa
in tutto il disco.
Tutte le canzoni di “Musiche ribelli” hanno dei testi molto profondi e impegnati, e
forse sembrano un po' lontane da quella che è la tua “immagine pubblica”,
quella di un Luca Carboni, se mi passi il termine, “giovanilistico”. Lo dico
tenendo in considerazione anche l'impatto commerciale dei tuoi dischi. Queste
canzoni sembrano cozzare con la tua immagine o mi sbaglio?
Può darsi. Però credo che questo disco, con
questa scelte di canzoni, faccia un po' capire perché nella mia discografia c'è
un album come “Persone silenziose”,
oppure certe canzoni come Inno nazionale, giusto per citarne una. E in
più mi sembra che facciano chiudere il cerchio, facendo vedere da dove sono
partito per percorrere la mia strada di autore. Perché è vero che sono stato
molto influenzato dal rock inglese degli anni appena successivi a quelli di
queste canzoni, però il mio obiettivo è sempre stato quello di mettere insieme
queste due influenze, il rock inglese e i cantautori, senza perdere una cosa
per l'altra. Ho cercato di non diventare mai troppo esterofilo e continuare a
mantenere sempre un piede in questa matrice italiana. Poi è vero che il mio
successo è arrivato da canzoni che, più che “giovanilistiche”, direi che
cercavano di uscire dal linguaggio dei cantautori. Succedeva perché in quel
momento lì credevo che non ci fosse più tanto bisogno di raccontare il sociale,
ma l'uomo e la persona. In qualche modo sentivo che bisognava stringere il
campo dal collettivo al privato. Però non posso dimenticare questa origine,
queste influenze e vorrei che anche chi mi segue, mi ascolta e mi viene a
vedere in concerto, capisse da dove viene la mia spinta a scrivere canzoni, o
almeno una parte di essa.
Te lo chiedevo proprio perché c'è stata una
parte della critica musicale italiana che non vedeva molto di buon occhio
questa tua voglia di allora di ribellarti a questa visione cantautoriale del
musicista italiano.
Certo, l'ho vissuta soprattutto nei primi anni
in cui ho potuto fare la mia musica. In alcune canzoni, addirittura, ho cercato
di prendere in giro i cantautori. Ma dopo trent'anni di musica mi rendo conto
di quanto loro mi abbiano insegnato e, soprattutto, quanto siano ancora
importanti.
Ma tu ti senti cantautore?
Io mi son sempre sentito uno che era un incrocio
tra un cantautore e una band, perché filosoficamente la mia storia musicale è
nata con una band. Però il punto di riferimento per la scrittura delle canzoni
erano e restano i cantautori e in particolare questi cantautori di cui ho
rifatto le canzoni in questo disco. In realtà, quello che manca è il disco in
cui faccio le mie versioni dei Clash,
dei Ramones e di altri di quegli
anni: così chiuderemmo definitivamente il cerchio!
E lo farai?
Non è escluso! Per adesso ho già molte idee per
il nuovo disco di inediti e sto lavorando su quello. Però se decidessi di
aprire un'altra parentesi fuori da me e dalla mia scrittura, l'unica altra
possibilità sarebbe questa del rock di quegli anni, che ho amato tanto quanto
ho amato i cantautori.
Come vivi questo strano binomio, di cui abbiamo
già un po' accennato, di queste canzoni che come dicevi tu non erano nemmeno
pensate come singoli come li intendiamo oggi e invece Luca Carboni, che è un
artista che ha avuto e ha tuttora anche dei riscontri commerciali importanti?
Innanzitutto devo dire che non è che io mi sono
limitato a rifare passivamente queste dieci canzoni: ho cercato di farle
diventare il più mie possibili, sebbene ci abbia lavorato con Riccardo Sinigallia, che è un altro
cantautore. A me sembra di esserci riuscito, nonostante, per esempio, Vincenzina
e la fabbrica fosse un pezzo quasi jazz nella sua versione originale,
pensata quasi solo come colonna sonora di un film di Monicelli, “Romanzo popolare”. Mi sembra
di essere riuscito a farla diventare una canzone, non dico radiofonica al cento
per cento, ma molto vicina al mio mondo musicale. E così mi pare che si possa
dire anche delle altre canzoni.
Come sarebbe stato il disco senza Riccardo
Sinigallia?
Lavorare con Riccardo è stata un'esperienza
molto bella. L'ho conosciuto perché lo stimo molto come cantautore e mi erano
piaciuti molto i suoi dischi. Sono stato anche a sentirlo dal vivo. Riccardo ha
però anche un'importante esperienza come produttore per diverse realtà romane
importanti, come i Tiromancino, Max Gazzé e Niccolò Fabi. Mettendo insieme la sua bravura come produttore e la
sua sensibilità di cantautore, mi è sembrata la persona giusta per questo
viaggio di analisi e reinterpretazione di canzoni che, comunque, ama anche lui.
Per certi versi, Riccardo è stato praticamente un secondo autore in questo
progetto di “Musiche ribelli”.
Nella nota stampa riguardo a La casa di Hilde
di De Gregori a un certo punto citi John Fante. Ci sono altri scrittori che
frequenti e che ti ispirano?
Io amo molto leggere, in modo istintivo e
randagio, pescando un po' di qua e di là. Non sono certo un lettore che si
attenga a logiche precise per la scelta di quello che legge, però mi piacciono
molto i romanzi. Oltre a Fante amo
tanti altri autori, come per esempio la letteratura russa di fine ottocento,
con quei romanzi anche molto pesanti. I “mattoni” mi piacciono molto! Un altro
scrittore che mi piace molto è Simenon,
non solo per i romanzi gialli che hanno per protagonista il commissario
Maigret, ma soprattutto per i suoi romanzi noir. Insomma, diciamo che ho
una biblioteca piuttosto variegata e che la alimento basandomi più che altro
sul mio gusto, senza schemi.
Tra gli autori che hai scelto per questo disco
ci sono due bolognesi...
In quegli anni la musica dei cantautori si
divideva in quelle che venivano chiamate le scuole. Per esempio c'era la scuola
genovese, che io non ho toccato in “Musiche
ribelli”. E devo dire che mi dispiace. Con Riccardo avevamo provato a
mettere a punto una canzone di Fabrizio
De André. L'avevamo anche registrata e avrebbe dovuto essere l'undicesimo
episodio del disco. Però non mi è piaciuto com'è venuta e allora abbiamo deciso
di non inserirla nel disco. Ma è stata l'unica scuola tagliata fuori da questo
nostro viaggio, perché oltre a Bologna con Guccini,
Dalla e Lolli, sono passato per Roma con De Gregori. Ma ci sarebbe stato bene anche Antonello Venditti. C'era poi la scuola milanese di Eugenio Finardi, Roberto Vecchioni e tutti gli altri grandi cantautori di quella
città. Ecco, in quegli anni a essere bolognese ti sentivi parte anche di
qualcosa di importante nel panorama culturale e musicale italiano.
Ma com'è cambiata rispetto alla fine degli anni settanta
e l'inizio degli anni ottanta Bologna secondo te? Dal punto di vista di uno che
c'era...
Sono cambiate tante cose, però io non sono un
nostalgico. Credo che la grande ricchezza di Bologna sia sempre stata quella di
avere tanta gente che viene da fuori: gli studenti grazie all'Università, ma
non solo. Per questo credo che nonostante qualunque legge, Bologna rimanga una
città viva, perché non ha solo una popolazione che si può sedere su se stessa,
ma è sempre stimolata dalla gioventù che
rappresenta tutta l'Italia e non solo i figli della città.