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Luca Gemma

Rieducarsi alla bellezza

A distanza di qualche mese dall’uscita del suo Folkadelic, incontriamo un Luca Gemma raggiante: il suo ultimo album è il risultato di una ricerca musicale e personale di corporeità, immediatezza e vitalità. E soprattutto bellezza, lontano dall’abbruttimento di un mondo ormai votato alla volgarità e all’ipocrisia. E questa sua ricerca sembra aver conquistato non solo la critica: anche il pubblico sembra finalmente accorgersi di un artista la cui lunga militanza musicale è sempre riuscita a riservare sorprese.


È già passato qualche mese dall’uscita del disco. Contento del risultato e dell’accoglienza? Qualche ripensamento, qualche brano scartato che riutilizzeresti?

Sono molto contento dell’accoglienza. La critica che è stata generosa e ha capito com’è questo disco, anche rispetto ai precedenti. Vedo anche con i concerti, con la gente che compra il disco e attraverso i social network, che c’è un ottimo feedback, anche a livello dei contenuti. Mi ritengo molto soddisfatto, anche se, ovviamente, per chi come me si muove con un’etichetta piccolina, il lavoro è ancora all’inizio - al di là del lavoro fatto dall’ufficio stampa, con il video eccetera. C’è ancora da promuovere, usiamo mezzi medi o medio-piccoli e abbiamo bisogno di tempo. Ora c’è il live, quest’estate e ancora un giro autunnale, anche perché i dischi li faccio una volta ogni due anni e mezzo o tre, per cui si porta in là.

Rispetto ai ripensamenti, sono ancora molto soddisfatto del risultato artistico del disco. Mi piace ancora, anche se ovviamente l’ho sentito un milione di volte da quando abbiamo iniziato a registrare e non passo più le giornate a sentirlo. Sono tutt’ora convinto delle scelte fatte insieme al produttore Ray Tarantino: è rimasto fuori qualche brano che meritava di stare dentro e quindi meriterà di star dentro a qualcos’altro, però non in sostituzione di quello che c’è. Quello che c’è è molto ponderato e funziona bene così com’è. E siccome per scelta sono per album non troppo lunghi - anche da ascoltatore ho preferenza per cose asciutte -, quello che è rimasto fuori non avrebbe aggiunto nulla di più al disco, mi sembra abbia equilibrato.


In questo disco c’è stato un cambio di produzione – con la collaborazione del già citato Ray Tarantino - , e anche tu sei andato affinando le tue capacità vocali, che si accompagnano al fisiologico ispessimento timbrico. Dove ti ha portato la tua musica nei tre anni passati da Tecniche di illuminazione?

Quando ho iniziato a scrivere i pezzi, sapevo solo in parte dove volevo andare a parare, ma avevo alcune linee guida importanti per me stesso. Innanzi tutto, usando la forma canzone, si spera sempre di scrivere canzoni sempre migliori delle precedenti – e questo è un po’ lo sforzo centrale. Volevo concentrarmi molto sull’uso della voce, e scrivere canzoni che suonassero meglio cantate da me: posso scrivere canzoni che cantate da altri assumono un significato diverso o possono suonare anche meglio, ma nel mio caso volevo che la voce uscisse al meglio, proprio a partire dalla scrittura. Quindi, una forte attenzione al suono delle parole, a cui dedico sempre un sacco di tempo e d’attenzione e che la voce che si esprimesse al meglio, e questa cosa mi ha fatto scartare molte canzoni che in sé erano scritte bene, ma che non aggiungevano questa caratteristiche.

Volevo uscisse un disco un po’ più fisico, un po’ più corporeo degli altri, meno “cantautorale” in questo senso – ovviamente, tale rimango e la forma si avvicina sempre a quella cantautorale. Insomma un disco più pieno di groove, con cose un po’ ballabili, in cui il corpo si può muovere indipendentemente dal significato delle parole. Tutto questo fa parte delle mie passioni musicali: il soul, il rhythm’n’blues, un rock fatto di riff ballabili come quello dei Rolling Stones o dei Beatles, o come fa da sempre anche Paul Weller, un “bianco viso pallido” come me che attinge al northern soul. Poi tutto questo si è accentuato con il lavoro con Ray Tarantino, spingendo in questa direzione fin dalla scelta dei suoni e dei musicisti.


Ci si è soffermati sui parallelismi tra l’immagine di copertina di Folkadelic e quelli di Anima Latina e Amore e non amore di Battisti. E la parola “folkadelic” sembra proprio quella giusta, a livello di immagine – che forse funziona meglio dei casi precedenti -, ma anche a livello di “sapore” del disco. Ci vuoi spiegare cosa c’è dietro?

Intanto, proprio per questo distanziarmi da un’idea testuale che si dà del disco attraverso il titolo. Spesso, anche nei miei album precedenti, si sceglie un titolo che “filosoficamente” racchiude il concetto anche testuale del disco. Questa volta, volevo cercare di esprimere un concetto musicale, che anche il titolo comunicasse un’idea della musica che ci si trova dentro. Quindi il titolo è venuto alla fine – come sempre -, proprio ascoltando molto il disco dal punto di vista musicale, con l’idea di sottolineare le due strade principali che erano state battute: quella del folk rock americano, del cantautore acustico per intenderci, e queste altre incursioni un po’ più spiazzanti, sognanti e rumoristiche che sono parte della crasi “-adelic”. Ovviamente mi ricordavo anche dei Funkadelic di George Clinton, una forte fonte d’ispirazione per questa unione.

Ci sono arrivato scrivendone settecento, ma quando dicevo Folkadelic, anche nel feedback o parlando con Ray, mi sembrava che incuriosisse al punto giusto, che facesse pensare a qualcosa di musicale e a vedere cosa c’era dentro. Da lì mi sono divertito su ogni brano a scrivere i generi, un po’ come per gli spartiti.

Dopo il titolo, è venuta anche l’idea della copertina, che è ispirata a Anima Latina di Battisti – che ho in vinile, con questa foto gigantesca di bambini un po’ zingari nei prati. Mi trovavo a casa di miei, nella campagna fuori Roma, e siccome mio padre è un bravo fotografo, ne ho approfittato: c’era mio figlio che giocava con suo cugino, abbiamo visto che l’impostazione funzionava e che esprimeva un concetto unitario. Anche qui, non parto mai da un concept per un album, vedo cosa viene e cerco di capire dove sono andato.


Un a parte: nel booklet ci sono delle indicazioni di “genere” per ogni brano. È un trappolone per noi critici pigri, che tendiamo a etichettare facilmente...?

È partito come idea di divertimento, come quando si aprono gli spartiti con “Begin”, “Tempo in 6/8”, “Walzer” eccetera. Poi mi piaceva che ogni brano fosse identificato, visto che nella critica c’è questa necessità di catalogare sempre tutto. E non solo nella critica, anche nei pochi negozi di dischi rimasti: se non riescono a etichettarti bene, non sanno neanche su che scaffale metterti. E va bene così, però a volte si è anche un po’ prigionieri: è ovvio che è un mezzo di comunicazione, perché anche un critico ha necessità di mettere dei punti fermi per far capire di che parla. Però c’è anche questo divertimento che è anche un po’ provocazione: a questo punto il genere lo indico io, così vedete se siete d’accordo oppure no, però per me è quella cosa lì. (Risate)


Sempre mantenendo il parallelo con Battisti – che immagino, come per praticamente tutti i cantautori italiani, un imprescindibile punto di riferimento, soprattutto melodico - , il disco ha veramente un sapore internazionale, ma comunque riconoscibilmente italiano, senza ricorrere a clichè e scopiazzature dall’estero. C’è una ricetta, anche considerando questa mescolanza con una finalità viscerale?

L’idea di cercare il suono viscerale è assolutamente primaria, anche usando metodi di registrazione che facilitassero questa cosa. Abbiamo registrato in un loft attrezzato per suonare, e non in uno studio, che solitamente è molto più freddo. Era una cosa molto casalinga e intima: quando ci sentivamo, registravamo; quando non era il momento, cercavamo cose musicali che c’interessavano su YouTube, e cercavamo proprio questo suono un po’ grezzo e d’impatto. Abbiamo ripreso, Ray per primo, i parametri di produzione di Daniel Lanois, un produttore canadese che negli anni 90 ha infilato uno via l’altro dei dischi impressionanti. Oltre ai suoi, che sono bellissimi ma un po’ di nicchia, ha prodotto Bob Dylan, U2, Neville Brothers, tutti nel giro di due anni, tutti con dei suoni micidiali, proprio quel tipo di calore e verità, mista a un’attenzione alla qualità e alla potenza del suono. Rispetto a Battisti – che in Italia per il pop è come la coppia Lennon-McCartney -, mi piacciono molto quei dischi più sperimentali degli anni 70, quando lui sentiva cose diverse, ed era molto bravo ad appropriarsi e a lavorare sul suono dei dischi che gli piacevano.


Avete registrato in analogico o in digitale?

No, in fase di registrazione abbiamo usato tutto digitale – anche perché non potevamo permetterci l’attrezzatura analogica. Dopo i mix, in fase di masterizzazione, c’è stato un passaggio in analogico: ai Massive Arts Studio, c’è un passaggio in analogico che serve a scaldare prima di tornare al digitale. Per il resto abbiamo registrato su un computer portatile, con poche cose ma buone. Però, ad esempio, i suoni di chitarra elettrica di Ray vengono dagli amplificatori Magneto, che hanno un suono spaventoso: sono fatti a mano da un nostro amico, costruite con materiali scelti, e valorizzano la Telecaster di Ray o la sua Martin acustica.


Sempre a proposito di internazionalità, utilizzi, credo per la prima volta, delle intere frasi in inglese in Nudi, cosa che ti appartiene poco. La cosa incuriosisce soprattutto a livello puramente linguistico, visto che ti sei sempre distinto – come molti della tua generazione musicale – per un utilizzo praticamente chirurgico del testo che diventa tutt’uno con “l’architettura” prettamente musicale dei brani.

In parte è vero che mi è estranea, perché non l’avevo mai fatto prima. È stata una scelta dettata dall’istinto: il ritornello si ripete sempre sulla stessa melodia, e sentivo che nella parte italiana il significato era compiuto. E, soprattutto, il ritornello è nato con quella frase in inglese, e non sono più riuscito a rimpiazzarlo con qualcosa di altrettanto efficace. A quel punto, mi sono detto: “eh, vorrà dire che per stavolta...”. Io poi ho linee guida, ma non ho pregiudizi: se ho la sensazione che sono andato da un’altra parte, ma mi soddisfa, va bene. In futuro, mi piacerebbe metterci qualcosa anche in altre lingue, come il tedesco.


L’educazione sentimentale. Ci sono passati tutti, Flaubert, Woody Allen negli anni 80 e 90, anche il tuo collega Paolo Benvegnù di recente. È una riflessione a tutto tondo, o ti riferisci specificamente all’amore? Nel disco mi sembra che tu voglia ritrarre quasi fotograficamente – con immagini molto vivide - molte “fasi” riconducibili a questa tematica di fondo dell’ “educazione sentimentale”.

Come hai detto, il titolo è rubato a Flaubert, dove però l’educazione sentimentale è proprio quella amorosa, con questa presa di coscienza finale in cui il protagonista rimpiange la sua adolescenza come momento migliore della vita, in cui tutto poteva essere bello, con quello “spleen” tipico del periodo. Ho scelto quel titolo per la mia mania delle parole che suonano, vedevo che funzionava. In realtà, il testo è più allargato rispetto alla semplice educazione sentimentale amorosa, pure importante, ma si riferisce a più sentimenti: verso la vita, verso l’amore, verso la bellezza, la gioia, la grazia. È un’esigenza anche ottimistica di cercare ancora il bello in mezzo alla merda e al brutto che ci circonda. Questa è la dicotomia che vivo in continuazione, cose che già vivevo – e mi autocito – in un pezzo del primo disco in cui dicevo «la vita sì mi piace / ma il mondo molto meno». Il concetto è sempre quello: mi piace tantissimo vivere – per questo non abbandonerei mai anzitempo la battaglia suicidandomi, come molti artisti hanno fatto -, ma soffro molto delle cose brutte che sento che vivo, sia a livello che spirituale.

Siccome soprattutto l’Italia è piombata negli ultimi vent’anni in uno sfacelo di brutture, che per altri sono diventate valori positivi – e la cosa mi fa sentire ancora più distante, perché sembra che valori assodati possano essere stracciati giorno per giorno, e cose che sono sempre stati disvalori diventino valori. E questo mi fa sentire estraneo al Paese in cui vivo, e non è una cosa che accetto facilmente, anzi mi procura anche fastidi e sofferenze. Ma siccome vedo nella musica anche qualcosa di curativo, sia come ascoltatore che come autore, tento di cercare il raggio di sole anche dove non c’è. Bisogna rieducarsi alla bellezza. E per dirla chiaramente anche in termini politici – e la politica influisce dalla mattina alla sera nella vita di ognuno -, quando ci riprenderemo da questo berlusconismo spinto, penso che riusciremo a rieducarci alla bellezza e non alla volgarità imperante.


Ho notato meno citazionismo, ma soprattutto meno “cinema” in questo disco (Come Rocco e i suoi fratelli e Cinema d’inverno). Hai compensato con altre fascinazioni da altri media?

No, credo che sia il disco con meno citazioni. Nel primo disco c’erano delle citazioni di Bukowski e Baudelaire proprio testuali; il secondo è molto cinematografico, era impostato sull’illuminazione cinematografica e spirituale, e vedevo ogni pezzo come un micro-documentario in cui certi personaggi agivano.

Questo disco, al di là del titolo de L’educazione sentimentale, non ci sono cose prese di sana pianta da cinema e letteratura, che sono le cose che da fruitore frequento di più. Però è venuto così, anche le altre volte erano venute spontaneamente: forse per questa maggiore ricerca viscerale e spontanea, è venuto naturale non inserirne.


Mi incuriosisce molto Superstelle. C’è il sottotesto conflitto interiore tra ragione e azione, cielo e terra – tipo L’animale di Battiato, per rendere l’idea. Ti ritrovi (o ti sei ritrovato prima “dell’educazione”) in questo contrasto? C’è una via d’uscita, anche amorosa?

Quel pezzo non prevede la via d’uscita amorosa, perché è più una ricerca di equilibrio tra istinto violento e pratica della pazienza, tra atteggiamento viscerale e la ragione che ti porta razionalmente a controllare questi sentimenti. Un po’ come in Un miliardo, con il desiderio della rapina del cantante - un po’ metafora ma anche un po’ verità -, cosa che non farò mai ovviamente, perché ho interiorizzato che non è una bella cosa, ma non nego che l’istinto mi ci porterebbe talvolta. Superstelle è proprio il cercare il centro tra ira e pazienza, e in quello la citazione de L’animale di Battiato è azzeccata. Tutta la sua produzione è la ricerca attraverso la spiritualità di cacciar via la parte animale, ne ha un giudizio totalmente negativo, e cerca sempre questa aspirazione celeste. Io non sono così celeste, ma credo che ci sia una parte “animalesca” che debba uscire, certo senza voler fare del male agli altri – non mi interessa la violenza, e il limite è proprio nel rispetto degli altri. Però ne riconosco la presenza e il valore. Lì è proprio: “Che faccio? Visto il contesto imparo anch’io a menare le mani?”.


Il tempo è una costante fondamentale in questo lavoro, e c’è una visione un po’ antagonista: in Killer è un’assassino alle calcagna, in Animantiproiettile è quasi il nemico da cui difendersi, in Che ti auguri che “sia infinito” e “faccia piano a farti male”. Non credi che parte dell’educazione sentimentale sia venire a patti con questa costante?

Ma ci vengo a patti, e me ne accorgo continuamente che ci devo venire a patti. Vivendo e fermandone gli attimi scrivendo le canzoni, ho questa esigenza di fermare il momento fuggente che ha la ragion d’essere proprio nel suo essere fuggente. La felicità ha il suo senso principale nel suo essere fatta di momenti: se fosse eterna, probabilmente si chiamerebbe in un altro modo. E forse per chi crede in qualche altra cosa, si chiama in un altro modo. Aspiro però al non perdermi quei momenti, e a volte non è semplice, perché magari passano e non sei abbastanza ricettivo per accorgertene. Questa è la parte “assassina” del tempo, quando il carpe diem va a farsi fottere perché non sei ricettivo. Io combatto contro quello: è per quello che dico che il killer, oltre il tempo, sono io stesso, perché sono autodistruttivo se non mi accorgo di quelle cose e le lascio passare senza coglierle. Vorrei essere sempre pronto e accorgermi del bello che ho attorno, anche se breve. Ci vengo a patti sì, però ho anche questo lato malinconico, non sono però nostalgico né rimpianti, non è la molla che mi spinge nemmeno quando scrivo, ma a volte c’è quel retrogusto amaro che ti lascia una cosa fuggita via troppo in fretta: e questo vale anche per lo sguardo del flaneur, quegli incontri casuali che non durano niente e che ti lasciano un segno importante emotivamente. Quando incroci degli occhi che ti significano qualcosa sapendo che non li vedrai mai più, e quella è una sensazione di attimo che se ne va, e ti lascia la sensazione di qualcosa di perso.


Nel disco ci sono anche tratti piuttosto meta-musicali, parlo di Un miliardo, ma soprattutto dl paradosso «ma il cantante non lo sa / che ogni cosa d’amore salva il mondo». Volevo capire se dietro a tutto questo c’è una sorta di auto-realizzazione che il mestiere di cantautore è “un po’ cialtrone” o solo dell’ironia sulle limitazioni di una figura che è essenzialmente umana.

No, quella canzone è molto specifica. Dice che ogni cosa d’amore e ogni storia d’amore tra adulti consenzienti vale la pena di essere vissuta, e vale la pena di non essere nascosta. E quindi va riferito all’amore eterosessuale e gay. L’amore è amore, e non vedo perché nasconderlo. Quella è una provocazione proprio diretta ai cantanti italiani. Ci sono diversi cantanti gay che non hanno mai scritto una canzone in cui affermano che “il mio amore vale quello di qualunque altro e non rompetemi le scatole”. Non voglio mettendomi su nessun piedistallo per insegnare quanto bisogna essere sinceri nella propria professione – ognuno ha il sacrosanto diritto di dire o celare quello che gli pare -, ma mi colpisce che nelle canzoni, un mestiere fatta di sincerità oltre che di mestiere, ci sia questa ipocrisia per cui la vera verità non si dice perché si ha paura di non piacere a tutti. In altri paesi non è più in tabù, perché le condizioni culturali e sociali sono diverse e sappiamo anche perché: la cultura cattolica, di cui siamo impregnati. Una volta però l’artista aveva questo ruolo di spingere le cose un po’ più in là, grazie alla capacità del poeta di interpretare la realtà, che è pari a quella dei sociologi, ma anche di spingerla più in là: l’arte può spingere più in là il limite di una società, per farla diventare più adulta. Perché in Italia tutti rinunciano a questo ruolo? Le condizioni non sono facili, e ci mancherebbe altro, ma si rinuncia per ipocrisia. Si dice “voglio andare a cantare davanti al papa, se canto questa cosa non posso farlo”, per un’idea di riconoscimento. Già De Andrè, ne La domenica delle salme diceva: «voi che avete cantato nei palastilisti e dai padri Maristi / voi avete voci potenti lingue allenate a battere il tamburo / voi avevate voci potenti adatte per il vaffanculo». È esattamente questo. Io c’ho pensato dopo, ma c’era già questa idea di piacere a tutti, un po’ democristianamente. Se ci rinunciano gli artisti, chi non ha quel riconoscimento sociale cosa deve fare in una società intollerante e omofobica come sta diventando la nostra?


Siamo notoriamente in una situazione difficile nello scenario musicale, dal mercato allo scenario degli emergenti. Eppure, ci sono ancora coraggiosi come te che prendono e fanno dischi. Come vedi la situazione? E come ti rapporti con il pubblico in termini di consumo – vedi il disco come l’unica speranza o vorresti muoverti su altre piattaforme e media – come l’esperimento del disco solo digitale con l’Istituto Barlumen?

Concettualmente io sono legato all’idea di album, rispetto alle canzoni slegate fra loro. Ovviamente so che il consumo va in quella direzione, ed è prevedibile che sarà così sempre di più, come è già in parte. Sono cresciuto ascoltando gli album, e mi piace ancora adesso – sono un’acquirente di album, non di canzoni su iTunes -, perché ritengo che nell’album ci sia qualcosa di artistico riferito al periodo dell’artista, e voglio vedere cosa riesce a comunicarmi anche a livello emozionale nei quaranta minuti del suo svolgimento.

Sul supporto è un’altra questione: già adesso stamparlo materialmente, per quel po’ che si vede, è quasi un biglietto da visita da dare agli addetti ai lavori, per suonare dal vivo, eccetera. Ha poca diffusione, i negozi si riducono costantemente. Per contro, l’Italia però non è l’Inghilterra o gli Stati Uniti in cui le piattaforme digitali hanno preso una bella fetta di mercato: in Italia è ancora bassissimo il download legale, e questo crea un problema a chi produce dischi. Non è solo una questione di principio, ma anche materiale: se non servirà più, non si farà più “fisico”, ma io continuerò come molti altri a fare album comunque.


Altri progetti coi Barlumen? Altri dischi dopo UkeIt – L’ukulele italiano?

Al momento no. Il progetto dell’ukulele teoricamente è un volume 1, ma Gaetano Cappa e Marco Drago sono pieni di idee e le realizzano, e questo li porta a tornare raramente su cose già fatte, per come li conosco, per cui non ci giurerei su un volume 2. Anche se Gaetano è un grandissimo appassionato di ukulele, li colleziona, lo usa in tutti i suoi progetti, ma da lì a un volume 2 mi sembra dura.


Torno all’Educazione Sentimentale, il cui video – nella sua semplicità – è particolarmente ipnotico e sensuale. Com’è stata l’esperienza – e quanto è stato importante l’apporto di Patrizia Laquidara?

L’idea è di Alessandra Pescetta, una regista molto brava con cui ho lavorato già dai tempi dei Rosso Maltese, che lavora molto nella video arte. Lei ha avuto l’idea di corpi fluttuanti in assenza di gravità. Io avevo in mente cose molto semplici, che non richiedessero grandi mezzi o produzioni, e cose di teatro danza tipo Pina Bausch, in cui i corpi si muovono in un certo modo. Da lì l’idea di chiedere a Patrizia se le andava di mettersi in gioco: lei ha esperienze di teatro danza, è bella ed è armonica nel movimento. Ha accettato, e la sua presenza nobilita il risultato.


Domanda oziosa: farete una reunion dei RossoMaltese, tipo Litfiba?

(Risate) No, direi di no. Bisogna anche essere obiettivi: i Litfiba fanno una reunion con quattro sold out nei palasport, e se facessero così i Rosso Maltese il risultato sarebbe comunque molto diverso, per cui non avrebbe molto senso.

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