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Massimo Volume
Prima di tutto non posso che dirvi bentornati. In molti, compreso il
sottoscritto, sentivano la mancanza dei Massimo Volume. Com’è avete deciso di
riprendere a suonare insieme? Ritornare
Pur essendosi sciolti nel 2002, i Massimo
Volume non sono mai finiti nel dimenticatoio, anzi. Col passare degli anni,
e seppur in modo piuttosto sotterraneo, hanno mantenuto un seguito che è andato
aumentando man mano che le nuove generazioni hanno avuto la possibilità di
accedere alla loro musica. In questo senso il nuovo tour che la band bolognese
intraprenderà a partire dalla fine di ottobre, a sei anni dal rompete le righe,
è la giusta risposta ad un’affezione che non cedendo al logorio del tempo
testimonia tutta la durevolezza delle canzoni di Emidio Clementi e compagni. Proprio con Emidio (che è anche
scrittore, con quattro romanzi pubblicati e uno in arrivo nei primi mesi del
2009) cerchiamo di indagare i perché di tale longevità, chiedendogli pure di
commentare alcuni dei testi più significativi di uno dei gruppi seminali del
rock anni novanta.
Grazie! Tutto è nato da una
telefonata arrivata dagli organizzatori del Traffic Festival di Torino nei mesi
scorsi, in cui ci chiedevano se avevamo voglia di musicare il film muto “La
caduta della casa degli Usher” e di fare cinquanta minuti dal vivo con Patti Smith e gli Afterhours durante l’ultima serata del festival. Abbiamo accettato,
soprattutto per l’esperienza del film che ci dava la possibilità di comporre
musica nuova al di là dei cinquanta minuti di esibizione dal vivo che sarebbero
stati comunque un po’ celebrativi. L’atteggiamento era però del tipo “facciamo
questa cosa poi si vedrà…”. Poi la musicazione della pellicola è andata bene e
anche il live, così piano piano si è fatta strada l’idea di continuare.
Dunque riprendete da dove avevate terminato. Quattro dischi dal 1993 al
2002, che riascoltati oggi non sono invecchiati per niente male. A te è
capitato di riprenderli? Come li vedi?
Sì, li ho ascoltati alcune volte.
Anche se, come ti dirà un qualsiasi musicista, si torna poco sulle cose già
fatte perché col senno di poi si trovano sempre mille difetti e soprattutto è più
giusto ascoltare le cose degli altri che le proprie. Però li ho sentiti, anche
solo per preparare la prima data al Traffic, e devo dire che mi trovo piuttosto
bene con tutti. C’è stato un periodo, risalente a “Club Privè” ma anche prima,
che facevo fatica ad ascoltare “Stanze” perché lo trovavo un lavoro troppo
urlato, lontano dal nostro percorso, con la stessa tensione che si trova anche
nei dischi successivi ma non con la stessa rabbia che lì è molto forte. Poi
l’ho sentito ultimamente e forse il distacco maggiore da quel periodo della mia
vita in cui lo componemmo mi ha permesso di ricominciare ad apprezzarlo come
tutti gli altri. Naturalmente all’interno di ogni singolo disco cambierei mille
cose ma questa è una cosa tipica di chi fa musica a partire da quando il disco
lo si sta proprio scrivendo: non ci si fermerebbe mai e il rischio è quello di
cadere in una sorta di paranoia che a volte sfiora proprio la malattia mentale.
Invece bisogna avere la forza di chiudere per distaccarsi da quello che si è
fatto e capire cosa sia bello e cosa no, per poi migliorare nei lavori
successivi.
I vostri dischi però sono stati ascoltati parecchio anche dopo che vi
siete sciolti. Girando tra forum blog e web-zine si capisce subito come i
Massimo Volume non siano stati dimenticati e, anzi, siano stati scoperti anche da
chi era molto giovane quando voi eravate in attività.
Non frequento moltissimo quel
mondo però lo so, perché girando mi capita di incontrare persone che mi dicono
la stessa cosa che mi stai dicendo tu e che mi stupisce molto. Spesso incontro
ragazzi che hanno meno di venticinque anni e mi dicono “Ero troppo giovane per
venire ai concerti quando li facevate, sarebbe bellissimo vedervi oggi dal
vivo!”, una cosa che mi fa molto piacere perché si vede che siamo riusciti a
parlare ad una generazione diversa dalla nostra. Non è facilissimo.
Ti sei dato anche una spiegazione a questa cosa?
Non vorrei apparire presuntuoso
ma credo che il motivo sia da cercare nei temi che abbiamo trattato, tutti
accomunati da una certa universalità capace di andare al di là del momento
storico contingente. Poi penso che abbia giocato a nostro favore anche il non
aver mai parlato di politica. Di solito i temi politici avvizziscono
velocemente, quando l’attualità diventa passato. Credo che sia una delle cose
più belle dell’arte quella di riuscire a parlare al di là del proprio tempo. Se
penso a qualche artista in cui mi riconosco profondamente ti dico Bob Dylan, in particolare quello del
primo periodo elettrico, quando ero bambino. Anche io quindi ho trovato
qualcosa che mi fosse molto vicino in artisti piuttosto lontani nel tempo.
Nei testi che hai scritto ti sei esposto in modo molto diretto. Forse
anche questo è stato determinante per la vostra longevità…
E’ possibile. Sicuramente
l’essere diretto è una cosa che ho sempre cercato. Quando ci formammo nei primi
anni novanta percepivo, come ascoltatore, una specie di pudore eccessivo nei
testi delle canzoni italiane, dove tutto è sempre un po’ sublimato o traslato.
Invece io ho cercato di andare nella direzione opposta, prendendo spunto da
autori come Jim Carroll o da certa
poesia americana, che era sicuramente a viscere più aperte. Questo non
significa che nei miei testi non ci fosse una parte di finzione, ma è una
finzione che io ho cercato di condurre il più possibile alla vita reale, anche
attraverso alcuni stratagemmi come citare le date di quando avvengono i fatti
che racconto (come ne La notte dell’11
ottobre) o i nomi dei protagonisti. Magari quello che racconto non è
avvenuto proprio l’11 ottobre ma citare una data è un espediente letterario che
rafforza il realismo del testo. Oggi sono molto meno legato a strategie del
genere ma all’epoca ci tenevo molto che venisse fuori la realtà così com’era.
Un’altra cosa determinante credo che sia l’aver captato alcuni
sentimenti dominanti, magari generazionali ma dominanti, che ancora oggi sono
molto vivi. Il tempo scorre lungo i bordi
ha dentro di sé una sensazione di assenza di futuro e di prospettive che è il
disagio principale dei venti-venticinquenni di oggi: «Siamo io e te appoggiati
su queste sedie / io e te su queste sedie / ad aspettare / Poi comincia la
polvere».
I primi Massimo Volume si
nutrivano molto di disagio, è vero. Disagio è la parola che in qualche modo
segna la giovinezza, al di là dei grandi picchi di entusiasmo o delle
depressioni profonde tipiche di quel periodo. E’ una sensazione che trovo anche
nei giovani di oggi, che non sanno dove andare e non trovano nemmeno un posto
nella realtà. Anche un brano come Ravenna
esprime questa cosa. Non voglio fare il saggio della situazione, però poi
questa cosa col tempo si affievolisce, si arriva a patti con l’esistenza un po’
di più e si trova un posto, magari anche solo un angolino o una grande
terrazza, cosa che a vent’anni è decisamente più difficile.
Anche Da qui descrive una
realtà molto condivisa. Sembra il paese dove abito io ma anche tanti altri
paesi che si possono incontrare facilmente. E’ la provincia, la provincia
italiana.
(ride, ndr) Questa è una cosa che mi hanno detto in tanti, e appunto per
paesi geograficamente distanti tra loro. In realtà il paese che descrivo è
Calderara di Reno. Quando stavo scrivendo questo testo mi rendevo conto che
potesse avere una valenza un po’ più ampia, nello specifico però è il posto
dove ho fatto il servizio civile e dove poi sono rimasto a lavorare per qualche
tempo. E’ uno di quei classici posti in cui c’è una sola strada con le case ai
lati e poi più nulla. Un luogo da bassa pianura e più in generale da provincia.
Non solo quella italiana, che non credo sia tra le peggiori in Europa, anzi, la
provincia inglese ad esempio è molto più difficile e non è un caso che i
giovani si ammazzino di alcool più che da noi. E’ la provincia come luogo, a
cui tutta la cultura italiana deve molto. E pure io gli devo molto, anche se
continuo a preferire le città ai paesi.
Ma che distanza avevi con i fatti della tua vita raccontati nelle canzoni?
E soprattutto: che reazione avevano le persone che si vedevano direttamente
citate nei testi? Alcune volte sembra che dici loro cose che non sanno, come ad
esempio in Ronald, Tomas e io, dove parli
di tua madre dicendole delle cose ben precise…
In generale avere una certa
prospettiva sulle cose che scrivo mi aiuta, anche oggi. Quindi scrivo di cose
appartenute al passato. Ma è anche capitato che alcune cose le scrivessi mentre
stavano accadendo, in simultanea. Le persone che sono citate nei miei testi di
solito la prendono abbastanza bene. Ho avuto un po’ di paura per la reazione di
mia madre non tanto sul pezzo che citi ma per “L’ultimo dio”, che è un libro
che parla molto della famiglia e di tutto il non detto che spesso una famiglia
si porta dietro. Quando parlo a lei di mio padre e le chiedo perché venne
licenziato dal suo posto in banca e perché questa cosa me l’ha sempre taciuta
ho temuto per la sua reazione, ma in realtà lei ha preso quelle frasi per un
espediente letterario e non mi ha mai risposto. Altre volte invece mi sono successi
dei piccoli episodi in cui mi sono ritrovato in imbarazzo perché pensavo di
avere colpa nel mettere in piazza delle storie e di tirare in ballo delle
persone che non avevano la possibilità di rispondermi alla stessa maniera, non
possedendo loro l’arma della canzone e la possibilità di esibirsi in giro. In
questi casi ho chiesto scusa ma alla fine non avrei potuto fare altrimenti,
perché uno scrittore fa quello: racconta. Certo, un bravo scrittore riesce
meglio ad insabbiare le cose…
Dipende. Uno come Hemingway esponeva un sacco di fatti suoi.
E’ vero, però se penso a Philip Roth è vero anche il contrario.
Ogni suo libro è scritto in prima persona e sono talmente tante le cose che gli
accadono che pare abbia vissuto dieci vite differenti. In questo caso credo che
funzioni molto la capacità di insabbiamento dell’immaginazione. Uno scrittore
come lui è tanto attaccato alla realtà che paradossalmente diventa un
visionario, un visionario della realtà. Io questa capacità non ce l’ho, ho
bisogno di avere il vissuto accanto a me mentre scrivo, mi dà più sicurezza. Eliot dice che una persona quando
scrive «apre porte che non sono mai state aperte»: è una cosa che mi affascina
molto ma non so se sarei capace di metterla in pratica.
La domanda sulle influenze letterarie ti viene fatta sempre e qualche
nome l’hai già citato. Io volevo sapere invece se la poesia, proprio come
genere letterario, fino ad oggi ti ha influenzato. Le parole che hai scritto
per C’è questo stanotte di fatto sono
dei versi, sia a livello metrico che fonico…
Ci sono dei poeti che ho letto
molto e che mi hanno influenzato. Sono soprattutto inglesi e americani. Gente
come William Carlos Williams, lo
stesso Eliot, ma anche musicisti come Dylan e Leonard Cohen, che sono dei grandissimi poeti e prima o poi questa
cosa verrà loro riconosciuta. Invece ho sempre trovato più distante la poesia
italiana, che da un certo punto del novecento in poi mi è sembrata troppo
legata alla parola fine a sé stessa e poco disposta a comunicare.
Per finire: un’altra domanda riguardante le influenze che viene fatta,
non a te ma a Max Collini degli Offlaga Disco Pax, è se loro sono stati
influenzati dai Massimo Volume. Tu che ne pensi? Vedi qualcosa di tuo/vostro in
Max Collini?
Che qualcosa dei Massimo Volume
ci sia è evidente e mi inorgoglisce, perché gli Offlaga Disco Pax hanno avuto successo. La poetica però mi sembra
molto differente, loro si rifanno al Socialismo emiliano, riprendendo un po’ i CCCP ma senza quella parte di critica
al sociale che nei CCCP era molto forte e fondamentale. I nostri dischi invece
erano più intimisti, anche se è una parola che mi fa schifo utilizzare. Però mi
piacciono molto le cose scritte da Max.
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