Cisco
“Il mulo”
è la tua seconda esperienza solista. Cos’è cambiato dopo i Modena City Ramblers
e dove vuole spingersi la tua musica?
Diciamo che sono cambiati un po’ i punti di vista e alcune
situazioni importanti della mia vita. Quella coi Modena è stata un’esperienza
travolgente, che mi ha assorbito in tutto e per tutto, però l’ho considerata al
termine: dopo quattordici-quindici anni di rapporti con un gruppo sentivo di
essere arrivato alla fine di un percorso. La volontà di iniziare un
percorso solista – che è sì solista, ma
sempre in compagnia di tanta gente, di tanti compagni di viaggio – è
un’esigenza artistica e personale per rimettersi in gioco, ricominciare,
rimettere in ballo le proprie idee, la propria voglia di far musica, e anche
semplicemente staccarsi da certi cliché musicali, e avere più spazio per
“sperimentare”, giocare un po’ di più con la musica, essere liberi di provare a
fare quello che uno ha in testa senza troppi paletti, che ovviamente un gruppo
come i Modena, giustamente, ti può mettere. Nella mia esperienza musicale da
solista ho questo marchio, voglio fare ciò che la mia mente e il mio cuore mi
dicono, cercando di farlo al meglio e senza troppi preconcetti, e senza dire
“questo non si può fare” perché è folk o non è folk, ma mi rimetto in gioco e
lo faccio.
Sembra
che in questo disco tu abbia cercato di sviluppare vari percorsi tematici, vari
aspetti del mondo in cui vivi descritti attraverso la tua lente inguaribilmente
autentica e diretta. E inizi proprio con Il
mulo: pensi che questo brano si possa definire il tuo “manifesto
d’intenti”, o ti limiti ad evidenziare la tua cocciutaggine, o la tua coerenza
e voglia di resistere?
Un po’ entrambe le cose. Da una parte c’è questo “manifesto
d’intenti”, dall’altra non voglio mettere in discussione i miei valori. Molti
spesso si confondono i valori con la politica, ma in realtà questi vengono da
dove e da come cresci, da quello in cui credi. Semplicemente, dico che, come un
mulo, voglio resistere, continuare a tirare la carretta, anche in un mondo
musicale che molto spesso non ha questa coerenza.
Con Multumesc, ci trasporti in un
trascinante meltin’ pot musicale e non solo. Mi sembra particolarmente attuale
raccontare questa piccola storia Rom, soprattutto in un periodo in cui la
società italiana si è dimostrata tutt’altro che tollerante verso questo popolo:
la rivoluzione che attendi è solo di tolleranza, o c’è anche la volontà di
scuotere dall’immobilismo un Paese culturalmente fossilizzato?
Il mio discorso in realtà è più generale. Nessun Paese ha
mai accolto bene i Rom. Qui volevo parlare di quello che è stato il viaggio
fatto in Romania, l’anno scorso, dove sono stato a suonare ospite da questi
Rom: siamo stati accolti nelle loro case, abbracciati e coccolati nelle loro
case, riveriti con cibarie, vino e prelibatezze. Mi interessava contrastare
come noi riceviamo loro quando vengono nel nostro Paese, sempre e solo con
diffidenza. Questa è una caratteristica italiana, quello che viviamo adesso è
un’escalation, ma è sempre stato così. Per quanto riguarda la rivoluzione,
prendo a prestito una storia che ho imparato in Romania. Era la storia di
questi paesi nei Carpazi, dove si racconta che stanno ancora aspettando la
rivoluzione che ha trasformato il Paese da una dittatura comunista a un Paese
democratico: da quando è caduto Ceauşescu a oggi dicono ironicamente che questa
grande rivoluzione non l’hanno ancora vista. Io prendo spunto da questa
riflessione e la faccio mia, e dico che da quarant’anni sono qui che aspetto la
mia rivoluzione: ironicamente ho cantato e parlato di rivoluzione, ma quella
che penso io è una rivoluzione sociale, di comportamento, che dovremo aspettare
a lungo e che probabilmente non vedremo mai arrivare. La rivoluzione che
aspetto è questa, quella che a un certo punto sembrava dovesse cambiare il
Paese, che invece poi è peggiorato.
Ascoltando
il disco, mi è apparso particolarmente curioso l’accostamento tra Il paese delle mummie e Io so chi sono, quasi fossero due facce
della stessa medaglia. Senti davvero così distante l’abisso tra “il paese delle
mummie”, tra la politica dei politicanti e la politica “vera”, della vita
vissuta, delle persone? Ti sembra davvero tanto cupo e senza speranza lo
scenario politico italiano attuale?
Personalmente non l’ho mai vista molto in negativo, anche
cantando situazioni molto dure, molto negative. Sono sempre stato un ottimista.
Devo dire che negli ultimi tempi sto diventando pessimista, non riesco a vedere
la luce in fondo a questo tunnel. L’Italia ha preso una china che è peggio di
quanto potessi aspettarmi: mi ricordo gli anni ottanta come un periodo di
merda, fatto di gente con pochi ideali, con poca morale; gli anni novanta li ho
passati pensando a un rinnovamento, e adesso vivo con l’idea che il
rinnovamento non c’è stato e che è crollato tutto. I politici sono il peggio
del peggio e sembra che il peggio del peggio debba andare in Parlamento. Non m’aspetto
niente dalla politica, e la cosa che canto ne Il paese delle mummie è che non è più una questione fra destra e
sinistra. Siamo portati a pensare: “se tu pensi così allora sei di destra”,
“sei pensi così sei di sinistra”. La gente si deve accorgere che non è più una
questione di destra e sinistra, è una questione di alto e basso: c’è della
gente che sta in alto, sta bene, sta comoda, sono in pochi, si spartiscono la
maggioranza delle cose, decidono loro per gli altri. Poi in basso siamo noi,
siamo tutti noi, e ci stanno fottendo. Ci stanno fottendo pesantemente. E noi
qui in basso siamo sempre più vicino a terra, siamo sempre più schiacciati e
sempre più stretti.
Anche in
Fantasmi e Onda granda continui a
parlare di cambiamento. Come speri
che cambino le cose?
Io spero che la gente dal basso capisca che è ora di
cambiare, che è impossibile presentare dei politici che hanno ottant’anni, che
è impossibile presentare un politico di settant’anni che si tinge i capelli, si
presenta coi tacchi, si dà il phard. È impossibile
votare una persona così. È impossibile
votare gente che si presenta con programmi vecchi di ottant’anni. Ci serve
della gente giovane, della gente nuova, con nuove idee, perché il mondo sta
cambiando radicalmente. Questi qua sono vecchi e bacucchi e non sanno che pesci
prendere. Sono lì a fare i loro giochini dal post Seconda Guerra Mondiale, sono
lì ancora a spartirsi il mondo tra Nato e ex-Unione Sovietica, sono ancora lì a
fare i conti con queste cose. Questa gente deve andare in pensione, e deve
essere mandata a casa dal basso, da gente giovane con nuove idee. Auspico una
rivoluzione culturale, dove c’è la grande forza dell’indignazione a muovere i
nostri sentimenti. La gente non è più capace di indignarsi, siamo disarmati:
non protestiamo neanche più quando ci passano davanti in fila alle poste. I
prepotenti hanno preso il sopravvento, e fanno i prepotenti sui deboli, e fanno
i deboli con quelli più prepotenti di loro. La forza di indignarsi, di dire
basta ai soprusi è una cosa necessaria in un paese come l’Italia. In un film di
Michael Moore si diceva che in Francia i governi hanno paura della gente che
protesta, facendo riferimento all’America dove la gente ha paura dei governi.
Noi siamo messi molto peggio: abbiamo paura di protestare, e della gente che
protesta per cause giuste.
Nel
disco c’è tanta vita, in tutte le sue forme.
Mi ha colpito molto l’uso del dialetto emiliano nel testo di Olmo, canzone dedicata a tuo figlio, e
vorrei chiederti se c’è un legame tra questa dimensione verace e “terrena” espressa
attraverso il dialetto e la nascita di una nuova vita.
La cosa è anche un po’ più semplice. Io ho un figlio da
circa nove mesi, ed è nato a Roma, e sta crescendo per lo più in Cociaria,
perché la mamma è di Frosinone. Finché è piccolo passerà gran parte del tempo
là. Io ho voluto cantare una canzone in dialetto a mio figlio per fargli capire
che è sì in parte ciociaro, è nato a Roma, ma è anche in parte emiliano. E con
quella lingua lì, che è sconosciuta per lui, in cui canto questa canzone, gli
sto raccontando che c’è una terra che lo aspetta, una terra che ha una storia
profonda, che ha radici profonde, che aspetta i suoi passi, e voglio
comunicargli che è mezzo emiliano.
Anche
qui, c’è un forte senso di appartenenza, di identità…
Sì, perché noi siamo le nostre radici, noi siamo il nostro
vissuto, quello che ci hanno insegnato, quello che abbiamo imparato dalla gente
che ci circonda, quindi siamo anche parte e figli della terra a cui
apparteniamo, e questa cosa non ce la possiamo togliere. Ma dobbiamo essere
capaci di capirlo e in forza di questo andare incontro e comunicare con le
altre persone: identità e conoscenza, questa è la forza. Faccio un salto
indietro di vent’anni, l’esperienza dei Modena City Ramblers è questa: noi
siamo partiti come persone senza radici, siamo andati a scoprire le nostre in
Irlanda. Le abbiamo scoperte prima con gli irlandesi, poi portandole a casa
abbiamo scoperto le nostre, scoprendo che anche noi avevamo le nostre
tradizioni, le nostre radici, la nostra terra, le nostre storie da raccontare.
Siamo andati avanti a raccontare le nostre storie senza paura del diverso,
anzi, apprezzando le storie diverse dalle nostre.
Da Best a Haka hai cantato lo sport in due maniere quasi opposte: da una parte l’individuo che abbaglia le
masse per le sue imprese sul campo e per la sua vita spericolata, e dall’altra
la dimensione collettiva e viscerale del rugby, del vivere, lottare e morire.
Quanto conta lo sport nella tua vita, cosa significa per te?
Chi mi conosce sa che non ho il fisico da sportivo, di
sicuro. Però sono sempre stato grande appassionato, da ragazzo ho giocato a
pallone, con pessimi risultati, ci tengo a sottolineare. Il calcio di questi
ultimi anni mi ha allontanato da questo sport, che continua a interessarmi ma
in minor maniera. Negli ultimi dieci anni ho scoperto questo sport che mi ha
entusiasmato, il rugby, che secondo me mantiene ancora un’etica sportiva. Vedo
ancora la volontà di lottare contro l’avversario, ma capendo che una volta
finita la partita si va tutti insieme a fare il famoso terzo tempo, perché si è
parte di una cosa unica. Questa cosa per me è il simbolo massimo di un’etica
sportiva chiara, limpida, pura. È uno sport in cui ci si dà delle pacche vere,
con scontri fisici notevoli, spesso ci si fa male. Ma se c’è una scorrettezza,
non passa inosservata, ma viene ripresa e fatta pagare sia dall’avversario che
dal compagno di squadra. Questa canzone è un inno agli amanti del rugby: io ho
preso spunto dalla danza maori per farne una danza italiana, che richiama
l’esaltazione del mettersi in gioco fino alla morte per poi alla fine
dichiararsi vivo. Questa cosa mi esalta sempre, ogni volta che vedo una partita
di rugby: sono cose ancestrali, che vengono dai campi di battaglia, e che per
fortuna vengono sviluppati in uno stadio, dove poi alla fine si festeggia
insieme, senza odio e recriminazione, con la consapevolezza che senza
l’avversario l’altro non esiste. Nel calcio, questa cosa si è dimenticata: lì
serve l’annientamento dell’avversario, per cosa poi non si sa.
Nel dvd
allegato al disco è evidente come la dimensione live sia quella che vivi con
più intensità, quasi che i dischi fossero delle “scuse” per andare in tournée.
Ti sembra che questo corrisponda alla tua esperienza?
Sono molto più bravo a fare le canzoni dal vivo che in
studio. Io ce la metto tutta, e mi piace anche molto lavorare in studio, ma mi
rendo perfettamente conto che i brani dal vivo vengono meglio. Non so se è il
pathos, l’atmosfera, il pubblico, l’amalgama che si crea in certe serate
magiche, ma alla fine è vero che i live vengono molto bene. Però i dischi sono
da fare, non solo per andare in tournée, ma perché è un mezzo per comunicare.
Normalmente non sono abituato a fare una compilation di canzoni che ho scritto
in un periodo, ma cerco di ragionare su quello che voglio comunicare: non sono
dei concept, ma li ragiono come tali, e quindi dico “questo disco parlerà di
questo”, e scrivo le canzoni in base a questo. Non scrivo una canzone sui
fiori, magari bella o brutta, la prendo e la metto nel disco, ma parto da un
concetto dell’album per poi scrivere le canzoni. Ho fatto così sia nei Modena
che nella mia esperienza attuale. La verità è che i dischi mi piace farli, ma
mi rendo conto che quando dal vivo è meglio.
In
questi giorni parte la tua nuova tournée. Come sarà il tuo spettacolo? Sappiamo
che le tue esibizioni saranno precedute da un set di Ettore Giuradei: com’è
nata la vostra collaborazione artistica? Interagirete?
Io e Ettore Giuradei
ci siamo incrociati a Milano qualche anno fa, all’epoca del mio primo disco da
solista. A me è piaciuto subito il suo primo disco, mi sono innamorato della
sua musica. Dopodichè, gli ho proposto di aprirmi i concerti in tour. A lui
l’idea andava bene ed è nata questa cosa, la scorsa estate. Ci siamo trovati
così bene che andiamo avanti anche in inverno: lui verrà col suo gruppo, in duo
con suo fratello al pianoforte a fare l’apertura delle mie serate. Presenta i
brani dei suoi dischi, di solito con grande successo, e ne sono molto felice.
Voglio dare spazio a talenti che altrimenti di spazio ne avrebbe poco o farebbe
fatica a trovarlo, però penso che sia uno dei modi per portare alla luce del
materiale che di solito fa fatica a emergere. Porterò avanti questo sodalizio finché
non sceglierà di muoversi sulla sua strada.
Il mio concerto è molto basato
sui brani de “Il Mulo”, senza trascurare il disco precedente, più pezzi del mio
passato che fanno parte del mio vissuto e del mio spettacolo. I pezzi del
passato non li scelgo in base a una
richiesta, ma sono sempre brani che sento particolarmente vicini e miei, e che
penso siano più adatti alla scaletta del caso, che viene formata di volta in
volta sulla base dell’ultimo disco. Comunque ci saranno delle sorprese, che
però non voglio svelare.