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Nino Buonocore

Scusate il ritardo

Sembrerà scontata la citazione che abbiamo scelto per il titolo ma, mai come in questo caso, miglior aggancio non poteva esserci per incontrare Nino Buonocore. L’occasione arriva qualche giorno prima della presentazione del suo nuovo lavoro, Segnali Di Umana Presenza (uscito per Hydra Music/Goodfellas), arrivato dopo ben nove anni dalla sua ultima pubblicazione. Un’eternità per qualsiasi artista, non per lui e ce ne spiega i motivi.

È inevitabile chiederti, prima di tutto, cosa hai fatto in questi nove anni d’assenza dalle scene?
La risposta più ovvia è che ho semplicemente vissuto. Immagino che sia strano a dirsi per un artista, però è stata una scelta voluta. La vita ha preso il sopravvento e un certo distacco è stato anche positivo, perché mi ha permesso di ‘guardarmi dentro’ sia come uomo che, soprattutto, come artista.
La musica va scelta e non imposta.
Avrei potuto continuare a comporre all’infinito altre Scrivimi come mi chiedevano pubblico, addetti ai lavori e la discografia, invece ho scelto di fare l’artista fino in fondo. Ho lasciato che fosse l’istinto e la passione per la musica a guidarmi. Sicuramente ho aspettato tanto per un nuovo disco per ‘rispettarmi’come artista, ma in parte posso anche dire di non aver avuto in questi anni particolari suggestioni per comporre. La canzone per me riflette quello che ti arriva dall’esterno: in questi anni tutto quello che è successo, nel sociale come nella cultura, è come se fosse stato un periodo di stagnazione e credo sia anche la diretta conseguenza di una crisi economica che ha frustrato notevolmente qualunque fonte d’ispirazione.
Vivo con disagio questo tempo in cui diamo tutto per scontato, questo sistema globale che allinea e informatizza messaggi e pensieri. Per un lungo periodo mi sono defilato volutamente da tutto, ma poi ho voluto farci i conti e adesso è scattata l’esigenza di comunicare davvero, di ritrovarci veri, fuori dai canoni comportamentali che questa società ci detta. Così è arrivato anche il momento di dare segnali di umana presenza…

 

Preparandomi all’intervista ho riascoltato diversi brani della tua storia musicale, iniziando dal primo album pubblicato, un Q-disc intitolato Acida, e ci si rende conto che sono passati ben 33 anni… Anzi, a voler guardare bene, già qualche anno prima avevi inciso tre o quatto 45 giri (di cui i primi due a nome Adelmo Ferrari).
Un excursus per arrivare a comprendere meglio il passaggio artistico che ha portato oggi a pubblicare Segnali Di Umana Presenza. La sensazione che ne ho tratto è che questo percorso generi quasi un lavoro unico, sorretto da una crescita lenta ma costante. È come se la tua evoluzione fosse stata centellinata, se tu avessi deliberatamente scelto di avanzare a piccoli passi.
Probabilmente è proprio così, la musica ha rappresentato con esattezza il mio vissuto, la mia esigenza vitale di andare oltre i risultati raggiunti, la necessità di crescere e pormi sempre nuovi obiettivi. La politica dei piccoli passi fa parte del mio carattere, non sono mai stato capace a bruciare le tappe... Dal punto di vista prettamente compositivo la curiosità è stata la componente fondamentale del mio percorso, una necessità dirompente che ha stimolato in me sempre nuove idee e strade da percorrere. Curiosità, e aggiungerei una buona dose d’incoscienza e sperimentazione. Mantenendo però ben saldi i riferimenti alle mie radici.

 

Segnali Di Umana Presenza sembra il compendio ideale di questo lungo viaggio artistico, un disco adulto, intenso e maturo.
Non so se è un compendio ideale, è sicuramente un punto d’arrivo, un lavoro dove la consapevolezza della mia arte ha, diciamo così, raggiunto vette ancora nuove. È un prodotto dove credo d’aver mescolato al meglio gli elementi della mia maturità artistica. Peraltro sono particolarmente fiero del risultato finale in quanto ne ho curato, in maniera maniacale, produzione e arrangiamenti .La lunga gestazione è servita a non lasciare nulla al caso e a curare ogni minimo dettaglio.

 

Partiamo dal suono del disco, una matrice che nasce da tanti riferimenti musicali per sfociare in una microcosmo sonoro unico e personale.
Ho lavorato come un musicista per questo album, un ‘cesellatore’ sulle note e sui suoni acustici, sulla meticolosa scelta degli strumenti, dei fiati e degli archi.
C’ho messo dentro tutta la passione che ho per musica con la M maiuscola, dal jazz al pop, dal soul al rock, senza creare steccati tra i vari generi. Il tutto però rivisitato e corretto con i profumi musicali della mia terra e della mia città, Napoli.
Una musicalità che dilaga grazie anche all’apporto del mio gruppo di lavoro ormai stabile da dieci anni, che condivide ormai con me questo percorso. Ho sempre pensato che il testo debba essere funzionale alla musica e non viceversa. Tutto nasce da lì, anche se in Segnali Di Umana Presenza c’è anche un artista che racconta l’uomo e le difficoltà del vivere attuale in maniera leggera ma decisa.

 

Il Lessico Del Cuore, oltre ad essere il singolo apripista da cui ne nato un bel video con la regia di Davide Silvestro ( http://www.youtube.com/watch?v=1zV2W8AAOtM ), può essere considerato il brano manifesto del nuovo album?
È certamente la canzone che meglio delinea gli ambiti e i contenuti musicali di questo nuovo lavoro.
C’è l’irrequietezza sonora ma anche la necessità di una ‘rivoluzione’ che riporti al centro della nostra vita l’uomo ed il proprio cuore, tornare cioè ad essere delle persone vere, fuori dal ruolo che ciascuno di noi recita nel post di un social network. Oggi c’è poco tempo per tutto, c’è poco tempo per vivere il nostro tempo. Ecco, se dobbiamo riprenderci qualcosa è proprio il momento di tornare ad essere e non apparire, grazie anche alla trasparenza che da’ l’amore.
Che poi, ragionandoci, senza averlo fatto apposta l’amore è il filo rosso che unisce tanti brani del nuovo disco: dalla costruzione di una nuova storia in Tienimi Stretto alle piccole sfumature spesso trascurate de L’amore Che Non Vedi, dai ripensamenti di Quello Che Immaginavi ai sogni di Serena, dalla fedeltà di La Stessa ai ricordi di un’adolescenza di Millenovecento73.

 

Oltre ad avere una linea melodica intrigante, il brano L’Uomo Nuovo contiene una frase bellissima, evocativa: “perché c’è il vento se poi le vele non le alziamo mai…”.
Sembrerà un paradosso ma oggi facciamo fatica a manifestarci per ciò che siamo. L’Uomo Nuovo parla di questo, della nostra difficoltà di essere migliori per non apparire fuori tempo, fuori luogo e quindi fuori gioco, della nostra incapacità di ritrovare in noi la voglia di vivere le cose più semplici che poi sono le più vere. L’Uomo Nuovo è la speranza di risvegliarci tutti dal nostro torpore e tornare a riassaporare le emozioni più naturali.

 

Un Amore Qualunque è il colpo di coda finale, un pezzo che sfugge ad ogni regola prestabilita.
È un brano che già solo nella struttura musicale, l’apertura e la chiusura di un pianoforte a delimitare una rumba sudamericana, è spiazzante rispetto al resto. Ancora l’amore a farla da padrone, i meccanismi del cuore che restano fragili e di difficile interpretazione. C’è una scrittura fatta di parole e scenari che s’incastrano, come se si fosse sul set di un film...

 

Hai cantato e registrato questo nuovo lavoro in quattro lingue: portoghese, inglese, francese e spagnolo. Un messaggio evidente, palese… l’hai fatto perché vuoi conquistare il mercato musicale ‘in the world’? Al di là delle battute, quanta voglia c’è di affacciarsi ad un pubblico internazionale?
In un mercato globalizzato dove la musica, traslocata sul digitale, è diventata ‘liquida’, con una discografia ufficiale che in Italia è praticamente defunta come puoi pensare di fare un disco e proporlo ad un pubblico circoscritto?
Oggi credo che pensare di uscire fuori dai confini più che un ‘obbligo’ sia proprio una necessità a cui non possiamo sottrarci. È impensabile e illogico nell’era di internet concepire un prodotto adatto solo al nostro panorama musicale.

Ho aspettato nove anni per pubblicarne uno nuovo anche per questo, pensando di proporlo ad un mercato musicale molto più vasto del nostro piccolo ‘recinto’ nazionale... spero non sia vista come presunzione questa affermazione, sia chiaro, ma la ritengo una scelta obbligata visto che già tutto il sistema è al collasso. E poi, mi hanno sempre detto che ho un pubblico trasversale e con questo disco credo di essere riuscito a rivolgermi  - senza tuttavia accettare compromessi particolari - ad un pubblico più eterogeneo.

 

Sono quasi trent’anni, ventotto per la precisione, che continua la tua collaborazione con il paroliere Michele De Vitis. Qual è il vostro metodo di lavoro?
Con Michele c’è un sodalizio praticamente perfetto, una comunione d’intenti quasi miracolosa. È una persona che ormai mi legge dentro, sa tramutare in parole anche i miei sguardi. Quando devo trasmettere le mie riflessioni, le mie emozioni lascio a Michele la capacità di sintesi dei miei pensieri e lui cerca di rendere più comprensibili e più fruibili i miei concetti. Il progetto di una mia canzone nasce però sempre prima dalla musica. Tutto nasce dalla musica, da un motivo, da un incipit, da un refrain. Sulla musica poi ci mettiamo le parole, che sono il risultato delle nostre riflessioni comuni.

 

Guardando la tua discografia se dovessi indicare gli album più identificativi quali indicheresti?
Quando si tocca questo argomento è sempre difficile scegliere, perché fondamentalmente sono legato un po’ a tutti i miei album. Se però sono proprio messo alle strette e devo indicarne qualcuno… sicuramente YaYa per il mio primo periodo, Una Città Tra Le Mani, un disco a cui sono molto legato e che segna anche il primo lavoro con Michele De Vitis, per chiudere con Libero Passeggero di nove anni fa, lo spaccato più nitido di quello che sono oggi.

 

In ultimo cosa pensi della situazione attuale della musica italiana?
Purtroppo se mi guardo in giro vedo una decadenza culturale, che si riflette anche nella musica. È uno scenario devastato da un sistema che, come dicevo già all’inizio, ha cambiato tutto, dal modo di fruire della musica come anche il modo di crearla.
Non ti nascondo che faccio fatica a confrontarmi con questa logica. Per non parlare poi dell’appiattimento totale del circuito mediatico, come le radio e i format televisivi, che dovrebbero fare da cassa di risonanza ed essere i primi veicoli promozionali per progetti innovativi, coraggiosi.
Ecco se penso a questi capisco perché la nostra musica oggi è arrivata così in basso. E anche la dispersione della rete non aiuta, a volte amplifica questo vuoto. In parte la colpa è anche degli artisti stessi, spesso troppo lontani dalla realtà.
Credo che il nostro ruolo richieda una presa di coscienza importante, un ritorno a confrontarci con il nostro lavoro con sincerità e rispetto. Solo così possiamo recuperare quel gap anche ‘qualitativo’che, vuoi per mille motivi, si è creato nel nostro panorama musicale.

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