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Federico Sirianni

Benedetta la complicità che unisce le persone

Parlare de Il Santo, il nuovo disco di Federico Sirianni non mi è facile. Considerato che è nota a molti l’amicizia che mi lega al cantautore genovese e anche lo scambio professionale che in questi anni ci ha visto portare sui palchi le sue canzoni e le mie storie. Capita spesso, ed è capitato in altre epoche, che tra artista e recensore si instauri un rapporto amicale, capita anche che ci sia una certa ritrosia nel dichiararla. Per mestiere però vengo anche dalla pratica storiografica e ho imparato che non è improprio avere delle idee e delle propensioni e delle preferenze all’atto di un’analisi critica ma piuttosto è necessario dichiararle. Sono andato a cercarlo Federico Sirianni. L’ho trovato a casa sua e ci siamo aperti una bottiglia a quel tavolo che conosco, per parlare del suo ultimo disco, del suo ultimo lavoro. Ecco, lavoro appunto, mai etimologia aiutò meglio. Questo disco è una maledetta faticosa folgore che ti entra nella spina e ti inchioda al presente che è il mio, quello di Federico, quello di un sacco di mondo pare. Una sorta di concept album che si regge sul filo trasparente su cui camminiamo, tenendo le braccia aperte a reggerci sull'aria che resta, sul respiro che avanza. Un morso all'anima questo disco, un conto al tavolo che non potremo pagare mai, un debito acceso con la consapevolezza. Un pugno di canzoni che sono l'imperdibile occasione di sospettarci consapevoli non del tempo tutto ma di quello che ci serve per salire le scale col fiatone, di quello che resta per decidere di non alzarci ancora dal tavolino e ordinarne un altro. Amori da inseguire senza farci acchiappare e confondendoci tra la carne e la secca delle emozioni su cui la nostra chiglia si pianta e resta spesso. Questo disco ci riguarda, vi obbliga. e non sarà niente ma niente è la moneta che sappiamo spendere.

Insomma, Federico Sirianni ci deve delle spiegazioni. Per questo siamo andati a cercarlo dopo aver ascoltato il disco per giorni. Quelle canzoni hanno ingombrato con prepotenza tutto il tempo, e non è poco, dedicato all’ascolto. Nella suggestione di quelle storie intrecciate mi sono perduto una notte, in una ennesima trasferta autostradale in solitaria e ho lasciato correre i pensieri. L’auto è ormai un luogo privilegiato in cui concedersi l’ascolto di un disco e ho cominciato a fare da solo uno di quei giochi che facevamo da piccoli nei lunghi viaggi avanti e indietro lungo la penisola. Se fosse. E questo disco se fosse un libro sarebbe Microcosmi di Claudio Magris o Finzioni di Jorge Louis Borges, una coralità di racconti uniti a costruire un’unica storia di umanità e occasioni e sorrisi e maledizioni. E se fosse un quadro sarebbe un dipinto di Pieter Bruegel il vecchio, in cui perdersi scomponendo la complessità della rappresentazione in un’infinita invenzione di personaggi e storie. E se fosse cibo sarebbe il banchetto di un matrimonio balcanico, la celebrazione dei morti in un villaggio messicano, un tango in un vicolo argentino. E se fosse un disco? Chiediamolo a lui.
 

Quale è stata la genesi di questo disco?
Quando ho chiuso le registrazioni di Nella prossima vita, il disco precedente, ero sinceramente convinto che quasi tutto quello che avevo da dire lo avevo detto. Ero contento ma anche un po’ svuotato, per cui mi occupavo essenzialmente di “fare il mestiere”, cioè portare in giro le canzoni del disco, quando possibile con i miei amici GnuQuartet, che le hanno magistralmente arrangiate. Non ho scritto canzoni per me per parecchio tempo, ho scritto musiche e canzoni per il Teatro della Tosse di Genova e altre cose, finché, un pomeriggio – non sono di quelli che scrivono di notte, di notte dormo, in genere scrivo di mattina e pomeriggio – è arrivata, entrando come una folata d’aria benedetta in casa mia, la canzone Ascoltami o Signore. Ho capito che era l’inizio di qualcosa di nuovo, l’ho inviata subito a Giua, cantautrice talentuosa e raffinata e mia concittadina, che ne ha cantato una strofa impreziosendola con la sua voce meravigliosa. Il Santo nasce lì. Nei due anni successivi sono accaduti molti avvenimenti che hanno reso la mia vita differente, non so se migliore o peggiore, ma mi hanno messo in contatto con alcune parti di me che non conoscevo, o forse non riconoscevo o forse volevo proprio evitare, mi hanno chiesto di fare i conti con un’età che non permette più errori grossolani e che ti obbliga a delle priorità, mi hanno gentilmente annunciato che cominciavo ad avere più passato che futuro. Questi avvenimenti li ho definiti “il Santo”, una figura coheniana, in bilico tra l’immondizia che ti circonda e la bellezza che, nell’immondizia c’è, ma devi cercare sporcandoti le mani.

Parliamo del suono di questo disco. In alcuni punti sembra richiamare il Dylan prodotto da Daniel Lanois, quello di Oh Mercy per intenderci e, con le dovute variazioni, anche musicalmente sembra di intuire una certa uniformità, la ricerca di una cifra stilistica fortemente connotativa. Raccontaci come si è costruito questo suono e gli amici che hanno contribuito alla realizzazione di questo progetto.
E’ vero. Oh Mercy, insieme a Time out of mind, i due dischi realizzati con la produzione di Lanois, sono frammenti di Dylan che tengo stretti forte nel cuore. E’ un Dylan maturo, in contatto con una vecchiaia che inesorabilmente s’avvicina, un Dylan a volte cupo che guarda a un cielo non come “cosa” ma come entità, un cielo anch’esso cupo, e ascolta le campane che segnano i rintocchi degli anni, dei peccati e di una necessaria redenzione. E’ un Dylan ancora più solo, con i ricordi e le inquietudini che affiorano quando non è ancora buio ma lo diventerà, con un senso d’amore immateriale e doloroso che si fa fatica ad afferrare e a tenere fra le dita. Sono pensieri che sento molto vicini e che, in modo differente e, certamente, meno potente, ho cercato di raccontare nel mio Santo. Tentando, anche musicalmente, di restituire quella sospensione, quel senso di memoria che può essere dolce e malinconica al tempo stesso, attraverso gli echi  e gli effetti delle chitarre o del rhodes, a costo di risultare datato o fuori tempo. Avevo bisogno che molte note si allungassero e si perdessero, così come le parole all’interno di quelle note.
Ho scelto dei musicisti che conoscevo molto bene per realizzare questo tipo di lavoro. Citarli tutti è un’impresa e si rischierebbe di fare torto a qualcuno. Musicisti e amici veri che vi si sono prestati e dedicati con grande attenzione e cura e i cui interventi sono stati poi magistralmente lavorati da Fabrizio Chiapello di Transeuropa, che ha prodotto il tutto.

Che tipo di attenzione può suscitare oggi un disco come questo? A chi si rivolge?
Bella domanda. Se il metro di giudizio nell’ambito di quella che definiamo “canzone d’autore” di questi anni è rappresentato dagli attuali protagonisti mainstream, la vedo complicata. Quello a cui assisto, ma prendila come opinione del tutto personale, è uno scenario in cui c’è un’utenza importante che si muove tra i 25 e i 35 anni, una generazione complicata perché vive un’epoca complicata in cui, forse anche per colpa di chi l’ha preceduta, si trova priva di possibilità, di ideali, addirittura di sogni. E’ una generazione che, se stimolata, avrebbe tutti gli strumenti per scuotere il torpore che la e ci circonda. Credo che il ruolo del cantautore, come quello dello scrittore o del regista o del pittore, sia quello di guardare e raccontare la realtà e la contemporaneità attraverso uno sguardo diverso, nuovo, magari anche provocatorio; sia quello di non dare sicurezze, ma instillare dubbi e riflessioni. Invece accade esattamente il contrario. L’artista aderisce totalmente all’insicurezza di questa generazione e l’asseconda attraverso quello che definisco il “pensiero elementare”, non va in profondità, non cerca vie narrative diverse per raccontare il mondo, ma approccia il proprio target con il suo stesso identico linguaggio, offrendo sicurezza in una sorta di simbiosi artistico-esistenziale che, commercialmente, funziona alla grande, ma non lascia una traccia che sia una di pensiero, di idea, di comunicazione, di pur piccola forma d’arte.
Tornando alla tua domanda, dunque, non ho la più pallida idea né di che attenzione può suscitare questo disco né da chi e da quanti verrà ascoltato.

Raccontaci una delle canzoni del disco, non necessariamente la tua preferita.
Come ti dicevo prima, tutto nasce da Ascoltami o Signore, che è una preghiera ma forse no, magari è un’invettiva in forma di preghiera o qualcosa del genere. Però il motore di tutto il disco è la canzone che lo apre e gli dà il titolo e il pensiero che si ripete nel ritornello, probabilmente, mi è arrivato direttamente da un Santo di quelli veri: “Benedetta sia la gentilezza, benedetto lo stupore, benedetta la verità se la verità è dolore; benedetto sia l’incanto, benedetta l’espiazione, benedetta la complicità che unisce le persone”.

Ora porterai in giro Il Santo, a dirla così pare di evocare processioni e battenti e canti penitenziali, ma se qualcuno volesse sapere le tue date dal vivo come può fare? E come ti si può contattare per proporti delle serate?
Per quel che riguarda il tour, ci sono tante date in programma, al momento reperibili sul mio profilo Facebook in attesa del ripristino del sito web. Per organizzare concerti continuo su quel percorso arroventato ma, al momento funzionale, di non servirmi di un’agenzia di booking ma di muovermi in maniera autonoma. Niente, scrivete a me che ci mettiamo d’accordo in serenità: federico.sirianni@gmail.com o tramite Facebook, sulla pagina personale o su “Il Santo – Federico Sirianni”.

Un’ultima domanda. Nel disco c’è un blues che è in inglese ed è stato scritto da Cesare Pavese. Cos’è per te il mestiere di vivere.
Scrivere, suonare su più palchi possibili, affacciarmi ai finestrini di treni che attraversano l’Italia dalle nebbie al mare, conoscere luoghi, città e paesi da cui vengo via sempre arricchito, occuparmi di mia figlia che sta crescendo in una maniera inaccettabile, andare a letto ogni sera e svegliarmi ogni mattina con la consapevolezza che il giorno in arrivo non sarà mai uguale a quello precedente e che, nel bene e nel male, ci sono sempre delle sorprese che mi aspettano al primo crocicchio buono.

 

 

 

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