Paolo Fresu
Alberto Bazzurro: Partirei da
questa tua prima direzione artistica a “Bergamo Jazz”, impegno per te non
nuovo, ma per lo più a Berchidda, al tuo festival.
L’idea è nata nella primavera
2008, quando sono stato contattato dai responsabili di “Bergamo Jazz”, che mi
hanno chiesto se avrei avuto piacere di assumerne la direzione artistica. A
Bergamo avevo suonato più volte, e poi sono legato alla città per via di Tino Tracanna, con cui suono da venticinque anni. Se dirigo il
festival – ho risposto – pongo delle condizioni, che vanno al di là del
semplice concerto in teatro, perché dev’esserci un collegamento con il tessuto
sociale del territorio, che ha delle energie, su cui investire. Dev’essere
protagonista la città, entro la quale il festival deve vivere, coinvolgendo i
giovani, le forze locali. A Berchidda questo succede, per cui ho provato a fare
qualcosa di simile anche qui, portando la musica fuori dal teatro, in luoghi
diversi individuati appositamente. Il programma è nato di conseguenza.
AB: La cosa più apprezzabile
mi pare la tua presenza costante, non il solito direttore artistico che tratta
quella che dovrebbe essere la sua “creatura” con una certa – diciamo così –
sufficienza…
Per me essere presente è
imprescindibile: essere un po’ il cerimoniere, portando la gente per mano in un
viaggio che ha una sua direzione, che bisogna comunicare al pubblico. Anche i
musicisti che arrivano e che sono sempre in tour, quando c’è un festival con
una sua anima se lo ricordano, ci si affezionano. E qui parlo proprio da musicista,
per esperienza diretta. Accogliere gli artisti, presentarli sul palco, sono
cose magari piccole ma importanti.
AB: L’anima di un festival la
avvertono anche i giornalisti, e naturalmente il pubblico. E purtroppo nei
festival c’è sempre più anonimato…
Purtroppo è vero. Il rischio è
vivere un festival come qualcosa di istituzionale. L’istituzionalità è importante
perché significa sicurezza, anche economica. Bisogna però riuscire a coniugarla
con l’anima di cui parlavo, quindi rapporto umano.
AB: Chiudendo sul festival,
quanto è difficile per un musicista come te, che ha tutta una rete di rapporti,
scegliere chi far suonare, trattandosi di colleghi?
Non è facile, in effetti, ma il
problema non è tanto quello. La difficoltà vera è costruire un cartellone per
il palco centrale. Lì non puoi sbagliare: devi fare scelte rigorose. Se poi
vuoi costruirci una storia intorno, tipo quest’anno a Bergamo l’idea della
liberazione in musica legata al 25 aprile, devi stare molto attento. La
difficoltà è riuscire a raccontare qualcosa nei pochi concerti in teatro,
perché per quelli di contorno è tutto più semplice. Lì è importante scegliere i
luoghi giusti, che possono aiutare molto la musica. Io, infatti, invito la
gente a sentire sempre tutto, perché solo così si riesce a capire cos'è il
festival.
Luca Barachetti: Due anni fa
qui a Bergamo ci fu una polemica circa proposte giudicate troppo estreme. Tu,
solitamente, quanto metti di provocatorio
nel programma di un festival di cui sei direttore artistico?
In genere, disegnando un
programma, non mi metto lì con la bilancia a decidere quanto di nuovo ci deve
essere e quanto di vecchio. Non me ne importa niente, detto papale papale. Qui
a Bergamo non c’è un'idea sola, ma tante: i bergamaschi, il jazz europeo, il
focus su Franco D'Andrea e un altro sulle musiche di oggi, da Trovesi
a Rubacalba, a Garbarek. Un direttore artistico deve scegliere al
di là del suo gusto personale, tendendo le orecchie su cosa c’è in giro e
capendo i gusti del pubblico. Certo, se una cosa non mi piace proprio non la
inserisco, però il mio punto di vista non è così determinante. In un mio
cartellone ci sono certi miei musicisti di riferimento, ma anche cose che vanno
al di là del mio gusto e che si relazionano con quello degli altri. Non
metterei mai insieme o solo personaggi supernoti, o solo di nicchia, perché
voglio raccontare il jazz di oggi attraverso diverse direzioni. Ed è qui la
difficoltà di convogliare tutto in tre sere a due progetti per sera. È quindi
necessario aprire il festival al di là del teatro, per cogliere altre
sfumature.
LB: Volevo fare con te un
breve excursus sul tuo rapporto con la musica in senso lato. Puoi citare, per
esempio, qualche tua influenza extrajazzistica?
Io ho un percorso un po’
particolare. Vengo da un paesino della campagna sarda, e ho perso gran parte
degli ascolti di quegli anni: il pop italiano e straniero, per intenderci, ma
anche il rock progressivo, tutte realtà che ho conosciuto non dalla radio o dai
dischi, ma suonando nei complessi musicali e nella stessa banda di Berchidda,
dove sono entrato a undici anni. Nel primo ambito, andavamo nelle piazze a
suonare per far ballare la gente, inserendo peraltro anche pezzi di Lucio
Dalla o di Stevie Wonder. A casa le uniche cose che ascoltavo erano
i 45 giri che mia madre mi comprava al bar, quelli usati dai juke box, cose di Mina, Ornella Vanoni, Dik Dik...
Non facevo parte di quelle compagnie in cui si andava a casa di uno ad
ascoltare i dischi. Berchidda era un paesino così: non c’era questa
possibilità. Io i pezzi di Dalla li ho conosciuti suonandoli. Poi c’erano i
club e lì si sentiva qualcosa di più, tipo Rimmel di De Gregori, che mi sconvolse. Scoprii anche i Procol Harum, in quel
periodo. Con uno di questi gruppi in cui suonavo, andammo anche a Modena a
incidere un disco, grazie a un contatto che ci arrivò dall’Equipe 84. Erano venuti a suonare in Gallura e ci avevano fornito
un contatto, con Umberto Maggi. Andando a incidere questo disco, chiesi a un
pianista del paese vicino con cui avevo iniziato a fare un po’ di jazz (io nel
gruppo suonavo il minimoog) di introdurmi veramente al jazz, il che avvenne
ancor prima attraverso i Nucleus. Quindi il mio retroterra musicale, ben
prima del jazz, consiste in tutto ciò: poco rock, pop italiano e
internazionale, una formazione avvenuta sul campo. In questi gruppi poi, pian
piano, la deriva jazzistica iniziò a farsi sentire sempre più chiaramente:
mentre suonavamo un pezzo pop, d'improvviso partivamo con un autentico tsunami
di suoni che non faceva certo la gioia della gente che veniva lì per ballare, e
quindi si fermava, si sedeva, aspettando che la piantassimo lì. Qualcuno veniva
anche a protestare, altri ci lanciavano pomodori e ortaggi vari. Una volta ho
ricevuto addirittura un pompelmo grosso così...!
LB: Per questo ti è rimasta
la propensione a spostarti dai territori canonici, a vagare…
Certo. Sono arrivato al jazz in
modo spontaneo, attraverso la banda, i complessi, la musica condivisa,
componente del resto tipica del jazz. Quando andavo in conservatorio, ottenevo
ottimi risultati senza studiare granché: i miei compagni si rompevano la testa
per riuscire ad arrivare dove io arrivavo del tutto naturalmente. Questo
perché? Perché avevo questo passato di musica suonata e condivisa.
AB: Magari anche per un pizzico di talento in più...
Magari sì, però quella palestra è
stata fondamentale. La musica condivisa, del resto, appartiene molto anche alla
canzone italiana. Forse più a quella di ieri che di oggi, ma comunque
sopravvive tuttora.
LB: Tu spesso bazzichi nel
mondo della canzone d’autore tra l’altro…
Sì, ho lavorato con Ornella
Vanoni, producendo anche un suo disco, e con Alice, che è stata la
prima collaborazione extrajazzistica. Feci anche un tour con lei, l’unico al di
fuori del jazz. Poi ho collaborato con Nomadi,
Stadio, Negramaro, soprattutto con Gianmaria Testa, che però non si
può considerare del tutto fuori dal jazz. Quelle con lui, con Ornella e Alice,
sono le cose in cui ho potuto davvero mettere le mani. Le altre sono state più
che altro le classiche ospitate del jazzista che a disco finito va a mettere la
sua tromba su quel dato pezzo.
LB: Ma cosa ti interessa, ti
affascina, di questo universo?
Io non faccio distinzioni tra jazz
e pop. Il jazz, in origine, è stato anche lavorare su bellissime canzoni.
Questa distinzione tra jazz e pop c’è soprattutto in Italia. All’estero non è
altrettanto sentita. Da noi, anche nel jazz, c’è – e soprattutto c'è stata –
una netta linea di demarcazione fra chi suona bop e chi musica creativa. Un
tempo i due mondi quasi non si parlavano: i “creativi” dicevano che i bopper
facevano liscio, i bopper che i “creativi” non sapevano suonare. Per carità, un
po' la si pensa così ancora oggi, ma meno. Comunque da entrambi questi universi
la canzone è vista spesso come un sottomondo, abitato da gente che fa musica
commerciale. Io questa cosa non l’ho mai capita. Quando poi ho sentito Michel
Petrucciani suonare Estate, ho cominciato a sperare che questa
divisione sparisse, e in effetti qualcosa è successo. Io, ridendo e scherzando,
di canzoni italiane ne ho registrate tante negli ultimi anni, da E se domani
a Torna a Surriento. Il problema non è il materiale che si usa, ma la
sensibilità con cui lo si approccia.
LB: In effetti stiamo
parlando di una pratica parecchio diffusa negli ultimi anni.
Sì, forse anche troppo, nel senso
che è diventata un po' una moda. Questa cosa dei progetti tematici su questo o
quel musicista dipende sempre da chi li fa e come. Io non ho mai messo insieme
un progetto intero su un solo artista: preferisco scegliere un pezzo
significativo di quell’autore, uno di quell'altro, e così via. Penso ad esempio
che Battisti non sia così interessante sotto il profilo jazzistico, a
differenza dei vari Bindi, Tenco, De André, Paoli. Ci sono cantautori
che hanno lasciato una forte impronta generazionale, perché il cantautorato
implica la presenza di un testo e di un messaggio, molto connotati in un dato
periodo storico, che col passar degli anni possono quindi perdere peso. In
molti cantautori il testo prevarica la musica, ad esempio in Fossati…
AB: Fossati?
Secondo me sì, per alcune cose sì…
AB: Ma se c’è un musicista
tra i cantautori è Fossati! Non il solo, per carità...
Quando io partecipai
all’antologia su di lui rileggendo Passalento, incontrai delle
difficoltà a trovare qualcosa nel senso della canzone da poter usare. Fossati
ha delle belle melodie, che però sono spesso molto brevi, molto intense ma
molto brevi. Scrive canzoni un po' anomale, che difficilmente ti metti a
cantare. Piuttosto De André, Paoli, e tutti i genovesi che vengono dal jazz.
AB: Non mi pare però che De
André venga troppo dal jazz, e non è poi così vero che Fossati non si canti, in
contesti più o meno informali. Per contro, se c'è uno cantato, in quest’ottica,
è proprio Battisti, per cui il gatto si morde la coda...
Sì, però jazzisticamente non è
così interessante: è questa la differenza.
AB: A parte E penso a te,
che non a caso Enrico Rava ha inciso la bellezza di vent’anni fa.
Tutti i cantautori italiani hanno
scritto canzoni molto belle. Alcuni, soprattutto la scuola genovese, provenendo
interamente dal jazz. Se rapportiamo questo immenso serbatoio al grande song
americano, c'è una forma che ti permette di evolvere in un discorso compiuto,
che non è fatto di un semplice frammento melodico, magari bellissimo, ma
jazzisticamente poco utilizzabile. Ecco perché Fossati, che pure è un
grandissimo musicista, è poco trasportabile, è jazzisticamente povero. Altri,
come Paoli, Bindi, Tenco, hanno proprio una forma interna che si ricollega al
grande repertorio americano: tu puoi prendere una data canzone, risuonarla
com’è cantata in origine, mantenerne la forma. Per questo sono critico nei
confronti di certe operazioni su Battisti: mi sembrano un po’ di comodo. Se hai
delle figure come Rea,
Bollani, Rava, in possesso di una coscienza musicale
sufficientemente forte, è un discorso, altrimenti rischia di diventare un qualcosa
di inutile. Quando la melodia è perfetta, straordinaria, incisa nella nostra
memoria come quella di certe canzoni americane o dei nostri cantautori, non c’è
molto da togliere o da aggiungere: basta ricantare le melodie, senza variazioni
e modulazioni. Se tu vuoi dare senso a quella melodia, la devi rispettare. Altrimenti
ne riscrivi una tua… Quindi trovo molto positivo che jazz e canzone negli
ultimi quindici anni si siano incontrati, però verso certe operazioni sono
critico. È una cosa, tra l’altro, che è accaduta in Italia, e forse solo in
Scandinavia e in Francia.
LB: Però a volte succedono
cose simili anche altrove, tipo le riletture dei Radiohead da parte di Brad
Mehldau…
Sono anche queste operazioni
interessanti, ma è sempre una questione di approccio: se c’è un amore profondo
verso la musica che intendi rileggere, difficilmente il risultato sarà
scadente. Quando mi sono imbattuto per la prima volta in Almeno tu
nell’universo, in un film di Muccino, non la conoscevo, non l’avevo mai
sentita, ma me ne sono innamorato subito. Ho scoperto poi che era un brano
famosissimo, ne ho ascoltata la versione di Mina, oltre che di Mia
Martini, tutte quelle esistenti, e poi, tre anni dopo, l'ho inserita in un
disco per la Blue Note. Ma solo perché mi aveva colpito fortemente: se l'avessi
fatto perché era un brano famoso, l’atteggiamento di partenza sarebbe stato
sbagliato, perché l’esigenza di base non era creativa.
AB: Una curiosità: come ha
approcciato Uri Caine E se domani?
Con la sua solita disponibilità:
gli ho dato la partitura, ha letto gli accordi, mi ha chiesto di suonarla, io
l’ho fatto (con la sordina, perché volevo una certa atmosfera, per mettere il
brano in chiusura del disco). Quindi l’abbiamo suonata due volte insieme: la
prima Uri ha accompagnato in modo più ritmico, ma io gli ho detto che non era
previsto alcun assolo, ma solo il tema, e quindi la seconda volta è stata già
quella finita sul disco. Uri è un grande armonizzatore: aggiunge di suo, ma mai
sconvolgendo l’assetto armonico originario. Aggiunge negli interstizi, con
grande rispetto per la partitura.
AB: Vogliamo dire due parole sul tuo prossimo disco, per Ecm?
Sarà in duo con Ralph Towner
e le sue chitarre acustiche. Le composizioni sono sue, con un omaggio a Miles
Davis. Esce a gennaio.
AB: Il primo disco per Ecm a nome tuo, giusto?
Sì, il primo. E ne sono molto
contento.