Quando e dove è nata Officina Pasolini?

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Tosca

Officina Pasolini, un polo culturale

Per non essere provinciali occorre possedere un villaggio vivente della memoria, a cui l’immagine e il cuore tornano sempre di nuovo, e che l’opera di scienza o di poesia riplasma in voce universale” (Ernesto de Martino)
Se non ci è mai andato (ed è male), chi vive a Roma Officina Pasolini dovrebbe quanto meno (sarebbe il minimo) averla sentita nominare. Per chi non vive a Roma, il nome completo è Officina delle Arti Pier Paolo Pasolini, un laboratorio di alta formazione del Teatro, della Canzone e del Multimediale sostenuto dalla Regione Lazio. Al di là delle forme istituzionali, Officina Pasolini è una bottega, ha i tempi, i modi e i maestri di una bottega. Al suo interno 75 ragazzi imparano a svolgere un mestiere, l’arte.
Se non li ha mai visti dal vivo (ed è male) chi vive a Roma questi artisti dovrebbe quanto meno (sarebbe il minimo) averli sentiti nominare. Alcuni nomi li troverete in questa chiacchierata con chi Officina Pasolini l’ha pensata, Tosca, che oggi cura la sezione della Canzone. L’abbiamo incontrata poco prima dello spettacolo Viaggio in Italia – cantando le nostre radici, avvincente concerto-fiume sulla nostra tradizione orale andato in scena il 15 settembre negli spazi en plein air dell'ex Cineporto, e messo in piedi dopo un anno di ricerche per mostrare come l’ultra-locale sia, in realtà, universale.  

Quando e dove è nata Officina Pasolini?
Officina Pasolini è nata alla Garbatella. Subito dopo l’insediamento di Nicola Zingaretti e Massimiliano Smeriglio la Regione Lazio tenne un incontro all’Auditorium Parco della Musica per accogliere proposte sociali e culturali, e lasciai il progetto pilota, perché a mio avviso a Roma mancava un polo di aggregazione dove i ragazzi potessero incontrarsi per accrescere il livello culturale della città. Sono quelle cose che fai come se giocassi al Lotto, e invece poco tempo dopo la Regione mi ha chiamata per sviluppare l’idea.

E come l'avete sviluppata?
Grazie all'accesso al Fondo Sociale Europeo, all’accoglienza del Teatro Palladium di Roma Tre... a un insieme di congiunzioni astrali positive. Il primo passo è stato un laboratorio di sei mesi, travolgente per tutti. Io stessa ero sempre lì a scoprire quanta bellezza ci fosse in città, e l’ho fatto con assoluto disincanto: ho iniziato nel Talent Scout con Renzo Arbore, però sono una ragazza del Classico di via Libetta e la mia formazione artistica l’ho fatta lì. Era il 1991-1992. La stagione successiva sarebbe stata quella de Il locale (storico club nel cuore di Roma dove sono cresciuti Max Gazzè, Daniele Silvestri, Niccolò Fabi e tanti altri, ndr). Erano dei posti autogestiti, concepiti per passare la serata assieme.

Luoghi differenti da quelli in cui vive la musica oggi?
La musica non era preparata al digitale, a Spotify, e si è svenduta alla televisione. L’unica sopravvivenza per i discografici è avere qualche vittima sacrificale per i talent. Personalmente non ho niente contro i talent, perché in realtà sono una bellissima finestra; ce l’ho col modo in cui vengono gestiti. Siamo la patria dell’acuto, dell’impatto immediato.

Tendiamo a trasformare tutto in spettacolo.
Una cosa che deve fare audience non può andare d’accordo con una che deve crescere. Sono tutti o.g.m., vengono gonfiati di continuo ma a volte c’è sostanza, a volte no. Officina Pasolini è il contrario, perché punta sulla costruzione calma.

Cosa è successo dopo quei sei mesi?
Quei sei mesi alla Garbatella sono stati fondamentali, e molti artisti sono emersi: per la canzone Mèsa, Antonio Rossi (in arte Rosso Petrolio, finalista a L’artista che non c’era 2016, ndr), Toto Toralbo; per il teatro Nico Di Crescenzo, che lavora con Emilio Solfrizzi, e altri che collaborano con Massimo Venturiello (coordinatore della sezione Teatro, ndr) per i nostri spettacoli; per il multimediale molti ragazzi hanno lavorato a diversi film e cortometraggi importanti. Dopo questi sei mesi la Regione, grazie a Laziodisu (Ente per il Diritto allo Studio della Regione Lazio, ndr), ha fatto vedere questo posto (il complesso residenziale ‘Ex civis’, costruito negli anni Sessanta, di fronte al Ministero degli Esteri, attuale sede di Officina Pasolini, ndr) a me e alla coordinatrice del Multimediale Simona Banchi: era tutto abbandonato e distrutto, ma noi abbiamo accettato la scommessa. Ci sono stati dei momenti difficili, in cui ho pensato di lasciare perché la burocrazia era opprimente. Invece ce l’abbiamo fatta.

Ma mancava ancora qualcosa.
Ci siamo resi conto che sei mesi non funzionavano, ed è nato il biennio. Mancava però la stazzatura più grossa, il terzo anno, che ci darà la possibilità di mettere in scena e far girare gli spettacoli, di produrre dischi e cortometraggi. Diventare una vera e propria Factory.

Un cambiamento anche dal punto di vista didattico.
Oggi anche quello che ha fatto due apparizioni al Grande Fratello ha voce in capitolo, mentre magari un grande commediografo non riesce a mettere in scena uno spettacolo perché non va di moda. La più grossa rivoluzione di questo posto è quella di dare in mano ai ragazzi la forza di dire “io sono qualcosa”, e non farli dipendere da qualcuno che gli dica “tu sei qualcosa”, o far sì che questo qualcosa non provenga dalla fama. In questo senso il terzo anno ci permetterà di sedimentare, di progettare.

È da questa progettazione che è nata l’idea di fare di Officina un Hub culturale?
Questo è un posto famelico, che si rigenera da sé, e standoci dentro ho scoperto quanto ce ne fosse bisogno: l’Hub culturale l’ha suggerito il posto. Prima facevamo degli incontri nei locali, ma con la nuova sede abbiamo ideato una piccola rassegna: Max Gazzè ha registrato qui Alchemaya, Carmen Consoli ha fatto una masterclass con i ragazzi, che hanno scritto canzoni nuove; Daniele Silvestri ha costruito qui il suo spettacolo (per i concerti del finale del tour Acrobati, ndr) e tornerà a fare un incontro. Mi piace molto la sua testa, è un artista speciale.

 A proposito degli artisti che hai appena citato, ci troviamo in una situazione quasi opposta a quella che loro hanno creato e vissuto con Il locale. Quella era una situazione partita dal basso, mentre per Officina Pasolini è stata un’Istituzione che ha accolto un’idea.
Un’idea che è comunque partita da noi artisti. Io ho contattato tante persone quando è partito il progetto, prendendomi anche diverse pernacchie. “Ormai”, mi dicevano alcuni, gli stessi che poi trovavi alla corte dei commercianti non per un bisogno, ma solo per la fame di restare in torta. Quello che dico ai ragazzi è che dipende da loro: se si tirano indietro, il gioco si rompe. Però oggi io vedo un’inversione.

Forse questa è la direzione giusta: opporsi, anche con le poche risorse che si hanno, a una fame di serialità inutile, che crea solo un vuoto.
Crea un pieno virtuale. Pensi di esserti riempito, ma il tuo ripieno è di scarso valore. La musica commerciale mi diverte, però la medaglia ha due facce, e io credo che una faccia sia completamente annerita. Allora viva Brunori, cantautore della nuova generazione, con un nuovo linguaggio poetico.

Cioè?
Oggi noi parliamo un altro linguaggio. Per me De Gregori parlava una lingua molto poetica, mio padre ascoltava Buffalo Bill, Rimmel. Oggi riconosco artisti come Brunori, Dimartino, Daniele (Silvestri, ndr), Niccolò (Fabi, ndr), che è una colonna a Officina, Max (Gazzè, ndr), ma anche Bianco, Motta, Truppi, Levante. Lei adesso sta facendo X-Factor e io sto a guardare, perché la reputo intelligente. Che non sia lei la traghettatrice del talent verso il giusto uso del mezzo.

Lo ha fatto anche Manuel Agnelli, che rappresenta un mondo musicale preciso. Forse non è tanto il fatto di andarci, ma il modo in cui si sta dentro quella scatola.
Magari quella scatola la trasformi, mettendoci determinate teste. Io non ce l’ho con quella scatola, ma col modo in cui viene gestita. Se prendi un ragazzo di Officina e lo metti su quel palco, gli dai un trampolino pazzesco; ma se gli fai cantare Flash dance, lo distruggi. Invece tutta la nuova generazione portoghese, che ci sta ammazzando per quanto è avanti, viene da lì.

Quindi sta all’artista puntare a diventare un’icona, magari grandissima, però forse vuota, oppure crearsi una poetica come cercano di fare i ragazzi di Officina.
Se te lo lasciano fare, sì.

Parliamo della rassegna “OFF-l’Estate non si spegne”, in programma dal 15 settembre all’8 ottobre. Il cartellone è completo?
Sì, e abbiamo fatto anche fatica, perché siamo a fine estate. L’abbiamo ideata e programmata in poco tempo per testare la nostra tenuta, perché l’anno prossimo a giugno riapriremo in versione estiva. Ho voluto provare per far sì che la gente cominci a prenderci la mano. Nei mesi scorsi abbiamo creato spettacoli bellissimi che sono passati quasi inosservati, quindi li riproponiamo. Abbiamo riaperto il Cineporto, dove venivo a vedere film e concerti da ragazzina. Era diventato un polo attrattivo estivo, poi è stato chiuso per quindici anni. Qui riportiamo il teatro all’aperto gratuitamente, e non lo fa quasi più nessuno. È un’ottobrata (sorride, ndr). Ci proviamo, lo facciamo con umiltà. Mi sento di dover ringraziare la Regione Lazio che ha creduto e continua a credere nel progetto. Siamo peraltro a Roma Nord, quindi l’asse è anche un po’ spostato, poco convenzionale.

È giusto spostare l’interesse verso qualcosa di diverso dai consueti centri e fornire una fruizione diversa anche dello stesso prodotto. È giusto puntare sull’ascolto.
Facciamo una cosa che ci piacerebbe andare a vedere. Vediamo la gente come reagisce. È una risposta culturale in una città allo sbando totale. Vorremmo cominciare a fare residenze per artisti indipendenti o piccole compagnie teatrali e creare un programma. Sarebbe un passaggio importante.

Questo creerebbe anche un’abitudine allo spazio.
Le richieste sono già tantissime e la direzione che valuta i materiali è composta da poche persone. Ma con pazienza ce la faremo.

Gli incontri continueranno?
Certo. A Natale vorremmo fare una rassegna di tutti i più bei film, concerti e spettacoli legati al tema.

Passiamo a Viaggio in Italia. Diventerà un progetto discografico?
Ci stiamo pensando. È stato un esperimento e nessuno si aspettava questo risultato, abbiamo iniziato a novembre 2016 e abbiamo finito a maggio. I ragazzi all’inizio non volevano farlo, invece grazie a questo lavoro hanno cambiato modo di scrivere. Con Felice Liperi abbiamo ascoltato qualunque canto possibile.

Spulciando nelle teche Rai in effetti si trovano registrazioni di canti popolari da tutte le regioni.
È quello che abbiamo fatto noi. Felice Liperi individuava le macro-aree, l’arbëreshë, il ladino, la taranta, il romanesco. Poi i ragazzi trovavano altro materiale, oppure andavano a casa e registravano gli anziani, e tornavano con dei canti stupendi. Francesco Anselmo è andato sulle montagne della Madonìa, Carlo Valente ha fatto lo stesso nel reatino. Abbiamo fatto un po’ i Lomax (sorride, ndr).

È rimettere all’uso qualcosa che abbiamo dimenticato. Il titolo dello spettacolo è la sintesi giusta: viaggio, perché i canti provengono da tutte le regioni; canto, perché è l’essenza della nostra tradizione, delle nostre radici.
D'altronde il canto serviva per comunicare. Abbiamo fatto una masterclass con Bubola, che diceva che i cantastorie erano fondamentali perché erano come il nostro telegiornale. Il nostro spettacolo è costruito a quadri: la guerra, il lavoro, le ninne nanne, la festa, l'amore, tutte le emozioni del nostro popolo.

Con Il suono della voce tu hai cercato le canzoni del mondo, e con questo spettacolo è come se fossi tornata a casa.
Per me è sempre stato così, è come se quello che mi circonda mi faccia svalutare la mia realtà. Per capire quello che possiedi vai a cercarlo fuori, ma ti rendi conto che il tesoro ce l’hai in casa. Chissà com’è che non siamo mai fieri di quello che abbiamo.

C’è una frase di Pavese ne La luna e i falò che dice “un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”.
Certo, come Pessoa diceva che se tu vuoi, la musica del popolo ti protegge. Magari è una semplice melodia, ma pure una ninna nanna ti consola e ti fa sentire a casa. In un mondo che corre ci siamo presi il lusso di andare a vedere un film non in bianco e nero, addirittura un film muto. La libertà costa.

Ma alla lunga si prende i suoi spazi.
Tanto dovemo morì. Nella mia carriera a volte ho vissuto con 1000, a volte con 1. Quando facevo finta di vivere con 1000, ma quel 1000 non era mio, stavo male e mi vergognavo. Ha ragione Patti Smith quando dice che siamo il nostro unico capitale: la fama è effimera, finisce, l’importante invece è quello che lasci, le tue canzoni, il tuo modo di essere.

In fondo è un modo di esprimere se stessi.
Scrivere o fare canzoni è costruire. Ogni concerto, ogni spettacolo è come un figlio, quindi mi vergognerei a mostrarlo sapendo che non mi rispecchia. Magari un disco in cui ti rispecchi vende dieci copie, ma sei fiero di quelle dieci copie e orgoglioso di farlo ascoltare. Il periodo più brutto per me è stato dopo Sanremo: avevo tutto e non avevo niente, ero disperata. Sei alla continua ricerca di una cosa che non conosci e che ti distrugge, perché più si alza l’asticella e più devi rincorrere. Ma al successo non si può correre dietro, perché si commettono degli errori. Non ti riconosci più, cerchi dagli altri di capire se stai facendo bene o meno, perché non vuoi perdere quello status.

Invece Officina è un lavoro di qualità.
Noi siamo a servizio, non abbiamo la pretesa di dire “questo sì, questo no”. Non facciamo altro che prendere quello che i ragazzi fanno e cercare di trovargli il prato giusto dove mettere i semi, ma non gli diamo i semi. Quelli sono i loro.

 

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