Antonio Dimartino
Prendendo spunto dal titolo del tuo ultimo lavoro, Un paese ci vuole, vogliamo giocare un po’ con la geografia. Sappiamo che sei reduce da un viaggio in Cina. Come è andata? Come è stato viaggiare in un Paese tanto grande, composto anche da paesi tanto piccoli?
In realtà la Cina è un Paese grande composto da città immense. Col treno mi fermavo in posti che avevano nomi a me sconosciuti ma in cui abitavano tra gli otto e i dieci milioni di persone. È un luogo surreale per certi versi, ma nello stesso tempo iper reale perché vedi il paesaggio cambiare in maniera schizofrenica, passi dal paese rurale in cui non hanno mai visto un occidentale, alla metropoli con il centro Apple più grande dell’Asia.
Come è nato il tuo ultimo disco Un paese ci vuole? Quale è stata la spinta alla sua stesura?
È nato dalla voglia che avevo da un po’ di tempo di raccontare la dimensione umana del paese, le dinamiche di porto che alla fine accomunano tutti quelli nati e cresciuti in piccoli paesi.
Il titolo è una citazione di Pavese; in diverse tue canzoni sembra risuonare qualcosa di Pasolini…quale è il tuo rapporto con la letteratura e in che modo influenza, se lo fa, la tua musica?
Pasolini l’ho citato una sola volta in una mia canzone che si chiama Cercasi anima che ho scritto nel 2006. Non l’avevo citato per una questione intellettualistica, mi interessava solo da un punto di vista iconografico. Ho riportato alla luce l’immagine che nella mia infanzia avevo avuto di quest’uomo, con gli occhiali scuri, della cui morte i giornali parlavano spesso. Leggo molto, però non so quanto effettivamente sia la letteratura che influenzi la mia musica, è piuttosto il cinema a farlo.
La tua vicenda biografica testimonia una geografia “piccola”, locale… come è stato nascere e crescere a Misilmeri? Dove vivi ora e quale rapporto hai con il tuo paese natale?
Vivere in un paese ha avuto i suoi risvolti sia positivi sia negativi. Naturalmente è un’esperienza che, con la crescita e soprattutto in questo periodo storico, ti porta a partire spesso. Vivere in un paese del Sud oggi è quasi una condizione di passaggio, nel senso che lo sai già che prima o poi dovrai andare via per cercare lavoro. Questo ti pone davanti a scelte che dipendono dalla geografia più che dalla storia. Io, in verità, non me ne sono mai andato del tutto, ci torno ogni settimana.
L’attenzione ai paesi, il senso di radicamento che si ritrova nel tuo lavoro, ha ispirato anche il lancio del tuo disco. Hai distribuito l’album in anteprima mediante uno “streaming localizzato”.
La mia idea era quella di una specie di caccia al tesoro, volevo nascondere dei dischi in diversi paesi italiani. Però per una questione di fattibilità mi è stata suggerita la strada della geolocalizzazione: in pratica lo streaming del disco si attivava solo se ti trovavi in uno dei 350 paesi italiani che avevamo indicato in una mappa.
Le canzoni del tuo disco parlano di luoghi ma anche di un “tempo lento”. È più facile viverlo in un piccolo paese? Lo stesso disco richiede tempo: non è orecchiabile, non è “pop”, necessita di essere ascoltato, meditato… richiede appunto tempo.
La percezione del tempo, in un paese, è sicuramente diversa rispetto a quella che si ha vivendo in una grande città. Mi capita, quando ritorno dopo molto tempo, di vedere i cambiamenti subito appena entro in paese. Cambiamenti dovuti all’apertura o alla chiusura di un negozio, oppure legati all’incontro con un vecchio compagno di giochi o solamente alla visione della piazza principale, in cui quelli che quand’ero piccolo erano i vecchi non ci sono più e i vecchi di adesso sono i signori di mezza età che incontravo per strada quando ero piccolo.
Il tuo disco parla molto di migrazioni e migranti. Un tema attualissimo per il nostro Paese. E tu cosa pensi sulla “geografia che divide le anime?” Cosa hai “da dichiarare”? Nel tuo disco sembra che la geografia unisce nel piccolo orizzonte, e divide nel grande. Come invertire questa tendenza?
Penso che, dopo Parigi, si sia amplificata la paura per lo straniero ovunque, anche nei piccoli paesi. Questo naturalmente rallenta tutti i processi migratori che consentirebbero a milioni di persone che scappano dalla guerra, di costruirsi una nuova vita in Europa. Non credo si possa più invertire la tendenza, forse solo se al posto delle bombe gli stati cominciassero a prendersi veramente cura dei ghetti che la nostra società ha costruito negli anni dentro le città si potrebbe mettere uno stop alla deriva dei nostri giorni.
La vita nuova narra di una “fuga”, un viaggio alla ricerca di qualcosa di meglio e il ritorno in patria. Hai mai desiderato fuggire? O tornare, come Vincenzo…
Ho da sempre desiderato di fuggire, non ci sono mai riuscito del tutto. Non so cos’è che mi trattiene qui, forse solo la voglia che ho di raccontare la mia terra, le storie a cui sono legato.
Quali sono i tuoi principali riferimenti musicali? Come confluiscono in questo tuo nuovo disco?
Ce ne sono tanti che sono rimasti sempre gli stessi, non ascolto moltissima musica nuova. I Pink Floyd, De Andrè, alcuni cantautori francesi e ultimamente molta musica sudamericana.
A Un paese ci vuole hanno collaborato Cristina Donà e Francesco Bianconi. L’estate scorsa ti sei esibito sul palco del Carroponte, a Milano, insieme al tuo collega e amico Colapesce. Cosa aggiunge una collaborazione di valore al tuo fare musica e alla tua esperienza?
L’empatia con la persona con cui collaboro vale anche di più della stessa creazione artistica. Mi piace collaborare con anime belle, cercare in loro un’ispirazione, un altro modo di sentire una canzone e di interpretarla.
Un’ultima domanda: conosci Civita di Bagnoregio, il “paese che muore”?
Ne ho sentito parlare, e mi sono promesso di passarci presto. È bellissima e nello stesso tempo triste l’idea di un paese che sta morendo perché costruito sull’argilla in continua erosione. Se ci pensi è una motivazione legata alla natura, non a contingenze sociali o all’indifferenza che lo stato ha avuto e continua ad avere nei confronti dei paesi terremotati.
Alcune foto di MIchela Forte
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