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Giovanni Baglioni

Una chitarra in fiamme

Uno dei fiori all’occhiello per il Folk Club di Torino, è stato fin dai primi tempi l’avvicendarsi di prestigiosi chitarristi acustici, i cosiddetti virtuosi, provenienti da tutte le parti del mondo, non ultima l’Italia. Un genere di nicchia forse, che ha sempre fregiato l’illustre locale di via Perrone con stelle di prima grandezza.
Di qui sono passati maestri, la cui presenza è stata uno dei capitoli più caratteristici nella storia della “cave”. Tanto per fare qualche esempio, sono transitati Pierre Bensusan, Ralph Towner, Alex De Grassi, Don Ross, Soig Siberil, Tony McManus, Beppe Gambetta, Franco Morone, Peppino D’Agostino, Peter Finger, Bert Jansch, Leo Kottke, John Renbourn e quanti altri, anche grandissimi, per un elenco che richiederebbe quarti d’ora di lavoro. L’ultimo arrivo per proseguire tale nobile tradizione, è stato Giovanni Baglioni, figlio, ça va sans dire, del ben noto Claudio. Anima Meccanica, è stato finora l’unico disco pubblicato da Giovanni, allievo di un altro pezzo da novanta del panorama italiano quale Pino Forastiere, uscito nel 2009. Incontriamo Giovanni dopo il soundcheck nel confortevole camerino del Folk Club.
Simpatico, amichevole, molto colloquiale, sorridente e pronto alla battuta da buon romano, ci mette subito a nostro agio con la sua generosa eloquenza, in attesa di un concerto che sarà fiammeggiante e ricco di colori, a continuare una tradizione che richiama nel locale miriadi di chitarristi e gente da tutta Italia.

 

In che modo e in che misura ha influito l’apprendistato con Pino Forastiere?
Ha influito molto. È stato determinante, anzi, per quanto, poi tutti i percorsi non siano mai frutto di una cosa sola, di un incontro solo e abbiano le loro complessità. È stata probabilmente la figura di riferimento più importante. Non l’unica, ma la più importante.

In che cosa si differenzia il tuo modo di suonare la chitarra acustica dal suo?
Io credo di aver appreso da lui e di essermi confrontato, più di aver mutuato tante cose della musica. La cosa che più mi ha colpito da quando ho cominciato a studiare con lui, riguarda il primo incontro. Ci siamo parlati per tre ore e abbiamo suonato un quarto d’ora. Ciò, all’inizio, mi ha molto colpito. Lui dava importanza al perché della musica e a tutto il pensiero che le sta dietro, alla sua dimensione acustica, alla dimensione fisica di vibrazione. Il metodo, l’approccio, l’interrogarsi sul perché, sull’attenzione e la consapevolezza di quello che stai facendo, le tecniche, sul farmi sentire Michael Hedges. Mi ha indirizzato verso altre cose. Non mi ha mai detto “devi suonare come me”. Ho imparato i suoi pezzi, li ho amati, li ho studiati, li ho ammirati. È stata la cosa migliore che ci si potesse augurare, un punto di partenza (qui a fianco Pino Forastiere).

Quali sono, i tuoi modelli, fuori dall’Italia, nel genere dei chitarristi virtuosi?
Tommy Emmanuel è adesso il mio modello tecnico. Non credo che si possa ricondurre tecnicamente quello che faccio adesso a Tommy Emmanuel. Da lui sono stato colpito da fruitore. Non ero un musicista, non avevo alcuna ambizione di diventare un chitarrista acustico. Poi ho conosciuto la sua musicalità estrema. Ai concerti la gente canta i suoi pezzi. C’è una melodia sempre molto penetrante, molto tradizionale, quasi folk in certi momenti, con tutto il bene che si può attribuire a questo vocabolo. Emmanuel è stato un punto di riferimento per la chitarra acustica come strumento solista. Attraverso Pino ho conosciuto invece Michael Hedges che per Pino stesso è stato proprio una specie di mostro sacro. Più per lui che per me. (Parliamo del tragico incidente che ha ucciso prematuramente il musicista americano, così come ce lo ha raccontato, una sera, Leo Kottke, il quale insisteva sulla precarietà dell’auto sulla quale il chitarrista viaggiava per strade impervie. Mi ricorda Giovanni che non avrebbero trovato subito il corpo e che avrebbe agonizzato per un giorno).

Ritieni il manico della chitarra e la melodia un mondo ancora parzialmente inesplorato e continui nella ricerca di frasi musicali, arpeggi, effetti?
Un’altra cosa che mi ha colpito molto è stato l’approccio di Pino rispetto a quello di Tommy Emmanuel. Mi sono interrogato per tanto tempo, su questa cosa, se fosse un bene o un male, o forse nessuna delle due cose. La musica di Pino ha senso solo quasi esclusivamente sulla chitarra acustica, quella di Emmanuel ha senso anche su un altro strumento. Non ho mai capito se questa sia una condizione del ricercare o no. La musica di Pino è proprio sullo strumento, sulle sue peculiarità, sui suoni che tira fuori, e quindi, in questo senso c’è molta profondità. Ho scritto per questo primo disco e poi mi sono quasi imposto di volerne fare anche un altro sulla chitarra acustica. Non perché non mi interessi pensare anche a collaborazioni e a pensare di suonare io stesso altri strumenti.

Mi stai quasi anticipando…
La ricerca sulle potenzialità della chitarra acustica, mi sembra un filone assolutamente ricco, non esaurito.

Quindi c’è ancora da esplorare…
Sicuramente, timidamente.

Suoni qualche altro strumento?
Il pianoforte, perché mi sono accorto di voler cercare la polifonia. Sulla chitarra puoi fare una ricerca timbrica molto più profonda, così come sul violino sei ancora meno polifonico. Sulla chitarra, il controllo che hai sull’esecuzione di una nota è estremamente più alto. È una dinamica che cresce e si abbassa. Sul pianoforte, una volta che hai schiacciato il tasto decade.

Mio figlio ha fatto uno stage con Bensusan …
Anch’io l’ho fatto. Nel 2010. Pino mi fece ascoltare un disco di Pierre, Intuite. Era devastante. Ho imparato a fatica due pezzi. Ho due libri di Bensusan. C’è lo spartito, la ricerca. Può anche non piacerti, ma ha una sua cifra che lo distingue.

Quali chitarre possiedi?
Utilizzo al 90% quella di questa sera (è una Martin n.d.r.).  La prima chitarra acustica degna di questo nome è stata una Takamine, uno strumento che non ha il prestigio di altri marchi ma che, secondo me, è efficace. L’ho utilizzata tante volte. Poi ho rubato indebitamente a mio padre una Martin del ’73, la D 41 che però era in una condizione un po’ precaria perché mio padre mi aveva detto che vi era cascato un faro da palco sopra. Poi era stata ricostruita da Tomassone, un liutaio bolognese, molto molto rinomato. Una chitarra che si porta appresso una cicatrice... L’ho usata in qualche concerto. È stata più una velleità. La metti lì sul palco…

I titoli dei brani strumentali, come nascono, sono assegnati più o meno casualmente o hanno una precisa ragione di essere?
Ce l’hanno sicuramente. Secondo me è importante per te stesso che li scrivi avere un’idea che li contraddistingua. Molta musica strumentale si rifà in maniera quasi vaga alle ambientazioni. Magari sono anche pezzi bellissimi …  Mi piace pensare che abbiano la dignità di avere la precisione di un concerto, di una storia, come ce l’ha una canzone. È il frutto di un pensiero. Secondo me, la musica strumentale, pur non contenendo le parole non ha di meno quel tipo di matrice.

Sono passati otto anni dall’unico disco che hai prodotto, 'Anima Meccanica'. È una parsimonia espressiva o mancano occasioni?
Un concorso di fattori. Un po’ perché secondo me ho perso l’attimo di farlo uscire. Passato quell’attimo che poteva essere la distanza di un paio d’anni, ho cominciato a sentirne sempre di più l’esigenza. A quel punto sono passati quattro anni. È stata una specie di maledizione che mi si è ritorta contro. Avevo la consapevolezza di aver fatto passare un po’ di tempo e che avrei dovuto dare di più. Altri pezzi li ho composti almeno nel loro nucleo. Ho finito di registrarli adesso e sicuramente siamo nella fase della modifica, del perfezionamento anche compositivo. Il loro nucleo è da un po’ di tempo che c’è e alcuni brani li suono questa sera.

Come sei diventato un virtuoso della chitarra e non un cantante?
In maniera molto lineare. Se uno la prende dal punto di vista della cultura maggioritaria, senza guardare l’accezione negativa… sembra un po’ una scelta strana. Mi sono fatto guidare da quello che mi colpiva. Non che non mi piaccia la musica cantautorale. L’apprezzo e l’ascolto. Però, quando ho sentito Tommy Emmanuel, in me è scattata una scintilla. Mi ha colpito forse anche per il fatto che fosse più inusuale. Mi sono detto, è possibile che in vent’anni non ho mai neanche sentito e immaginato che fosse possibile fare questa roba? È stata tale l’emozione della scoperta che mi sono sentito tirato dentro. All’inizio mi sentivo quasi un pioniere, poi ho scoperto che c’erano anche altre parole. Sicuramente meno che per quelli che vogliono fare i cantanti. Al seminario di Emmanuel mi sembrava di essere fra i carbonari (qui sotto Emmanuel in concerto).

Una predisposizione forse? (aggiunge Marinella Fabbris che è con me)
Forse sì, ma non so quanto manualmente. Se fai il salto in alto devi anche essere predisposto biologicamente …  Ho la sensazione che molte persone abbiano una certa potenza e che la direzione verso la quale la esprimono, tante volte sia dettata dal caso. Uno poteva diventare un grande suonatore di bouzouki, ma non lo ha mai incontrato. C’è tanta casualità e ciò non leva la magia.

Suoni sempre da solo o sei stato in gruppi?
In gruppo quando ero adolescente per un fenomeno di tipo sociale, aggregativo.

Vieni dal liceo classico?
Ho fatto lo scientifico, ma sono sempre stato appassionato dal gusto per la parola.

In questo locale hanno suonato campioni della chitarra, da Bensusan a Franco Morone, da Leo Kottke ad Alex De Grassi, tanto per citarne qualcuno…
Sono contento di averlo appreso appena adesso e non prima, altrimenti… L’avevo intuito. In realtà, qui, più che in altri posti, l’aura è positiva più che responsabilizzata.

È la magia del Folk Club… 
Più che l’importanza mi è stata trasmessa la gioia, la partecipazione. “Mettiamolo qua questo microfono …” C’è una partecipazione volta ad essere insieme, finalizzata al risultato. Mi sono sentito compagno. Altrove, percepivo la pesantezza. Qui, la gioia.

Perché in Italia, salvo rare eccezioni, secondo te, la musica per chitarra non riveste questo grande interesse?
Non l’ho testato, ma tutte le informazioni che ho in merito confermano questo discorso. In altri paesi, c’è un’attenzione, una conoscenza, un mercato superiore. È una questione di cultura, di tradizione, una cultura di più ampio respiro e di disponibilità a scoprire un mondo che è meno nel “mainstream”. Forse c’è una predisposizione. Qui c’è più convergenza verso il n.1.

Conosci Acoustic Music, l’etichetta per chitarra di Osnabrück?
Sì, c’è un mio amico che è in contatto con loro.

Ascolti altri chitarristici acustici o preferisci non lasciarti influenzare?
Li ascoltavo con più serenità quando mi consideravo più studente. Da quando sono venuto a contatto con la pesantezza del professionismo, la bellezza e la capacità altrui, ho cominciato a mettermi un po’ più di ansia. Non invidia. Quando sento, per esempio, la precisione, la chiarezza di Erik Mongrain (qui nella foto), chitarrista canadese, sto male … Mi sminuisce talmente tanto … Quando si è studenti si è più invogliati. Non hai aspettative ed è tutto da scoprire. È ‘giusto’ che tu non lo sappia fare così, perché lo stai imparando… Non è che non si sia umili, pero senti quasi che dovresti saperlo fare. Invece lo fa lui. In generale comunque non li ascolto tantissimo. Li ascolto quasi di più con il piacere di farli scoprire a una terza persona.

Suoni all’estero? In Germania, in Olanda, soprattutto, c’è molta attenzione per i virtuosi della chitarra…
È un pochino che non mi capita. Ci sono state un paio di occasioni in cui sono andato con Pino Forastiere. In America e in Canada. Andy McKee… Ce ne sono diversi in Canada. Ho conosciuto Don Ross, John Gomm, quello di Passion Flower… dove lui fa tanto. Più de quello nun se po’ ffà! Usa delle meccaniche…

Come faceva Bensusan
Ha degli incastri … Mi mette un po’ d’ansia. L’ho conosciuto di persona.

Con Bensusan avrai imparato “l’Alchemiste”…
Sì, mi ha fatto preparare su quello. Per me l’esempio è il pezzo tratto da “Intuite”, La hora espanola. Dura sette minuti ed è una cosa di grande espressività.

E a Roma, quali sono gli spazi?
Stazione Birra è un bello spazio. Molto grosso. Ci sono stati chitarristi importanti come Preston Reed, Tommy Emmanuel, Bensusan.

Non sarà silenzioso (aggiunge Marinella)…
È un locale musicale importante. Ha un impianto molto bello. C’è cura ma è un po’dispersivo. Birreria, pizzeria… È un’altra cosa. C’era una volta il The Place, l’ex Talent Scout, se non sbaglio. Era un posto dove c’era bella musica. Ho incominciato a fare la mia prima data a Roma, lì. Mi avevano dato uno spazio mensile. Era un bel locale. Capossela, Tuck & Patti, Concato…

Nel tuo disco ringrazi Claudio Baglioni. Ti ha incoraggiato?
Non mi ha incoraggiato, ma ha sempre riconosciuto le cose che faccio come un ultimo valore. Mi ha confermato.

C’è una canzone in cui lo hai accompagnato…
Ne abbiamo fatta più di una, Via ad esempio, e sono riuscite abbastanza bene.

Capacità di avvicinare due mondi completamente diversi, dunque?
Siamo riusciti a trovare la quadra. Sono molto soddisfatto di quello che abbiamo fatto. Ho trovato la chiave giusta.

Anche lui ha saputo adattare il suo mondo al tuo …
In realtà, quando ho fatto Dieci dita, la mia partecipazione era di quattro o cinque pezzi.

Ci vengono a chiamare perché si approssima il tempo del concerto. Ci separiamo, e almeno io con un po’ dispiacere, nella convinzione che si sarebbe potuto andare avanti e che lo spirito era quello giusto, simpatico, ridanciano e di piena, non comune sintonia. Del resto, chi scrive è nato lo stesso giorno, lo stesso mese, lo stesso anno del papà del giovane chitarrista. E Giovanni lo sa. 

Ringrazio Marinella Fabbris, per la sua appassionata, calda e competente partecipazione. Non solo il mio tecnico del suono, ma un arguto e attento nume tutelare.

(tutte le foto di Giovanni sono di Marinella Fabbris e Francesco Caltagirone, tranne quelle degli altri artisti citati che sono prese dai rispettivi profili facebook)

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