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Lilith Festival: Genova tra pop, rock ...

di Alberto Calandriello Periodo di intensissima attività per l'Associazione Culturale Lilith, punto di riferimento per la cultura a Genova ed in Liguria, che da pochi giorni ha dato il ...

Maria Rossi

Lotte di note

Eppure si muove, eccome. Basta ricordare l’autunno caldo operaio ’69 con la sua colonna sonora scioperante, orchestre on the road munite di fischietti, con il rullare di tamburi e un canzoniere tutto di lotta e di protesta. Note in movimento, dunque per una stagione che ancora oggi appare sospesa ad un filo. Dal ’68 (fantasia al potere, uno slogan) al ’77 (decreto lo stato di felicità permanente, scritta su un muro). Furori politici, controculture, megafoni e microfoni. Se prima c’erano stati l’emblematico “evadere dall’evasione” del Cantacronache (con il suo sapore di appello classista), il copiare derivativo del “bitt” italiano e la più percettiva esperienza parallela beatnik, antimilitarista, pacifista e un tantino jazzy di “Mondo Beat” e dintorni, è con l’avvicinarsi del cambio di decennio che molti scenari cambiano. Fortemente influenzati dalla critica anti-sistema, dalle piazze stracolme di manifestanti con i propri vessilli, dal mettere in discussione ogni palazzo o palazzina istituzionale. Ed è così che una buona fetta del mondo della canzone/canzonetta inizia ad osservare con occhi diversi, vuole essere partecipe, va alla ricerca di nuove traiettorie. Non può fare a meno di porsi un groviglio di domande, bussa ed entra dove si è soliti fare comunella con l’imprevedibile. Perché anche quando tutto sembra essere programmato e a puntino, c’è sempre una variante in più a fare la differenza. Ciò è dovuto al fatto che i flussi desideranti sono impossibili da contenere e da perimetrare. Vale piuttosto l’essere fautori e testimoni dell’andare oltre.

Maria Rossi, già autrice di Contro i padroni della musica. Dai festival alternativi ai festival autogestiti, edito da Unicopli due anni fa, in questo nuovo lavoro interagisce con gli stati d’animo, i cambi d’umore, le speranze, le delusioni, il continuo susseguirsi di dibattiti a tutto campo che attraversarono quegli anni. Certezze e perplessità. Nel pensare e nel conseguente agire. “Anni di pongo” li definì Roberto Freak Antoni e c’è da credergli. Dove risultò inevitabile immergersi in diverse sfaccettature e pulsioni, fare incetta di sfide, imbastire nuovi immaginari. Anni veloci tanto che la scrittrice li suddivide per periodi. Ed è così che emergono inedite riletture di tradizioni popolari, analisi di molti testi come Contessa di Paolo Pietrangeli (nella foto), di O cara moglie di Ivan Della Mea, Bocca di rosa di Fabrizio De André (la sua figura libera, vitale, gioiosa si staglia contro le convenzioni ipocrite e grette di una società ancora segnata dalla repressione sessuale e dalla doppia morale). Anche se nell’anno simbolico ’68 i dati di vendita dei dischi non sono per nulla ribelli. Anzi, sono a vantaggio di brani che poco o nulla hanno a che fare con i cambiamenti sociali e molto a che fare con l’industria del divertimentificio dell’epoca. Così come nel ’77 l’anno più conflittuale sul piano politico-culturale a svettare nelle superclassifiche ci furono le hit della denigrata disco-music. Accusata di essere un genere musicale seriale. Poco percepita in certi ambiti, ma anche dopolavoristica (tanto quanto il ballo liscio) e che ebbe tra i suoi maggiori sostenitori minoranze discriminate e classi sociali in perenne affanno. Nel bel mezzo, la sfornata de I Dischi del Sole, gli inni delle organizzazioni della Nuova Sinistra, i relativi comparti culturali (Circoli Ottobre, Circoli La Comune, Commissione artistica del Movimento studentesco, Lega del Vento rosso con la quale esordì Pierangelo Bertoli). Le animate discussioni in cui dividersi sul rock (anticonformista o tutto sommato musica filo-capitalista?), i grandi raduni all’aperto. Dai festival pop alle feste del proletariato giovanile, alle quali la Federazione giovanile comunista mai partecipò, mentre quella socialista e il Partito radicale insieme ad altre sigle sì. Gli autoriduttori ai concerti, le contestazioni (quella più clamorosa e controversa la subì Francesco De Gregori: quanto prendi a concerto?), la lunga marcia del rock progressivo tra guizzi creativi ed insipidelungaggini. Le riviste “Re Nudo”, “Muzak”, “Gong” e il più massificato settimanale “Ciao 2001” con tanto di paginetta in compagnia dello psicologo. Gioia e rivoluzione, jazz in Umbria e nelle Università, etichette indipendenti (Cramps, Cooperativa L’Orchestra, Ultima Spiaggia, ecc.). La nascita e il diffondersi su tutto il territorio nazionale (in particolare a Milano e nel suo hinterland) dei Circoli del proletariato giovanile che in molti casi furono di “soccorso” all’entrata in crisi delle organizzazioni politiche extraparlamentari sempre più forma-partito e sempre meno movimentiste.

Il personale è sempre più politico (e viceversa), si assiste all’emergere di nuovi soggetti sociali che vogliono avere voce: apprendisti, garzoni di bottega, precari, disoccupati, non garantiti, periferici. Che ebbero un importante ruolo nel praticare autoriduzioni dei biglietti del cinema, nell’organizzare concerti autogestiti, nell’occupare spazi da adibire come alloggi o come centri sociali. Avvenne un cambio di stagione nella stagione. Ad esempio, nel ‘76 a Milano, si va dal caos dell’ultimo Parco Lambro, al convegno dei circoli all’Università Statale (“abbiamo dissotterrato l’ascia di guerra”), alla violenta contestazione della prima alla Scala (non più il lancio di uova contro pellicce e costosi vestiti ma violenti scontri con le forze dell’ordine con tanto di molotov, lacrimogeni, spari e molti feriti). Anteprime del ’77, dodici mesi e più con indiani metropolitani, femministe, autonomi, volti dipinti, volti coperti quanto ricchi di esplosive espressioni creative. Basti pensare allo sbocciare di centinaia di fanzine e alle molte radio libere che diedero ampio spazio ad artisti che nei canali ufficiali non erano mai riusciti ad avere. Maria Rossi fa bene a soffermarsi sulle figure di
Claudio Lolli (Disoccupate le strade dai sogni è l’album più rappresentativo del Settantasette) e di Gianfranco Manfredi ( Ma chi ha detto che non c’è, il più noto brano inserito nell’album del ’76 “Ma non è una malattia”, celebrando il connubio tra personale e politico, costituisce uno splendido compendio delle istanze valoriali del movimento). E così si giunge al bolognese Centro d’Urlo Metropolitano (futuri Gaznevada), alle prime avvisaglie punk dapprima estetiche (ricordate il look sanremese di Anna Oxa?) poi caricate di contenuti.

Maria Rossi realizza un libro che viaggia a briglia sciolte tra le controculture e il mare mosso della politica, è ultra-documentato grazie a reperti d’epoca e possiede una narrazione fortemente “ospitale” che di sicuro non guasta. Anche se in questa avvincente “teca-scrittura” avrebbe aggiunto ulteriore linfa il soffermarsi maggiormente su
Giorgio Gaber (colui che non le mandava a dire a destra e a sinistra) e sugli Skiantos (senz’altro tra i più frizzanti). Bonus Tracks: e nel ’78 e ’79? Si sdoganò definitivamente il ballo rock, non più solo tarantelle e irish-dance, mentre la discoteca non fu più tabù per certi schieramenti dopo essere stata febbricitante al sabato sera ma pure stretta nella morsa dell’affermare che “John Travolta è una tigre di carta”. Due significative kermesse: “Bologna Rock” e “Rock e Metropoli” a Milano che inaugurarono nuovi percorsi per la musica Made In Italy.  

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In dettaglio

  • Artista: Maria Rossi
  • Editore: Stampa Alternativa
  • Pagine: 325
  • Anno: 2020
  • Prezzo: 20.00 €

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