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di Alberto Calandriello Periodo di intensissima attività per l'Associazione Culturale Lilith, punto di riferimento per la cultura a Genova ed in Liguria, che da pochi giorni ha dato il ...

Matteo Guarnaccia

Re Nudo Pop & altri festival

“È stato bello. Poi è stato gratis. Non si pagava per entrare e non si era pagati per suonare. Poi è stato libero. Mancando la polizia e quindi l’autorità, e quindi il ricordo di come ci si “deve” comportare ogni giorno nelle nostre città, nella nostra società, nel nostro così poco libero ambiente, molti hanno, forse per la prima volta, allentato il freno dell’inibizione, dell’angoscia, della paranoia. Qualcuno ha detto che a Ballabio si era “fuori dal mondo”, ma in ogni caso si era in quel piccolo mondo creato dai suoi abitanti, dove legge era legge creata direttamente, senza mediazioni, da NOI.”

Claudio Rocchi, da Ciao 2001, 1971.

 

La prima sensazione di chi legge gli evangelari del credo freak dei Festival Pop è quella dell’incredulità.

Re Nudo Pop è un racconto che non vuole esser nostalgico ma che lo diventa inevitabilmente. Perché i protagonisti dell’italico flower power sono stati comunque, consapevolmente o per caso, artefici e cronisti di un’utopia veramente realizzata, seppur con incidenti e solo per un breve, fulmineo periodo. Buone vibrazioni, boschi pieni di comunità di musicisti emergenti, mistici avventurieri, giornalisti spericolati, attivisti situazionisti, militanti ancora idealisti, quasi sognatori. Matteo Guarnaccia, vero guru artistico del tempo, e tutt’ora noto pittore, illustratore e scrittore, decide di regalarci ripetuti giri di giostra con la sua piccola enciclopedia freak, Re Nudo Pop & altri festival,un succulento box multimediale contenente libro, dvd e cd, che ci introduce in un universo ben preciso già dal sottotitolo-antifona: Il sogno di Woodstock in Italia 1968-1976. Con premura filologica l’epopea dei festival rock viene difatti preceduta da un esplicativo excursus relativo alle origini del fenomeno pop: dalle scorribande r’n’r di Chuck Berry e Buddy Holly (le celebri “cavalcades” per le cittadine di provincia degli States), passando per gli “scandali elettrici” di Dylan al Newport Festival del 1965 e gli Acid Test di Ken Kesey, il passo verso i Jefferson Airplane e il desiderio generazionale di esprimere un’euforica e rabbiosa rivoluzione culturale è breve, febbrile. Nasce il ’68 parigino e americano, con tutta la sua mitologia e i suoi santuari, da Monterey fino all’Isola di Wight, passando ovviamente per Woodstock, l’happening punto di non ritorno, di cui si riempiranno tutti la bocca per simboleggiare l’evento capellone & stonato per eccellenza.

La meraviglia nasce dalla constatazione della posizione insulare dell’Italia, gravemente poco permeabile ai fermenti internazionali della nuova poetica giovanile, seppur paradossalmente sia stato proprio il discusso Festival nazionalpopolare di Sanremo, con la sua ricca carrellata di artisti eterogenei, una delle prime ispirazioni per i selvaggi raduni statunitensi. Il nostro paese si fa trovare impreparato, e conduce i primi festival d’avanguardia presentando rassicuranti capisaldi mainstream come Bobby Solo e Ricchi e Poveri, o militanti cantautori da canzoniere politico, stile Pietrangeli-Della Mea-Marini, senza intercettare il vitale spirito di rinnovamento iconoclasta delle adunate rock, battagliere ma armoniche nel loro desiderio di libertà politica, sessuale ed esistenziale, amore e performance concettuali condivise come esperienza collettiva, in una nuova variopinta coscienza etica.

Nel frattempo prendono vita e palco accreditate giovani promesse, come il movimento del futuro neapolitan power, tra Alan Sorrenti, i fratelli Bennato, Napoli Centrale e Osanna, la nuova Roma di Venditti e De Gregori, miraggi etnici di veterani riscoperti come Rosa Balistreri e Franco Trincale, ma soprattutto la Milano più aggiornata sulle novità europee. Giovani ventenni come i due inseparabili Eugenio Finardi e Alberto Camerini, il geniale Franco Battiato in fase sperimentale, un gruppo destabilizzante e seminale come gli Area, sono solo la punta di un iceberg che porterà ad illuminare i primi Festival Pop organizzati dalla rivista Re Nudo, creatura del vulcanico Andrea Valcarenghi, vero punto di riferimento della controcultura italiana per l’intero decennio.

Il paradosso risiede proprio in questo momento: siamo nel 1971, e mentre il sogno hippie è definitivamente decaduto nel mondo anglofono, dopo che le droghe, i flop organizzativi e lo star system hanno falciato i templi freak di mezza Europa, in Italia si incomincia veramente a volare. Non come avrebbe voluto Mister Modugno, ma con un bel motore in più, su gentile concessione di Ginsberg e Burroughs, bagni nudisti, cupole geodetiche per avvistamenti di alieni, amplessi nei sacchi a pelo, chitarre di protesta e inconfondibili arome di incensi patchouli e pakistano nero.

Da Ballabio a Zerbo, spesso senza elettricità, o addirittura senza permessi (spesso revocati in extremis da giunte comunali intimorite dalle fiumane psichedeliche e dai loro prolungati accampamenti), i ragazzi conquistano la natura e inventano il loro perfetto ecosistema, i musicisti trovano il loro pubblico, l’apprezzamento e una critica stimolante. C’è un contatto stretto e viscerale tra artisti e ascoltatori, e chi sale sui palchi a fine concerto si mette a sedere tra la folla per ascoltare le esibizioni dei colleghi, degli amici, di ospiti stranieri invitati spesso a costo zero, subito in comunione sinergica con l’avanguardia musicale di un paese che sta riconquistando rapidamente i propri orizzonti. Il prog italiano diventa il verbo musicale predominante in quegli anni, invidiato fin oltreoceano, ma nei Festival del Proletariato Giovanile arriva chiunque, da Lucio Dalla protagonista di una macchinata Genova-Milano alle due di notte pur di salire sui palchi di Re Nudo, fino a Giorgio Gaber, consapevole delle molteplici qualità di un pubblico d’eccezione, composto di migliaia di giovani pronti non solo a stordirsi di droga e sesso (come insinuano la maggior parte dei giornali dell’epoca), ma altamente ricettivi al confronto, al dibattito, alla fruizione senza inibizioni, a crescere e a cambiare.

Tuttavia dopo i raduni del Parco Lambro, in particolare dopo il terzo e ultimo del 1976, tutto inizia a sfaldarsi: gli happening culturali sono scesi in città, hanno affrontato la metropoli, e sono stati disarcionati da se stessi: la militanza più integralista e ottusa, l’eroina, e il frazionarsi in infiniti rivoli politici, sempre più radicali e tra loro antagonisti, soffocherà un sogno di purezza, il sogno di replicare un altro sogno, quello di Woodstock.

In realtà, a prescindere dalle problematiche caratteristiche dell’Italia del tempo, l’epopea dei Festival Pop doveva arrendersi a un dato di fatto: la cavalcata sessantottina diventava sempre più anacronistica, ormai infuriavano nel mondo anglofono i primi germi punk, tra Clash e Ramones, tra nichilismo e cinica disillusione post-moderna. L’Italia si è arresa con la sua piccola rivoluzione, Finardi è fuggito in America, Paolo Tofani in India, Camerini è diventato un divo elettro-pop con i capelli arancioni, Edoardo Bennato un hit-maker cocco di mamma, Battiato ha creato da solo metà della new wave italiana, e molti artisti validi, da Donatella Bardi a Claudio Fucci e i Come le Foglie hanno dovuto attendere decenni prima di venir scongelati e rivalutati dopo varie ere glaciali.

Il cambiamento era necessario, gli Skiantos, Vasco Rossi e i Litfiba non avrebbero mai potuto offrire le giuste “buone vibrazioni” ai sognatori che avevano sposato e poi prolungato una visione ideale e cosmica, una solidarietà fraterna e consapevole, ingenuamente guidata dall’amore per il prossimo, per Marx e calorose tendopoli ammainate su spiagge incontaminate, “Nudi verso la follia”. E guardare adesso i filmati girati alle Alpi del Viceré nel 1973, ascoltare Simon Luca e L’Enorme Maria, o le elucubrazioni induiste di Claudio Rocchi, ha su di noi l’effetto di una favola dei tempi remoti, di un secolo fa.

Le centomila persone danzanti del Parco Lambro sono per chi vive nel ventunesimo secolo fantasmi impalpabili del passato, come i campi di Auschwitz, l’atterraggio lunare, il processo di Norimberga o i cortei di Gandhi. È un cammeo epocale, oltretutto imperfetto, ma che risalta storicamente come momento irripetibile, e quindi doveroso da ricordare. Non per rimpiangere i colori che non torneranno, ma per sperare un giorno di creare nuove coraggiose esperienze con cui perfezionare quel delicato, miracoloso impasto.

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In dettaglio

  • Artista: Matteo Guarnaccia
  • Editore: VOLOlibero
  • Pagine: 128
  • Anno: 2010
  • Prezzo: 39.90 €