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In principio era il cilindro

Breve storia del fonogramma da Edison alle nuvole

Tutto è iniziato alla fine dell’Ottocento.

Un po’ troppo, direte voi, per capire che fine farà la musica nell’era digitale. E forse avete ragione. Il fatto è che ripercorrendo dalle origini la storia della musica registrata (il cosiddetto fonogramma) ci si imbatte in strane analogie, si scoprono situazioni così lontane e differenti che, per paradosso, sembrano suggerirci un poco quel che potrebbe accadere. È ben questa la funzione della storia, si direbbe banalmente. E quindi…

Tutto è iniziato alla fine dell’Ottocento. Nel bel mezzo dei suoi esperimenti sulla telegrafia nel 1877 Thomas Edison inventò il fonografo meccanico. Di fatto era un apparecchio in grado di registrare il suono, su un cilindro d’ottone ricoperto di stagnola, per poi riprodurlo. Per più di dieci anni il suo utilizzo commerciale fu sostanzialmente quello di sostituire le stenografe negli uffici e far stupire il pubblico delle fiere. Ma Edison aveva già immaginato l’utilizzo nell’insegnamento, la segreteria telefonica, i giochi parlanti e i messaggi registrati da tramandare ai posteri. Nulla che riguardasse la musica, comunque.

Tuttavia nel 1889 un fonografo modificato alla bisogna venne messo in un locale di San Francisco: inserendo un nickel e indossando uno stetoscopio gli avventori potevano ascoltare musica preregistrata. In un colpo solo erano nati il fonogramma e il jukebox! A questo punto si mossero le industrie. La prima fu una filiale della North America Phonograph che a Washington iniziò a produrre cilindri musicali: dal nome della contea veniva chiamata Columbia, e fu la prima casa discografica al mondo

La questione è interessante perché di per sé la musica era considerata solo ed esclusivamente un mezzo, uno strumento promozionale. Il vero commercio era quello degli apparecchi e infatti la Columbia aveva sfruttato le incisioni e si era creata un primo catalogo al solo scopo di noleggiare e vendere i fonografi ai teatri, alle fiere, ai locali.

E qui incontriamo una precoce, curiosa, analogia.

Quando hanno iniziato a diffondersi i computer, ma soprattutto internet e le connessioni veloci, la destinazione naturale sembrava necessariamente l’ambito lavorativo (e a pensarci bene ancora una volta si volevano sostituire stenografe e segretarie, centralinisti e fattorini…). Ma poi sappiamo bene che la rete è entrata nelle nostre case, ha avvolto i ragazzi, gli adulti, le casalinghe fino ai bambini. E non li ha lasciati andare più. E lo scambio e il download di musica e video sono stati di certo la causa principale perché tutto ciò avvenisse. 

Questo mi ricorda un’interessante riflessione di Franco Fabbri (1), che si chiedeva: “A chi interessano le sorti dell’industria musicale?”. E si rispondeva che a occhio e croce interessano a molti, considerato lo spazio che occupa questo argomento sui media e sulla bocca della gente. Eppure, diceva, il fatturato dell’industria discografica, considerando tutto (spettacoli dal vivo, editoria, discografia, strumenti musicali, sale da ballo, scuole) non supera i tre miliardi di euro (dati 2007). Insomma, all’epoca meno della sola Indesit, tanto per fare un esempio. Allora perché dedicarle tante attenzioni? Certo ci sono l’aspetto emotivo e quello culturale, ma non basta. In realtà la risposta di Fabbri arrivava con un’altra domanda: “Fin dove si spinge l’industria musicale?”. Quali altri settori economici sono trascinati dalla presenza della musica? Immaginate le radio senza una sola nota? Ma soprattutto internet avrebbe avuto questa diffusione senza gli Mp3, la musica su Youtube, i video postati su Facebook e tutto il resto? Le compagnie di telecomunicazioni, le industrie informatiche, le aziende che lavorano sui siti quanto avrebbero fatturato senza? La Apple avrebbe mai creato ITunes se non avesse dovuto vendere gli IPod?

Considerato l’insieme, l’industria musicale è forse uno dei motori dell’economia mondiale e di certo lo è stato per la rivoluzione digitale. In mezzo a tutto questo, allora, le case discografiche sono state soltanto un ingranaggio, neppure dei più importanti, e forse per questo si sono arroccate in politiche assurde e cieche di difesa.

In fondo, forse, il mondo aveva soltanto bisogno di qualche cilindro d’ottone e stagno per vendere meglio i propri computer…

 

 

(1) Prefazione a F. D’Amato, Musica e industria. Storia, processi, culture e scenari, Roma, Carocci, 2009, pp. 9-13


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