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Quando la luna spuntò a Sanremo

Pierangelo Bertoli e i Tazenda incantano a Sanremo 1991

I 30 anni di Spunta la luna dal monte

Ogni nazione ha i sui riti collettivi, sorta di “Messe laiche” a cui partecipano milioni di cittadini. Un segno di appartenenza. Poco importa che poi il rito possa venire abiurato e disprezzato da altrettanti milioni di cittadini. Perché funzioni il rito collettivo ha bisogno che se ne parli, che lasci segni evidenti di sé sulla collettività.

Non c’è dubbio che per l’Italia - da oltre cinquant'anni - uno di tali riti è rappresentato dal Festival della canzone italiana. Per cinque giorni, la kermesse sanremese ha la capacità di monopolizzare l’attenzione dei media, di catturare l’opinione pubblica che partecipa e parteggia per le performance dei vari “sacerdoti” che salgono sul palco del Teatro Ariston: i cantanti. Si pensava che i social avrebbero potuto sminuirne l’importanza. Macchè! Il partito dei Sì Sanremo e quello del No Sanremo affilano le armi, ogni anno. E si combattono proprio sui social, a colpi di post e cinguettii. I social raddoppiano, insomma, l’impatto televisivo, trasformando certi avvenimenti in fenomeni di costume (pensiamo alle esibizioni dell’anno scorso di Achille Lauro), riducendo la performance in meme decontestualizzati e ricontestualizzati per le più diverse occasioni (sempre limitandoci all’anno scorso, prendiamo l’affaire Morgan-Bugo e il tormentone “Cosa è successo?”). 

E così può accadere, anzi accade spesso, che proprio l’aspetto precipuo per cui la manifestazione è nata - dare risonanza alla musica italiana - venga meno, tanto che la rassegna è diventata tout court il Festival di Sanremo e non più il Festival della canzone italiana, come se il sintagma “canzone italiana” non avesse quasi più ragione di esistere. La canzone è spesso orpello, “male necessario”, pretesto. Nel corso del tempo, insomma, il Festival si è trasformato da rassegna musicale a fenomeno essenzialmente televisivo e quindi social.

Intendiamoci, provare a leggere la storia d’Italia attraverso Sanremo è impresa assolutamente lodevole - e alcuni storici  e giornalisti musicali lo hanno anche fatto - sempre però tenendo conto che tutto ruota attorno a quelle benedette canzoni. Se Sanremo rappresenta lo specchio della società del tempo è normale e persino giusto che le canzoni poi presentino una diversa gamma qualitativa: a Sanremo si passa in un attimo dal sublime kitsch alla grande canzone d’autore (sull’ampio tema rimando al lodevole lavoro di Francesco Paracchini e Paolo Jachia, Evviva Sanremo. Il festival della canzone italiana tra storia e pregiudizio, edito da Zona).

Poi c’è l’esperienza personale: ognuno di noi ha il suo Sanremo, fatto di ricordi, di emozioni, di rancori e di amori.
Questo ampio preambolo, per dire che l'arrivo della nuova edizione del Festival - che sembra abbia avuto la capacità di abbattere persino l’emergenza Covid con annesse polemiche… ma d’altronde quale edizione non ha avuto le sue polemiche? - è anche l’occasione per ricordare e, perché no, celebrare ciò che è accaduto nel passato. Programmeremo, così, la macchina del tempo, puntando le lancette sul 27 febbraio 1991. È in quella data che vediamo salire sul palco un cantautore in carrozzina e tre giovani ragazzi sardi. Il primo, Pierangelo Bertoli, è ormai un nome importante all’interno della così detta canzone d’autore, anche se non ha ancora raggiunto forse quella notorietà nazionalpopolare di altri colleghi. I secondi, i Tazenda, sono un trio sardo capitanati da Andrea Parodi; hanno alle spalle un disco dialettale che aveva suscitato un certo interesse tra gli addetti ai lavori. Luigi Marielli, chitarrista e compositore del gruppo, aveva scritto, dopo il primo album, un pezzo in sardo dal titolo Disamparados. Bertoli se n’era immediatamente innamorato, intuendone le grandi potenzialità. Perché non provare a portare la canzone al grande pubblico? Sanremo, al solito, è il portale magico. Bertoli, così, si propone di riscrivere parte del testo in italiano, lasciando al sardo il ritornello (e la seconda strofa). Così avverrà. Adriano Aragozzini, Direttore artistico della rassegna, ascolta e approva. Il “nuovo brano”, Spunta la luna dal monte, è tra le venti canzoni in gara al quarantunesimo Festival di Sanremo. Come detto, i quattro salgono sul palco e bastano le poche note iniziali per ammaliare il - troppo spesso - poco attento pubblico della kermesse. Tutti - i giornalisti, i colleghi, il pubblico - si rendono conto che stanno assistendo a una magia condensata in poco meno di 4 minuti. La voce bassa di Bertoli va ad amalgamarsi alla perfezione con quella acuta di Parodi. Le sillabe italiane si armonizzano con quelle sarde in un impasto unico. Alto e basso, tradizione popolare e canzone d’autore. La distinzione dei generi salta per aria. È amore al primo ascolto. Pierangelo se ne accorge immediatamente, tanto che finito il pezzo (che oltretutto lo porta a uno sforzo vocale notevole) si concede un sorriso compiaciuto. Il pubblico riserva ai quattro un applauso che sembra non finire più. La tensione adesso può allentarsi. Il brano passa spedito in finale e si piazzerà al quinto posto della classifica finale (dietro mostri sacri come Riccardo Cocciante, Renato Zero, Marco Masini e Umberto Tozzi) Passano pochi giorni e mezza italia si ritrova a cantare in un improbabile sardo (e in un altrettanto improbabile falsetto!): “In sos muntonarzos, sos disamparados/ chirchende ricattu, chirchende”. Il 45 giri risulta il quattordicesimo singolo più venduto dell’anno, mentre l’album dei Tazenda, Disamparodos, otterrà la Targa Tenco quale miglior disco dialettale dell’anno. 

Sono passati trent’anni da quel momento. Quell’Italia - ma oseremo dire quel mondo - è stato spazzato via. Se i Tazenda, seppur con alterne fortune, continuano la loro carriera, Pierangelo e Andrea non ci sono più, portati via da un maledetto male incurabile (si dice così, perché parlare di tumore fa ancora, fa sempre, paura). Ad entrambi sono dedicati due importanti Premi, ma sembrano quasi dimenticati dal grosso degli italiani. O forse no. Perché l’immagine di quel giovane un po’ dinoccolato e con la voce da angelo è ancora ben impressa nella mente e nel cuore di tanti. Come dimenticare, poi, un personaggio del calibro di Bertoli? Sì, certo la discografia italiana, nella sua cinica e insulsa ottusità, lo aveva fatto fuori ben prima della morte (gli ultimi dischi conosceranno una distribuzione assolutamente vergognosa), ma Bertoli aveva continuato a scrivere. A ricordarci la figura umana e artistica di Pierangelo Bertoli ci pensa anche il bel libro del figlio Alberto (curato da Gabriele Maestri), Come un uomo del 2015, Infinito Edizioni. Un volume in cui  Alberto Bertoli rivendica da una parte con forza e orgoglio la propria professione di musicista e cantautore (due sono i dischi da lui pubblicati: Alberto Bertoli del 2014 e Stelle del 2019) e dall’altra rievoca alcuni momenti della vita professionale e umana del padre. Tantissimi sono gli aneddoti e i dietro le quinte che il figlio regala ai lettori. Chi di voi sa, per esempio, che lo juventino Bertoli compose, in dialetto, l’inno per una squadra locale che militava in Serie D, la Sassolese: “Dai voliamo in serie C/ la Sassolesse deve farsi sentir”. Ironia della sorte, la Sassolese di lì a poco diventerà il Sassuolo che è da qualche anno realtà solida della nostra Serie A. Altro che serie C! E poi, sempre per restare in Emilia, l’incontro con la conterranea Caterina Caselli che se lo porterà alla CGD, facendogli firmare un contratto dopo aver ascoltato i pezzi pronti per l’album Eppure soffia (1976). Altre volte il ricordo è, come detto, più personale e tocca sfere intime. Alberto ci racconta, per esempio, cosa volesse dire crescere con un padre famoso e disabile: “Con questa specie di astronave elettrica, che aveva anche la luce e il clacson, noi giravamo con lui in strada: come oggetto era grosso e sul marciapiede ci stava stretto. Un po’ perché lui era famoso, un po’ perché occupavamo una corsia intera, alla fine ci guardavano tutti. Far passare agli occhi dei bambini le cose come se fossero naturali è difficilissimo, far anche capire loro che la realtà ha diverse sfaccettature e punti di vista è quasi impossibile. «Papà, perché ci guardano tutti?», chiedevamo noi. La sua risposta era geniale: «Perché siamo belli»” . 

Ci mancano da matti oggi uomini e artisti come Andrea Parodi e Pierangelo Bertoli. Così come - forse anche per mere questioni anagrafiche - ci mancano quei primi anni Novanta!

 

 


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