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Sei anni fa ci lasciava Enzo Jannacci. Uno che aveva 'due occ de bun' e un cuore urgente. Uno che c'aveva davvero orecchio.

Quello che canta(va) Onliù

Fantasista della canzone

Questa è la storia di un uomo che cantava onliù, che aveva tanti amici, un cane coi capelli e una fretta di andare via. Ovunque, non importava dove. Voleva andare. Solo che tutti gli rispondevano sempre di no. Ma perchè? Perchè no. Ma poi, Quelli che... lo hanno seguito non lo hanno mollato più. Te', ciapa chi.

Vincenzo Jannacci, Enzo per gli amici, nato a Milano il 3 giugno del 1935 si presenta subito come un uomo scisso, diviso a metà: gemelli di segno zodiacale, tanto per cominciare. E la cosa non depone bene, a detta del suo inseparabile amico/fratello, il compianto Beppe Viola (con lui nella foto), che non faceva altro che metterne in evidenza gli svantaggi di questa cosa qui. Mamma lombarda e papà pugliese, precisamente di Bisceglie, per continuare. Due universi lontanissimi difficilmente raccordabili.

Professione? beh, state un po' a sentire: cardiochirurgo e fantasista. Chissà cosa teneva scritto sulla carta d'identità.  Già perchè il nostro nella vita aveva una qualifica seria di medico, ma una ancor più seria che raccoglieva mille e mille altre cose in quel termine "fantasista" con cui decise di presentarsi al primo provino Rai cantando proprio quel "cane coi capelli" nel 1961 e sfido chiunque - nel 1961 - a reagire bene di fronte a un 'matto' che canta di un cane che aveva i capelli che erano finti e belli, disperazione dei suoi fratelli, mentre a Sanremo Betty Curtis cantava Al di là tutta strizzata nel suo tubino bon-ton.

E la parola fantasista raccoglieva già, nel '61,  tutto quello che Jannacci è stato nella vita: un uomo intelligente, talmente intelligente da fare fatica a gestire questo dono e tenerlo a bada e a freno: quando parlava si capiva poco, infatti, e la cosa non dipendeva che dal fatto di avere in testa mille pensieri che fioccavano e venivano su a fiotti cercando strade dove infilarsi; andava sempre oltre, usava un linguaggio laterale, sghembo, ai limiti del parossismo e della follia, quella sana, però, quella che ti fa scrivere versi indimenticabili, parole scolpite che ancora oggi non dimentichiamo e sarebbe bello se i ragazzi lo imparassero a memoria nelle scuole come manco più si fa con Dante. Ricordo che una volta feci ascoltare ai miei alunni El purtava i scarp del tennis, tentai una carta difficilissima per essere in una scuola del sud. C'era anche la barriera del dialetto milanese e loro, dodici anni, nella testa calcio/femmine e Gigi D'Alessio, poco potevano di fronte a una bomba lanciata così a tradimento. Non ci potevo credere. Un silenzio fortissimo invase l'aula. E a quelle parole "l'avea vista passaaaaaaà, bianca e rossa, che pareva un tricolore", quelle che a me ancora fanno venire su le lacrime ogni volta che le sento perchè ti danno l'idea proprio dell'amore incondizionato, quello che ti prende e ti porta via, beh, a quelle parole, i ragazzi restarono ammutoliti. La freccia era arrivata.

Jannacci aveva un cuore urgente, come il suo Giovanni telegrafista, un cuore urgente che sentiva forte, avvertiva vibrazioni, sensazioni e riusciva a fargli vedere l'anima di tutti quelli che lo circondavano. Tutti quelli a cui si è dedicato per mestiere ufficiale, indagandone i ventricoli dal punto di vista anatomico e per mestiere laterale, cantandone le difficoltà. Le sue canzoni sono storie, storie bellissime che tracciano il ritratto di un'umanità dolente, misera, ma non povera, appartata rispetto al bel mondo milanese, ma fortemente presente con tutte le sue immense ricchezze: roba minima? l'è roba de barbun. Ha ironizzato già negli anni '60 e poi a seguire fino ai giorni nostri, instancabilmente, sull'essere umano, ingannandoci con le sue canzoni, ostentando una leggerezza e un'allegria che nascondevano, nei testi, ma anche negli arrangiamenti, ad un orecchio più raffinato - perchè ci vuole orecchio appunto, e alla citazione in questo caso non si può proprio resistere - una caratura notevole. Ha vestito i panni di tutti i suoi personaggi, si è fatto interprete delle loro voci, dei loro aspetti, gesticolando come un burattino e allargando le vocali a dismisura, giocando con la voce e con un'ironia sferzante nei confronti del potere, per portare in salvo i suoi Armando, Veronica, Silvano, quello che prendeva il treno e  quello che portava le scarpe da tennis, che altro non erano che un povero cornuto, una prostituta, un omosessuale, un barbùn e un misero impiegato innamorato e non ricambiato. Voleva aiutarli, cantandone le loro vicende, rassicurarli che la vita non sarebbe stata così dura per sempre.

E gli amici, da Boldi a Pozzetto, a Dario Fo con cui ha scritto memorabili cose, a Teocoli, a Paolo Rossi. E il Milan, beh, quel Milan che compare prima in Vincenzina e la fabbrica e poi in Se me lo dicevi prima, la canzone che proprio nell'89 portò a Sanremo, dove Mimì arrivava nona con Almeno tu nell'universo e sul podio Leali/Oxa trionfavano. E poi dice che uno si butta a sinistra!

Se me lo dicevi prima parlava di nuovo, in modo scanzonato, di un argomento serio, della droga. E il testo e il titolo, sono diventati idiomatici, come ormai l'intramontabile Vengo anch'io, no tu no e la jazzistica Quelli che..., icona irrinunciabile e riassunto spassosissimo di tutti gli stereotipi dell'italiano medio, alternati in una sequenza di definizioni senza tempo. Tanto per citarne una: quelli che... fanno l'amore in piedi pensando di essere in un pied-a-terre.

Dicevamo il Milan. Passione grande e smodata, da cui addirittura si è dovuto difendere quando, negli anni '90, appariva in contrasto essere di sinistra e tifosi della squadra di Berlusconi. Molti si defilarono. Lui, serafico, ribattè: " Non è che se Berlusconi si mette a fare il vino, a me non piace più".

Jannacci credeva fortemente nel valore del rispetto e dell'intelligenza. Ed è questo che lo fa un personaggio chiave per la storia della cultura italiana. Fino all'ultimo ha voluto mirare dritto ai cervelli e al cuore, le due parti del corpo che gli interessavano di più. Per svegliare, lui che era un pigro di gran fatta, per allargare e non stringere il pensiero, per far sentire forte tutto quello che sentiva lui, come se il trasferimento sugli altri delle sue sensazioni ed emozioni lo rassicurasse e gli desse l'idea che poteva far qualcosa di buono per il mondo. Per questo non si stancava mai. E Paolino, suo figlio, altro maestro della musica, con cui bastava uno sguardo per intendersi, è stata la sua ombra negli ultimi anni, accompagnandolo in quest'impresa.

Con Gaber ha camminato finchè ha potuto, in sodalizio artistico e fraterno. Dichiarava in una recente intervista: «Con Giorgio ci si vedeva poco ma ci si sentiva spesso. E ci prendevamo in giro, io Iannone lui Nasone. Anche se lui era sempre un passo avanti a me. Del resto io reggo trenta date in tour, lui alla trentesima era pronto per arrivare a 250. Però non ero d’accordo quando cantava che la nostra generazione aveva perso. Vedo mio figlio Paolo, vedo i ragazzi davanti al Papa al Giubileo, vedo ideali nei giovani. Chi ha fatto figli così non ha perso. Il problema è che i nostri governanti, di qualunque colore, pensano che la gente non esista. Invece esiste, e prova sentimenti».

 «Sa cosa vorrei lasciare con i miei dischi e i miei spettacoli di oggi? Pulviscoli di magia da tenersi dentro. Che poi dica cose vecchie o nuove, frasi intelligenti o balordaggini, tutto vorrei che emozionasse. Finché mi emozionerò io per primo».

E questo è il messaggio che resta, a sei anni dalla sua scomparsa, di questo funambolo della parola, malinconico, e maledettamente beffardo nello stesso istante, lunare, pigro, bellissimo sempre, anche da vecchio, maestro dell'illogico e del calembour, dal sorriso larghissimo e dalla testa perennemente piena di pensieri. Roba minima? Crediamo proprio di no. E a chi ancora non ci crede, rispondiamo solo: piripiripiripiripippi piripiripiripirippiippi...

 

 

http://www.enzojannacci.it/

 

 


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