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di Alberto Calandriello Periodo di intensissima attività per l'Associazione Culturale Lilith, punto di riferimento per la cultura a Genova ed in Liguria, che da pochi giorni ha dato il ...

No alle vecchie glorie, sì ai nomi da classifica, poca solennità: un Sanremo rinnovato, che relega però i giovani autori a fine serata.

Sanremo 2013: quella voglia di cambiare, senza che cambi troppo...

Cosa rimane del festival dopo due settimane?

A mente fredda e bocce ferme, a riflettori calati e a canzoni entrate in classifica tra i singoli più scaricati, che bilancio possiamo fare del Festival di Sanremo 2013? Cosa rappresenta oggi questa kermesse? Che funzione ha, che musica diffonde e promuove, cosa è diventata?

L’edizione Fazio-Littizzetto ha svecchiato un po’ l’atmosfera: nonostante le esitazioni talvolta snervanti e il poco brio della sua conduzione, Fazio ha riportato il festival alla “normalità”, ci ha ricordato che è solo una trasmissione televisiva e lo sfarzo, la pomposità, gli abiti di gala esagerati non servono. Non è mancato il frusciare di qualche vestito da sera da notte degli Oscar (vabbé, non esageriamo…) e qualche magnifica presenza da ammirare, più che da ascoltare (per quanto si sia mostrata anche un po’ di simpatia e spontaneità, che ci ha mostrato anche l’anima delle bellezze da passerella), ma una volta tanto c’è stata una conduzione realmente a due, orizzontale e non maschilisticamente gerarchica e ha avuto un po’ di spazio un modello di femminilità diverso dalla “bella figheira” su cui ironizzava il trio Lopez-Marchesini-Solenghi nella parodia dei Promessi Sposi.

Quanto alla musica, di positivo c’è che in gara non c’era nessuna vecchia gloria che abbia bisogno di una vetrina, ma poi si esibisca solo alle sagre di paese e non venda più una copia di un disco, se non tra qualche nostalgico accanito che ha la tenacia dei gruppi monarchici: lo scollamento tra vendite e Festival si è ridotto, ma a che prezzo? Per inseguire l’Auditel, grazie a chi la musica la guarda sempre e soprattutto in tv, e per raccogliere un bel po’ di denaro da parte dei fan accaniti della musica mediaticamente nazional-popolare, una volta in più si è consegnato l’Ariston agli ex dei talent-show. Non è un marchio di infamia partecipare a queste trasmissioni, né dovrebbe inficiare o condizionare i giudizi: però un meccanismo di voto che premia chi ha potuto costruirsi negli anni un grande pubblico televotante altera gli equilibri. Poi in realtà i giochi non sarebbero equi neanche se a gareggiare contro una band dalla lunga esperienza, eppure ancora confinata nella relativa nicchia dell’underground come i Marta sui Tubi (in alto nella foto), ci fossero stati i Negramaro o a maggior ragione Vasco Rossi o Ligabue, cioè artisti con un ampio numero di fan organizzatissimi e agguerritissimi, pronti a macinare centinaia di km per seguire anche tutte le tappe di un tour del loro beniamino. Non abituati al televoto, ma quanto meno interessati a un grande, visibile sostegno quasi “religioso”. Non a caso il televoto ha premiato anche i Modà e il loro pop drammatico di buoni sentimenti che tanto piace a tanti (troppi?), ma per esempio sta anche premendo in questi giorni per spingere Marco Masini nella gara che rievoca  Canzonissima a I migliori anni di Carlo Conti: un alto numero di fan ha probabilmente interesse a dimostrare il talento del cantautore toscano, autore di interpretazioni sempre viscerali e di grande efficacia, al di là dei pregiudizi di chi l’ha ingiustamente escluso da giri e scene. Gli estimatori di Elio e le Storie Tese, Max Gazzé o Daniele Silvestri (nella foto) non sono invece abituati o motivati al televoto e non sono quel genere di fan che si strappano i capelli quando vede il proprio artista preferito o sono pronti a vendere un paio di organi pur di essere onnipresenti ai suoi concerti. Per verdetti meno sbilanciati a favore della claque di turno, forse occorrerebbe abbandonare il televoto e tornare alle vecchie giurie demoscopiche, così tutti gli artisti sarebbero valutati, nel bene e nel male, e da campioni di età, genere ed estrazione sociale differenti. La platea del televoto è quella di chi ha voglia di sostenere un determinato artista e non è rappresentativa di tutto il Paese; inoltre non sapremo mai cosa pensa delle canzoni che non sono del loro/dei loro preferito/i.

Sanremo inoltre al giorno d’oggi rispecchia poco o pochissimo il fermento della scena underground e nello specifico testimonia poco sia la sperimentazione dei suoni (la maggior parte dei pezzi sanremesi hanno arrangiamenti più che tradizionali, lontani dal rock, dall’elettronica, dal prog, dal soul e anche, colpevolmente, da un genere così tanto amato dalle giovani generazioni e quindi a suo modo nazional-popolare come l’hip-hop), sia la tanta qualità del cantautorato: consacra una volta in più i Cristicchi, i Silvestri, i Gazzé (foto), che quel palco l’hanno calcato più e più volte, attira l’attenzione su qualche nome nuovo tra i Giovani, ma al momento premia soprattutto gli interpreti puri dei talent-show. La categoria dei cantanti-non cantautori è sempre esistita e sempre esisterà: dopo qualche decennio in cui sembrava che tutti potessero scrivere musica e testo, spesso con risultati banali e discutibili in entrambi o in uno dei due campi, è anche un bene che si sia tornati alle squadre di autori, tra i quali militano anche nomi di artisti del calibro di Pacifico (autore con la Nannini di Bellissimo, l’altro brano che Mengoni ha proposto in gara) e Francesco Bianconi (Baustelle, tra gli autori di Il futuro che sarà, interpretato da Chiara Galiazzo, vincitrice dell’ultima edizione di X-Factor; l’altro pezzo in gara era di Federico Zampaglione/Tiromancino). Tuttavia i ragazzi ex-talent-show di frequente non hanno modo di dimostrare una loro personalità, anche perché, anche quando scrivono testi o compongono musica, spesso il loro contributo come autori è volutamente limitato da chi preferisce che possibili cavalli vincenti nelle vendite (i vincitori o i nomi più amati dei talent) procedano più spediti e veloci e non rischino di inciampare per la voglia di provare di avere un’anima e delle idee.

Il meccanismo delle due canzoni, tra cui il pubblico televotante era chiamato a scegliere la preferita, da mandare in gara con i pezzi degli altri Big, ha permesso ad ogni artista di misurarsi con temi, atmosfere e ritmi diversi e quindi di mostrare più sfaccettature della propria musica; eppure questo forse può trasformare il festival in una kermesse di cantanti, anziché di canzoni, una vetrina come tante per promuovere un disco. Questo ormai è per molti artisti, che spesso non sembrano scegliere una perla per il palco dell’Ariston, nel timore di bruciarla (pericolo che per brani meravigliosi, ma per esempio complessi è sempre in agguato), ma optano o per un brano più orecchiabile del solito per farsi notare o apprezzare di più e sperare di essere trasmessi in radio, o per qualche canzone carina, simpatica, ma non eccezionale, in modo da fare un lancio a rischio calcolato. A compiere la prima scelta sono stati i Marta sui Tubi, il cui brano rimasto in gara, la potente e coinvolgente ballad Vorrei, era più semplice ed immediato dei loro pezzi standard, meglio rappresentati dalla musicalmente più articolata e teatrale Dispari, pungente e ironica; anche Simona Molinari con Peter Cincotti ha puntato su un brano retrò gradevole, più che di particolare spessore oppure originalità.

La seconda scelta ci sembra invece quella di Elio e le Storie Tese e di Max Gazzé, entrambi comunque tra i migliori in gara: gli Elii hanno conquistato grandi consensi con La canzone mononota, geniale divertissement che sembra ironizzare proprio sulla semplicità dei tormentoni e insieme sulle possibili variazioni su una nota che solo chi possiede determinate qualità tecniche sa fare, ma avevano presentato un affresco sociale di ben altro livello nell’altro brano, Dannati forever. E poi non si sa se pubblico e critica che li ha votati abbia voluto premiare la loro ironia su certi meccanismi della musica, ad esempio sui tanti artisti che continuano a pubblicare dischi con canzoni “tutte uguali” in un autoplagio reiterato (ma anche, in alcuni versi, sui cantanti “virtuosi” senza emozione), o abbia al contrario dimostrato proprio di apprezzare le canzoni “mononote”! Nel secondo caso, sarebbe accaduto qualcosa di simile alla sorte, suo malgrado, quasi discotecara che toccò a Fuori dal tunnel di Caparezza, satira proprio sull’ossessione della movida. Max Gazzé pure ha puntato su un brano leggero con Sotto casa, ma si è dimostrato probabilmente l’unico Big in gara con suoni più vivaci e (relativamente) moderni, grazie al suo synth-pop ed ha colpito sicuramente per l’originalità del tema, la predica-monologo di un Testimone di Geova davanti all’ennesima porta che non gli è stata aperta (esilarante e realistico, tra l’altro, quel “So che sei lì dentro…/ Non ti muovi, ma ti sento!”, quasi in odore di minaccia).

Musicalmente poco innovativa invece la canzone-comizio piano e voce di Daniele Silvestri, A bocca chiusa, pur ammirevole istantanea delle istanze, delle delusioni, delle censure e delle repressioni violente delle manifestazioni, a forte rischio di scivolare nella retorica. Un rapido commento delle altre canzoni, seguendo l’ordine alfabetico degli artisti: buon brano (ma non eccezionale) per gli Almamegretta, che riprovano a portare il reggae a Sanremo, dopo il già vano tentativo dei Pitura Freska di Sir Oliver Skardy, che portò all’Ariston un brano a cui tutti hanno ripensato dopo le clamorose dimissioni di Benedetto XVI, Papa nero (1997). Vagamente à la Giuliano Palma è invece Scintille di Annalisa (in alto nella foto), che si inserisce con grazia in un filone retrò già ampiamente sfruttato negli ultimi anni; peccato non abbia affrontato la competizione l’altro brano da lei presentato, la delicata ed emozionante ballata intimista Non so ballare, composta da Ermal Meta, frontman della band La Fame di Camilla, pure ormai avviato in un’interessante carriera autorale (ha firmato, tra l’altro, anche un brano del nuovo album di Chiara Galiazzo, Un posto nel mondo, che ha coinvolto firme come quelle di Samuel dei Subsonica, Dente, Diego Mancino e Neffa, oltre a Ramazzotti e Bianconi).

Peccato non sia salita sul podio e sia stata penalizzata l’ennesima volta Malika Ayane, autrice di una performance come sempre intensa ed elegante sulle note di E se poi, autoanalisi sui postumi di un addio scritta da Giuliano Sangiorgi dei Negramaro, al pari dell’altro brano proposto, Niente. In La prima volta (che sono morto), a firma Simone Cristicchi-Leo Pari (ma interpretata solo dal primo), originale l’idea di raccontare con leggerezza e quasi tenerezza la morte, tra sogni terminati e incontri onirici in un aldilà popolato da personaggi famosi scomparsi e dei propri cari defunti; tuttavia la nostra impressione soggettiva è di incertezza di fronte a questa canzone, in una reazione in bilico tra l’applauso e la perplessità. In fondo, infatti, per parafrasare la conclusione de ’A livella di Antonio De Curtis, la morte non è una cosa seria?

Suggestiva, ma senza il potere di “sfondare”, la già citata Il futuro che sarà, interpretata dalla Galiazzo (qui a fianco nella foto); raffinate, ma interpretate con molte, troppe incertezze vocali, le canzoni di Raphael Gualazzi (Senza ritegno; Sai), mentre L’essenziale del vincitore Marco Mengoni non ne ha valorizzato, al contrario, le ottime capacità vocali, che sembravano soffocate dall’assenza nel brano di uno sbocco arioso per acuti e apici emozionali. Inutilmente pretenziosa invece Se si potesse non morire dei Modà, che gioca la carta commozione e sembra avere l’ambizione di presentarsi come un brano cantautorale: melodrammatico per melodrammatico, la band dà il meglio nel pop-rock. Grande voce, purtroppo neomelodica, infine, quella di Maria Nazionale, di cui è passato in gara per giunta il brano più “anima ‘e core”, quello firmato da Servillo-Mesolella (che ben altra verve teatrale vi avrebbero aggiunto), e non il più ritmato Quando non parlo, canzone “mediterranea” di Enzo Gragnaniello, intessuta dei suoi inconfondibili arpeggi.

Non abbiamo ancora affrontato il capitolo dei Giovani, ovvero le dolenti note del Festival: sì, perché per l’ennesima volta la categoria che forse più avrebbe bisogno della vetrina dell’Ariston è stata purtroppo relegata in tarda serata, in coda rispetto ai Big persino il giorno della finale, e liquidata in mezz’oretta, come un obbligo da espletare in fretta, perdendo il meno tempo possibile e davanti alla minore platea possibile di telespettatori. D’altronde il riallineamento del Festival nei confronti delle vendite, come si diceva, è un rincorrere l’Auditel, scongiurando la minaccia del solito, tutto sommato poco realistico spauracchio “la musica in tv non fa ascolti”, per cui i meno noti conviene collocarli a fine serata. Peccato che per il bene della musica e non degli incassi degli spot pubblicitari sarebbe opportuno il contrario. Pazienza.

Cosa abbiamo ascoltato? Beh, i giovani, in controtendenza rispetto ai loro coetanei tra i Big, sono tutti autori e questo non può che fare piacere. Personalità ha dimostrato Ilaria Porceddu, ex-XFactor che in una nuova vita mediatica propone un brano quasi totalmente suo, In equilibrio, un brano delicato di songwriting al femminile con suggestivo ritornello in sardo. Andrea Nardinocchi sembrava ambire a proporsi quasi come il James Blake italiano, con i doverosi distinguo, ma si è snaturato con un pezzo in cui l’elettronica è diventata sfondo di un pop molto tradizionale (qui nella foto durante la sua esibizione). Chi non conosce le seducenti morbidezze r’n’b e l’elettronica sospesa di canzoni come Bisogno di te non si sarà fatto minimamente un’idea della sua musica, ascoltando Storia impossibile: un’occasione persa.

Simpatica e ben arrangiata, ma un po’ incolore per farsi notare la canzone Baciami? di Irene Ghiotto, selezionata dall’accademia Area Sanremo. Lorenzo Cilembrini, alias Il Cile (nella foto), che già si è fatto apprezzare con il notevole disco d’esordio Siamo morti a vent’anni, propone un buon esempio della sua scrittura, che veste il realismo di immagini mai banali, ora concrete, ora intrise di efficace lirismo, sostenuto da interpretazioni viscerali, che stringono un nodo in gola. La sua Le parole non servono più in quanto ballad è un filo più tradizionale di altri brani del cantautore toscano, ma era un brano comunque molto valido e rappresentativo della sua identità: peccato sia stata subito eliminata (ma in un altro Festival che avesse voluto valorizzare i Giovani, che erano solo otto, le eliminazioni non avrebbero dovuto esserci).

Ha attirato l’attenzione invece Renzo Rubino (qui a fianco nella foto), che l’Area Sanremo ha portato sul palco dell’Ariston, premiandone la gavetta già compiuta a soli 24 anni: la sua Il postino (Amami uomo) forse non è il suo brano migliore di sempre, ma riesce a parlare di un amore omosessuale con ironia e leggerezza ed anche con romanticismo, senza forzature e con naturalezza. E in un Festival che ha attirato l’attenzione sulle rivendicazioni a favore delle unioni o matrimoni gay la canzone è capitata a fagiolo. Rubino è anche un ottimo interprete, oltre che autore, dalla voce poliedrica e sicura. Dopo un percorso molto lungo approdano a Sanremo anche i Blastema, nati nel lontano 1997; il loro secondo album ufficiale, uscito nel 2012, è stato pubblicato da Le Nuvole Production di Dori Ghezzi. Il loro alt-rock, con sfumature talora cupe, trame di chitarre e linee vocali ben elaborate, che giocano sui toni più alti, non è nuovo, ma è ben fatto e porta almeno una rappresentanza/testimonianza rock tra le fila dei Giovani su quel palco.

Due dischi, ottimi riscontri e persino un duetto con Lucio Dalla ha alle spalle il polistrumentista Paolo Simoni: il suo cantautorato ha un allure classica e il suo cantato, complice anche l’accento, ricorda quello di Dalla. L’argomento e gli arrangiamenti non sono innovativi, ma i versi riescono a risultare diretti e ispirati. Dulcis in fundo, il vincitore, l’istrionico Antonio Maggio (nella foto in alto), altro ex di X-Factor che, scioltisi i suoi Aram Quartet, si è ricreato un percorso personale: l’electro-pop di Mi servirebbe sapere non è rivoluzionario, ma l’andamento camaleontico della canzone, tra rallentamenti e accelerazioni, è brioso. Il pezzo vincitore di Sanremo Giovani per una volta è un singolo ideale e fresco e non la solita ballata iper-romantica già sentita mille volte. Niente di incredibilmente memorabile, ma sicuramente un brano radiofonico, per di più interpretato da un performer con personalità e vocalità estrosa.

La kermesse sanremese si è dimostrata insomma una vetrina, spogliata almeno parzialmente dell’inutile e anacronistica solennità degli strascichi e dei toni da gran soirée, per brani di medio livello, con una dependance cantautorale tra le fila dei Giovani che avrebbe potuto e dovuto godere di onori e tempi diversi. Poco resterà davvero alla storia e l’estrema e varia vivacità dell’underground italiano è rimasta come sempre fuori, ma almeno a Sanremo oggi le mummie non si rianimano per scalare classifiche in modo improbabile e inopinato. Ed è già qualcosa di questi tempi.

 



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