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Nessuna nuova, pessima nuova per il Festival della canzone italiana

Sanremo 2015 va avanti (per l'Auditel) in retromarcia (per il resto del mondo)

Una vittoria a tavolino, un cast di Big senza outsider

Il Festival di Sanremo ormai ha abdicato, rinunciando anche a quel poco che restava della funzione di fare da vetrina a nomi meritevoli di spazi mediatici, che pur non era da decenni il suo scopo principale: nell’edizione 2015 non ci sono stati outsider di nessun tipo, per evitare la classica, imbarazzante domanda dell’italiano medio/uomo della strada del tipo “Perturbazione chi? Marta sui…cosa? After…?”
La Rai viveva con ancor maggior disagio la disfatta in radio di improbabili canzoni “passatiste” delle vecchie glorie e allora pian piano ha pensato bene di importare in toto nomi radiofonici, talora altrettanto “passatisti”, ma con maggiori possibilità di successo, almeno all’estero.
No, non ci riferiamo ai campioni dell’elettronica o del post-rock da esportazione: come se non bastasse che la bandiera nel mondo la portino spesso artisti di un pop di plastica pronto a clonarsi all’infinito dopo aver smarrito qualunque parvenza di originalità, ecco che Sanremo corteggia anche il pubblico degli italo-americani che pagano fior di quattrini per commuoversi sulle note di
‘O sole mio, sperando di piazzarsi bene all’Eurofestival (trionfo del kitsch altrettanto spesso scollegato dal meglio della musica dei singoli paesi partecipanti, che suscita da anni una sola domanda: “Ma perché?”).

La vittoria de Il Volo appare a tal fine strategica: quando il duo OperaPop ha presentato un brano (di dodici anni fa) che non poteva essere selezionato nella categoria dei Giovani per limiti anagrafici (Enrico Giovagnoli aveva appena superato i 36 anni, limite ahinoi quasi risibile in un Paese in cui l’adolescenza in termini di precarietà lavorativa termina con la vecchiaia), si è pensato di affidarlo ai tre ex bambini prodigio del baby-talent ‘Ti lascio una canzone’, per dare loro finalmente un inedito da portare sui palchi dei nostalgici della romanza popolare à la Claudio Villa (la tradizione operistica è invece ovviamente tutt’altra cosa).  Trovata a tavolino la canzone, il successo è stato scontato, con buona pace di quanti hanno notato l’evidente anacronismo musicale e l’interpretazione “impiegatizia” delle tre giovani voci, inadatte al tema dell’amore eterno e di certo non ispirate dalla banalità clamorosa del testo sul tema.

A fronte del primo posto dei giovani-vecchi, la vittoria morale è stata di Nek (il che è già tutto dire), che ha proposto con la giusta grinta un brano con cavalcate ritmiche quasi brit-rock, impetuoso e orecchiabile. Malika Ayane, terza classificata con Adesso e qui (Nostalgico presente), ha portato una canzone che spiccava su altre per eleganza, ma che in fondo era nella media della sua produzione; preziosi i tocchi di Pacifico, con cui la cantante ha lavorato al testo su musica di Giovanni Caccamo (sì, il vincitore di Sanremo Giovani qui nella foto).

D’atmosfera la delicata, ariosa e a tratti sognante canzone composta da due autori che non hanno mai avuto Pupo tra i loro ascolti, Ermal Meta (già frontman de La Fame di Camilla, ora solista) e Gianni Pollex (già voce degli Wide), e affidata a Chiara (foto a destra), che nelle interpretazioni avvolgenti guarda alle signore della canzone italiana. Sicurezza e precisione frutto anche dello studio nella scuola dei talent-show (laddove in Italia c’è una divaricazione spesso tra musicisti sopraffini che escono dal conservatorio sì, ma con poche idee e artisti celebrati, fin troppo lo-fi e improvvisati musicalmente) si evidenziano anche nelle esibizioni di Annalisa e Dear Jack; la prima a tratti appare tuttavia brava senz’anima, ma che anima poteva metterci in una delle tre canzoni infarcite di stereotipi firmate da “Kekko” Silvestre dei Modà? Senza la forza melodrammatica delle performance del cantante, i suoi brani zoppicano: ad Annalisa è andata anche bene, considerata l’eliminazione della Tatangelo, passata dalla classica padella alla brace nella sua seconda vita artistica sotto l’egida di Francesco Silvestre, e l’incolore passaggio di Bianca Atzei. I Dear Jack, dal canto loro, hanno presentato un pezzo in linea con il loro “innocuo” pop-rock, sempre preferibile però a quella specie di caricatura blasfema che è l’hip-hop mainstream, come quello del coach della squadra rivale di Amici 2014, Moreno, che ha pure bisogno addirittura di una squadra di autori. Meglio Lorenzo Fragola, da X Factor, la cui Siamo uguali ha un ritornello con passaggi melodicamente accattivanti.

Il revival anni ’80-90 potrebbe essere la versione aggiornata della sezione vecchie glorie dei Sanremo di una volta, ma Raf, Masini e Grignani si sono difesi più che bene: Raf era visibilmente sottotono a causa della bronchite, ma ha fatto ciò che poteva; Masini ha presentato un brano sulla sua personale riscossa esistenziale, con crescendo sostenuto dalla sua voce inconfondibile, viscerale ed emozionante, mentre Grignani ha portato una canzone riflessiva forse con il testo più convincente del festival.

La “star internazionale” Lara Fabian sembra uscita da un’edizione dell’Eurofestival di 20 anni fa, mentre Nesli in versione pop perde personalità ed appare senza infamia e senza lode; continua invece la deriva demenziale di Francesco Mandelli, che con Fabrizio Biggio seppellisce in un colpo solo con una canzoncina superficialottala tradizione dei brani sanremesi non-sense, ma una volta in più anche i tempi in cui aveva un seguito con un po’ di cervello su Mtv (che era ancora un canale musicale) o in cui suonava negli Orange.

Nina Zilli torna con un brano blues molto tradizionale, ma soprattutto con un testo in italiano che suona forzato tra troppe sillabe e momenti a rischio insignificanza per rientrare invece nella metrica; un po’ sottovalutata invece Irene Grandi (qui nella foto), la cui Un vento senza nome racconta una storia femminile tutta da ascoltare, ma musicalmente meno d’impatto rispetto ad altri brani della sua carriera. Alex Britti non si spreca con una ballata tipicamente delle sue, mentre è forse un’occasione mancata quella di Grazia Di Michele e Mauro Coruzzi, in gara con la canzone più cantautorale del festival, Io sono una finestra, che affronta in punta di piedi il tema dell’identità sessuale, scivolando però qui e lì in qualche frase poco brillante o prevedibile da “temino” sull’argomento. Soprattutto è un peccato che i due si siano prestati, sia pure loro malgrado e con un’intenzione apprezzabile, a vestire i panni del “fenomeno da baraccone” dell’edizione (soprattutto nella serata del giovedì dedicata alle cover), della “strana coppia” ospitata proprio per attirare le curiosità morbose di chi osserva e giudica con i parametri dei propri pregiudizi, secondo un giochetto frequente anche nelle selezioni dei cast dei reality-show.

Sanremo si sta trasformando a tutti gli effetti in una delle tante trasmissioni Rai con le solite compagnie di giro dei talent-show, il solito mainstream, i soliti specchietti per le allodole per pensionati teledipendenti o curiosità pseudo-pruriginose per riempire qualche pagina di gossip: in un festival che ha il pregio di vedere in gara brani inediti, di inedito rischia di non esserci più nulla. Se Sanremo non porta in radio, ma segue le radio, tutto è già sentito, tutto è già previsto, senza nessun spazio per il migliore pop d’autore italiano, per le tante e genuine eccellenze cantautorali, per la musica alternativa degli esordienti sanremesi con trent’anni di carriera o di nomi autenticamente giovani nei suoni.
E allora…cui prodest? Ah, dimenticavo: all’Auditel, con tanto di incassi pubblicitari della “rete pubblica”. E pecunia non olet, come sanno bene i presunti evasori fiscali della musica italiana.

giovedì 19 febbraio
Articolo di Ambrosia J.S.Imbornone
Servizio fotografico a cura di Luciana Farese

 

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Qui di seguito l'articolo di presentazione uscito prima dell'inizio della rassegna, martedì 10 febbraio.

A quando la scelta radicale di togliere la gara e far diventare Sanremo la Vetrina della Musica Italiana?

 

Pronti, via. Martedì 10 febbraio parte la nuova kermesse sanremese edizione 2015. La prima targata Carlo Conti. ‘E speriamo che sia anche l’ultima’ è una battuta fin troppo facile ma il giudizio finale sul festivalone nazionale va sempre visto da più di una lente d’ingrandimento. E gli ascolti, in questo senso, valgono più di ogni altra considerazione. Ma non è di questo che vogliamo parlare, di come e di quanto piacerà l’edizione di Conti (un punto d’arrivo, il suo, che stava scritto nella logica delle cose).

Tralasciamo quindi tutta la parte relativa al cast, al gossip, agli ospiti, all’influenza dei reality, alla scelta di Arisa, Emma & Rocio Muñoz Morales, all’apertura affidata ad Albano e Romina di cui leggerete da più parti in questi giorni, per soffermarci sull’aspetto che da qualche anno ci sembra il più deleterio per questa manifestazione è cioè la forte personalizzazione del “presentatore”. Nulla di personale, come si dice in questi casi, ma è un processo che è iniziato un po’ di anni fa e che pian piano ha portato a considerare il presentatore come “deus in terra”, in terra ligure, una cosa sua su cui apporre il sigillo di ciò che deve o non deve, di ciò che può o non può essere presente. “Ed io può” è ormai la frase e il concetto dominante di ogni soggetto che viene scelto per presentare il Festival.

Quel che ci sembra sbagliato in questo discorso sui “presentatori” è che da Simona Ventura in poi (andiamo a memoria), si è pensato che sostituire il Pippo Nazionale (salvo poi richiamarlo, ma ormai aveva il fiato corto) fosse cosa semplice e che sarebbe bastato dare la conduzione ad un giovane e spigliato cerimoniere per dare freschezza e nuovo slancio al festival. L’errore, a nostro parere, non è tanto nei nomi scelti (Bonolis, Ventura, Carrà, Panariello) ma nell’aver creduto che questi potessero diventare “anche” direttori artistici. La pazzia sta tutta qui. Ormai parlare di Sanremo significa accodarsi ad un bieco “il Sanremo di”, tutto incentrato sul nome del presentatore. Ma Pippo era Pippo. Un’animale da palcoscenico che oltre a saper gestire tempi e spazi nella diretta, miscelare artisti in gara e ospiti, superospiti, si prendeva direttamente dei rischi nel proporre nuove leve perché quei nomi li conosceva davvero (anche se non tutti li aveva “inventati lui”....).   Era forte e sicuro di avere intorno a se una squadra di addetti ai lavori da cui attingeva informazioni e consigli, senza considerare la sua preparazione e competenza musicale che tutti gli hanno sempre riconosciuto.
Baudo ha fatto il suo tempo, sia chiaro, e ormai da molti anni, ma non puoi pensare di sostituirlo - dando gli stessi poteri - con Bonolis, Panariello o la Ventura, giusto per ricordarne tre. Bisognava cambiare metodo, separare nettamente il ruolo di intrattenitore da quello di supervisore e censore delle scelte artistiche. Queste ‘nuove leve’, straordinarie a modo loro nel saper gestire un pubblico (e lo fanno con maestria, nulla da dire), non possono e non devono diventare anche arbitri o comunque principali attori che influenzano le scelte dei cinque giorni (musicali) più importanti di Rai Uno. 

Forse, in questo senso Fabio Fazio è un caso a parte, vista la sua propensione ad avere una squadra ben affiatata e capace di monitorare bene il mercato musicale, ma decisamente più debole nella parte “intrattenimento”, lontano mille miglia dai nomi fatti in precedenza o dallo stesso Conti. Come dire, ci vorrebbe un forte presentatore capace di fare televisione affiancato ad una squadra, una direzione artistica che lavori (nell’ombra e senza protagonismi) e che utilizzi la televisione come propellente mediatico per artisti pronti a gestire live e serate nei mesi successivi. Perché se è vero come è vero che di dischi non se ne vendono più, e non da ora, allora aiutiamo chi su di un palco ci sa stare davvero e che da Sanremo possa trarre un vantaggio per crearsi una tournée. Ci può stare anche il ripescare qualche nome stracotto a cui porgere su di un piatto d’argento la visibilità utile a qualche serata estiva, ma è soprattutto sui giovani che questa logica dovrebbe avere il suo culmine. Lavorando di più e meglio, intercettando artisti che possano crearsi una carriera live e non tanto o non solo radiofonica. Incentrare tutta l’attenzione mediatica su di un personaggio porta invece a identificare tutto con il “Festival di Carlo Conti”, per rimanere all’attualità e quello si sente giustamente inorgoglito, vuole controllare tutto, anche gli arredi sul palco. Figuriamoci l’elenco degli artisti. Il rischio di pressioni e di ingerenze di ogni genere da parte di influenti addetti ai lavori è un rischio concreto.

Permettere, per esempio, a Francesco Silvestre - Kekko dei Modà -  di firmare tre canzoni, dico ben tre canzoni dei “big”, è quanto meno autoritario. Non stiamo parlando di dover utilizzare per forza un nuovo “Manuale Cencelli” applicato alla musica, d’accordo, ma dare un vantaggio così alto (anche in termini di diritti, edizioni, etc) ad un unico autore stride con la logica e non andrebbe concesso. A nessuno (men che meno a Kekko…, ma questa è licenza poetica, così come la scelta della foto e non tenetene conto). Il succo è che “Non dovevi farlo Carlo, non lo dovevi fare!” direbbe Baudo. Ci vuole eleganza in questi casi, non arroganza. Anche a costo che qualche radio nazionale si arrabbi un po’.
Insomma, tutto questo per dire che qui nessuno si stranisce o cade giù dal pero se il Festival di Sanremo è nei fatti (e da molti, molti, anni) diventato uno spettacolo televisivo, un intrattenimento che cerca di coniugare i gusti della famiglia media con i giovani, gli anziani con gli extracomunitari, gli Idioti con il Rap, ma ci piacerebbe che questi cinque giorni (anzi, se fossero tre sarebbe tutto più snello e fruibile) diventassero uno show ancora più capace di portare ospiti musicali di forte impatto, ok anche internazionali, ma più concreto e lungimirante nel lanciare nuovi artisti che possano rappresentare – almeno in parte – la scena musica italiana che vive e vegeta (o meglio, arranca) ogni sera nei luoghi dove si suona musica live inedita e non coverband.

Osare di più quindi, creando le condizioni affinché la “direzione artistica” possa portare su quel palco nomi condivisi il più possibile almeno tra gli addetti ai lavori (cosa non facile, certo, ma si possono studiare modi e tempi). Spostare sempre un po’ più in là il gusto musicale, allargarlo, far conoscere quello che nella vita di tutti i giorni si muove, si ascolta nei locali, nei teatri di tutta Italia. Dare un senso a quelle centinaia di booking, management, gestori di locali, piccole e grandi etichette, di artisti, che faticano ad ottenere visibilità pur essendo straordinariamente professionali e capaci di conquistarsi nuovo pubblico ogni volta che gli viene data la possibilità.
Diamo qualche chance a queste realtà anziché concentrarci ancora sul “nuovo prodotto da portare a Sanremo”, dove produttori e case discografiche ancora pensano di “costruire” una carriera partendo da Sanremo. Anche qui, va cambiato il metodo. Lanciare un giovane tour court solo perchè gli si costruisce un bel brano "sanremese" non serve a nulla se dietro non hai un artista "pronto". 
Ormai non funziona e lo si è capito da molti anni. E vale, forse ancor di più, per quelli usciti un anno o due prima da un reality. Nella Riviera dei Fiori, in quel boom mediatico (straordinariamente efficace per quel che deve servire: dare visibilità) bisogna mandarci chi è già “pronto” per una tournée, chi ha già dimostrato con centinaia di concerti di saper stare su di un palco e di aver qualcosa da dire. Per questo tipo di artisti Sanremo deve essere un punto di arrivo, deve consacrare un lavoro duro di anni fatto sul campo, non può essere un trampolino. Lo è stato per molti, ma ora non lo è più per nessuno.

Per dirla in due parole bisogna investire su chi ha già dimostrato di avere un suo pubblico, costruito e fidelizzato venti persone alla volta, data dopo data, in molte regioni d'Italia. Il tutto, manco a dirlo, quasi sempre lo avrà ottenuto senza mai aver avuto un passaggio radiofonico o televisivo. Ecco perchè è giusto premiare questo tipo di proposte.

 

Tra gli otto finalisti di quest’anno (Amara, Serena Brancale, Giovanni Caccamo, Chanty, Kaligola, Kutso, Enrico Nigiotti, Rakele) una certa tendenza e qualche nome che va in questa direzione c’è. Per esempio artisti come Giovanni Caccamo, Serena Brancale (qui nella foto e nel video), Amara, i Kutso. Se poi questi nomi non piaceranno al pubblico televisivo… nessun problema, tanto in gara ci saranno sempre i big del nazional-popolare a condire e ad equilibrare il tutto. Salvo le solite eccezioni, sia in un senso che nell’altro. Già, perché parlare di “big” per artisti come Irene Grandi o Malika Ayane è un conto, parlare di big con I Soliti Idioti, Lorenzo Fragola, Moreno è un insulto alla nostra intelligenza o, se vogliamo volare più bassi, all’etimologia della parola anglofona e all’uso che ne facciamo in questo caso.

La gara, se proprio vogliamo farla perché crea audience, crea adrenalina (ma dove?), facciamola solo per i big e lasciamo le nuove proposte lontane da questo concetto. Una nuova cultura musicale si crea anche così. Le “nuove proposte” devono essere appunto proposte diverse per genere e nuove. Non una gara volta a capire qual è televisivamente parlando la più valida. Mettiamoli sullo stesso piano e lasciamo che si propongano nella loro diversità, liberi di conquistarsi una fetta di pubblico per quello che sono. Per loro, e soprattutto per loro, la gara sminuisce; crea false illusioni se vinci e per gli altri deprime, produttori e artisti, in-colpevoli di non piacere alla grande massa.

Se poi, nel 2016 volessimo fare un passo da gigante, allora aboliamola del tutto la “gara” e concentriamoci nel costruire una grande vetrina della musica italiana, dove si possa far convivere ospiti internazionali con artisti italiani di forte visibilità, il tutto finalizzato a preparare il terreno ai concerti live dei mesi successivi. Se una volta ascoltavi il singolo a Sanremo e il giorno dopo andavi a comprare nei negozi il 45 giri, oggi dobbiamo essere capaci di far uscire di casa più gente per andare a vedere la musica live. È l’unica carta che possiamo giocarci per tenere vivo questo settore. L’ultima cartuccia che può innescare un’economia reale. Tutto il resto, come diceva il Califfo, è noia. E in un’edizione così, Carlo Conti ci starebbe benissimo lo stesso. Con buona pace di Pippo.

www.sanremo.rai.it

Martedì 10 febbraio
Articolo di Francesco Paracchini
Foto Archivio Rai

 


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