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Si è conclusa la XX edizione della manifestazione musicale multietnica alle grotte di Pertosa-Auletta

Da Francesco De Gregori a Les tambours du Bronx, il Negro Festival riparte dalle Radici

Tra gli artisti anche Alfio Antico e Giancarlo Schiaffini

Immerso nella valle dominata dal massiccio degli Alburni - dove si arriva scendendo giù lungo gli spettacolari tornanti che da Polla, in provincia di Salerno, conducono verso il paesino di Pertosa - luminoso di verde e delle luci che di notte, a tratti, filtrano dallalto ingresso delle antiche grotte di Pertosa-Auletta, il Negro Festival ha acceso i suoi riflettori ancora una volta. La ventesima volta. Le grotte, da parte loro, sono lì da trentacinque milioni di anni. Un tempo indecifrabile per la mente umana, eppure i suoi spazi segreti e ariosi sono stati sempre frequentati dagli uomini: nell’Età del Bronzo, dapprima, per divenire luogo di culto in età romana, fino a farsi rifugio in tempo di guerra. Al loro interno scorre un fiume, il Negro, appunto, che proprio lì, dentro la montagna, inaugura il proprio corso, senza che delle sue acque si sia ancora compresa la provenienza; eppure ci sono, concrete e abbondanti, anche, tanto da riuscire da sole ad alimentare la piccola centrale idroelettrica proprio nel loro tuffarsi allesterno nel più grande Tanagro.

Solo apparentemente fuori tema è cominciare a parlare della bellezza di questo luogo (suggestiva la foto qui sopra come quella della grotta più in alto, entrambe di Alessia Pistolini) piuttosto che di musica: qui la simbiosi con la natura è tangibile ma anche simbolica, e continua da due decenni a ispirare questo evento. Un festival tra i più consolidati e storici del nostro Paese e che fa della metafora naturale una fonte inesauribile di idee culturali prima ancora che musicali. Si ritrovano in tanti qui, provenienti da ogni parte del Pianeta, vera Terra di Mezzo in cui, ciascuno nel proprio linguaggio, partecipa al dialogo attorno allargomento suggerito. Non per nulla il tema di questanno è proprio dalla natura che attinge la sua metafora: Radici. Un ripensare alla nostra storia più antica in termini musicali e non solo, per poi provare a immaginare un futuro possibile. Una musica possibile. Di certo, che sia una Musica dal futuro antico, come recita il sottotitolo della manifestazione.

Ancora prodiga di spunti di riflessione e di punti di vista da cui guardare, dunque, la nuova proposta di Dario Zigiotto, lussuosissimo direttore artistico, per la nona volta qui a Pertosa a dirigere la grande orchestra del Negro Festival. Il quale è capace di ottenere a sua volta lussuosissime e raffinate presenze artistiche: celebrità come Francesco De Gregori, o musicisti di statura mondiale come Alfio Antico, o come Giancarlo Schiaffini, che accompagnò con il suo trombone John Cage e Luigi Nono; e che può permettersi di far esibire due grandi della nostra canzone come Raiz e Fausto Mesolella in un miniset di 40 minuti sul palco minore del festival. Quasi a sottolineare che qui non si pesa la celebrità degli artisti peraltro tutti di altissimo livello al di là di qualunque unità misura della notorietà ma tutti allo stesso modo sono chiamati a raccontare un pezzo della storia che sta andando in scena.

Due, come di consueto, sono i palchi allestiti, e ancora per quest
anno la rassegna del palco più piccolo Antro Extra non può svolgersi preso lingresso delle grotte, ché i lavori che procedono dallanno scorso non sono ancora terminati, ed è di nuovo lì, come nelledizione passata, nella pineta appena al di sopra del grande palco. La struttura delle serate si conferma la stessa: lapertura sul palco Extra, il proseguimento senza soluzione di continuità sul palco principale, fino ai Dj set che riempiono di musica la valle fino al termine della notte. 

Il primo giorno, bagnato di pioggia fitta fino a sera inoltrata, costringe a un ritardo nellinaugurazione dei concerti e a posticipare di due giorni lesibizione della cantautrice napoletana Flo, vincitrice a Cagliari dellultimo Premio Andrea Parodi, e chiamata ad aprire le danze sul piccolo palco Extra; ma lei non perde il sorriso e accetta di buon grado di tornare. Nel frattempo il cielo, come previsto, si placa. Ecco che si accendono le luci del palco centrale per gli Alti & Bassi, ovvero Andrea Thomas Gambetti, Paolo Bellodi, Diego Saltarella, Filippo Tuccimei e Alberto Schirò, cinque voci che non hanno bisogno di strumenti al di là delle loro corde vocali. Quel che colpisce del loro repertorio e che ne chiarisce il ruolo allinterno di questo evento è proprio la loro capacità di viaggiare nel tempo fino a toccare epoche antiche davvero: cantano Johan Sebastian Bach, ma anche Enzo Jannacci, e pure le colonne sonore dei cartoni animati di Walt Disney e tornano ancora indietro a Chopin per arrivare a Mina e insomma, un sorprendente, spiritoso, trascinante viaggio musicale. Il quintetto vocale apre le porte al grande evento del festival: è Francesco De Gregori, che tocca questa terra con il suo Vivavoce Tour. Un tour molto speciale, che si adagia con naturalezza in un luogo dove si riflette sulle radici; lui infatti, in questa fase della sua vita artistica, sta proprio rivedendo le sue, di radici, guardandosi indietro, trovando per il suo passato una veste nuova e restituendogli un senso altrimenti perduto. Quando arriva sul palco la folla è già fitta e ansiosa di ascoltarlo; è unesplosione di entusiasmo quella che laccoglie, e lui sembra esserne conquistato. È generoso come non mai nel dialogare con il pubblico, nel lasciarsi trascinare a sua volta dall’entusiasmo, dice: «Siete belli!», allarga le braccia, e invita a cantare con lui Caterina, Rimmel, La donna cannone, Viva l’Italia... Un concerto semplicemente bellissimo. Gli arrangiamenti sono ricchi e pieni di timbri e ritmi, perché tanti sono i musicisti intorno a lui: Guido Guglielminetti (basso e contrabbasso), Paolo Giovenchi (chitarre), Lucio Bardi (chitarre), Alessandro Valle (pedal steel guitar e mandolino), Alessandro Arianti (hammond e piano), Stefano Parenti (batteria), Elena Cirillo (violino e cori), Giorgio Tebaldi (trombone), Giancarlo Romani (tromba) e Stefano Ribeca (sax). Uno spettacolo che si vorrebbe non finisse mai; il pubblico infatti non lo lascia andar via, e lui si lascia trattenere e si offre a un lungo bis finché, infine, di tempo proprio non ce n’è più.

La seconda serata è ormai al sicuro dal maltempo, e si apre con serenità su uno spettacolo coraggioso, Voi chamate lo Criatore: un viaggio che si avventura a sfiorare davvero le radici della musica con il canto gregoriano, il più antico, un modo per esplorare il rapporto che nei secoli ha avuto luomo con la fede nella commistione tra il popolare e il colto, sentimenti atavici espressi in suoni contemporanei. Il coraggio della proposta è premiato da un pubblico sorprendentemente attento e affascinato; a conferma che nonostante la difficoltà del linguaggio musicale, questo è sempre in grado di penetrare nellanima delle persone. Il merito è della voce di Silvia Fanfani Schiavoni, del trombone e dei suoni elettronici di Giancarlo Schiaffini, e dellEnsamble Dissonanzen: (Tommaso Rossi ai flauti, Francesco DErrico ai suoni elettronici e alle tastiere, e Ciro Longobardi al digital piano e suoni elettronici). Subito dopo torna protagonista il grande palco, dove prende posto la Baro Drom Orkestar (Vieri Bugli al violino elettrico, Modestino Musico alla fisarmonica, Michele Staino al contrabbasso elettrico e Gabriele Pozzolini alla batteria modificata), che carica il pubblico con i suoi ritmi balcanici mischiati a quelli klezmer, e armeni, e persino della pizzica salentina, e lo accompagna in una danza ininterrotta fino allarrivo della folta compagnia che prende il suo posto sul palco. Una compagnia di artisti che propone tanto ritmo anche lei, ma con spirito differente: si tratta dellOrchestra di tammorre e putipù con uno spettacolo che ha il titolo perfetto per levento, Il ritmo delle radici, presentato questa sera in prima nazionale. Diretto da Mimmo Maglionico, lo spettacolo si concentra sulla tradizione musicale del nostro Sud, raccontando in musica le feste popolari religiose in cui ancora, fra tammurriate e tarantelle, rivivono ogni volta i canti e i passi di danza con cui il popolo esprime da sempre il suo sentimento religioso, spesso misto a suggestioni magiche e incursioni profane. Un mondo che ancora riesce ad affascinare e a coinvolgere il pubblico. Questa sera, poi, cè un grande artista che risponde al nome di Alfio Antico: uno spettacolo nello spettacolo. È da restare senza fiato quando si mette al centro del palco con la sua grande tammorra, e tutti tacciono per ascoltare la sua mano che percuote la pelle tesa con una tecnica personale e innovativa che ha fatto e sta facendo la storia di questo strumento. 

La serata finale si apre con il set di Flo, tornata a due giorni di distanza dalla notte di pioggia e che ora può presentarsi. «Il tempo non è stato molto, ma abbastanza per conoscerci», dice al pubblico addensato nella pineta ad ascoltarla, prima di andarsene. Questa cantautrice, giovane ma già assai esperta di palchi e di concerti dal vivo (dal musical Cera una volta... scugnizzi alle collaborazioni con Lino Cannavacciuolo e Daniele Sepe), piace tantissimo ai presenti, che per la maggior parte la ascoltano per la prima volta, scoprendo lei e il suo disco Damore e di altre cose irreversibili, dove canta il suo modo di osservare e di sentire il Sud utilizzando di volta in volta la lingua italiana, il dialetto napoletano o il catalano. Con lei cè il chitarrista e coautore Ernesto Nobili, suo compagno darte fin dal 2011 e con il quale negli ultimi mesi sta collezionato premi e riconoscimenti. Dopo di lei sale sul palco un duo che, come suol dirsi, non ha bisogno di presentazioni: Raiz & Fausto Mesolella. Voce unica, arcaica e moderna insieme, ruvida e sensuale, luno; chitarra personalissima e magica, capace da sola di incantare chiunque si trovi ad ascoltarla, laltro. Il loro disco Dago Red vive ancora in questo breve set di fronte a un pubblico assetato di loro, del loro modo di interpretare la canzone classica napoletana. Radici ancora, dunque, ma decisamente lette al futuro: ispirati allemigrazione italiana del secolo scorso, tra uomini per cui aggrapparsi alle radici era vitale nella stessa identica misura dell’affrontare determinati il futuro, i due traducono questo duplice slancio in termini musicali, cantando Maruzzella in ebraico, trattando con la drammaticità che gli compete Lacreme napulitane ma anche giocando a intrecciare O surdato nnammurato con Give me love di George Harrison. Il tempo anche per loro è poco, ma non riescono a non donare un breve bis – dedicato a Pino Danielea un pubblico che non si rassegna a mandarli via.

È ora che si accendano le luci sul grande palco per lultima volta. Lapertura del concerto finale è affidata a un gruppo partenopeo eccezionalmente creativo, che ha cercato il ritmo nascosto negli oggetti riciclati e dai quali ha ricavato nuovi strumenti, come lo scatolophon (che funge da basso) o la scopa elettrica (chitarra elettrica ricavata da una scopa). Ancora un punto di osservazione differente verso le radici, dunque, con cui il leader Maurizio Capone, con Alessandro Paradiso, Enzo Falco e Salvatore Zannella raccontano la loro versione di questa storia, attraverso ritmi tra reggae e hip hop.

Arriva così il gran finale, affidato agli impetuosi Les tambours du Bronx, numerosissimo ensemble francese di percussionisti, ben diciassette. La loro è una forza che mischia la modernità dei suoni elettronici e campionati con il grido primordiale delluomo, espressione assoluta dellistinto, così come la forza fisica che percuote con tutta se stessa gli oggetti perché ne esca il suono, e che alla fine dello spettacolo sono ridotti a un ammasso di lamiere ammaccate. Sono travolgenti, disposti in semicerchio a torso nudo come in un rito tribale, illuminati da fasci di luce colorati che danzano al loro ritmo incessante; la gente ne è conquistata e - come resistere? - si lascia andare al loro ancestrale, straordinario rock; preferiamo chiamarlo così, giacché una precisa definizione di genere è impossibile e si perderebbe fatalmente in improbabili neologismi che non ci piacciono. Vi proponiamo un video (clicca qui) e vi consigliamo di esserci, alla prossima occasione.

Per il momento dobbiamo spegnere le luci su questa XX edizione del Negro Festival, con laugurio che gli infiniti spunti di riflessione che ne sono scaturiti siano semi fecondi, necessari come sono al difficile futuro che attende la nostra cultura e il nostro mondo tutto.


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