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Au revoir Gianmaria

Artista discreto e uomo di grande spessore

Gianmaria Testa se n’è andato come sapevamo che poteva accadere da un momento all’altro, senza che questo ci aiuti a rimpiangerlo di meno.

Difficile scrivere sulla cosiddetta onda emotiva. O forse più facile. Più facile o più difficile evitare i luoghi comuni, sapendo che – come han detto in molti (quindi è un luogo comune pure questo) – dietro i suddetti luoghi comuni spesso si nascondono ampie fette di verità? Bisogna non rimanerne  soggiogati. E’ necessario riuscirci. Per cominciare evitando – per una volta – la generica prima persona plurale, o la terza singolare. Scriverò quindi usando l’io, direttamente, perché il caso lo richiede. Stiamo parlando infatti di un cantautore amico che se ne va, uno della mia generazione, com’era già accaduto qualche anno fa, in circostanze ancor più tragiche, con Lucio Quarantotto. Stiamo parlando, oggi, doverosamente, di Gianmaria Testa.

Ce l’aspettavamo, già (ecco il primo luogo comune), ma come sempre (ecco il secondo: e poi basta, non li sottolineerò più) il momento in cui qualcosa che, anche solo come idea, hai cercato di allontanare da te si concretizza, la resa dei conti – emotiva, soprattutto – è lì dietro l’angolo. Ti passano davanti tanti momenti, e l’idea che un uomo di cinquantasette anni se ne vada ti sembra atroce, inaccettabile. Specie se quell’uomo non l’hai apprezzato solo come artista, ma anche proprio come persona. E fermiamoci qui, perché la retorica è lei pure dietro l’angolo.

Della retorica, Gianmaria, non si preoccupava troppo. Ricordo che ci siamo incontrati in pieno centocinquantenario dell’unità d’Italia (estate 2011), dopo essermi arrampicato su per l’erta di Castiglione Falletto, dove abitava, per ascoltare quello che qualche mese dopo sarebbe stato il suo ultimo album di inediti, Vitamia, e che ce ne siamo poi andati a cena in un ristorante (trattoria? forse meglio) di sua fiducia, di quelli che c’erano una volta (e per fortuna ci sono ancora), senza menu, perché la proprietaria ti porta quello che vuole lei, e il gioco vale ampiamente la candela. In mezzo a tutto il resto, ci siamo trovati a parlare – tornando alla retorica – del succitato centocinquantenario, dei tricolori che spuntavano dovunque, un po’ anche per esorcizzare certe ubbie secessioniste che non si sono nel frattempo dissipate. Io sostenevo che non è il caso di rispondere all’imbecillità (quella secessionista, appunto) con gesti comunque di dubbio gusto; ne ero – e ne sono – convinto, proprio nel nome della non-retorica. Gianmaria ci aveva pensato un po’ e poi mi aveva detto qualcosa tipo: “Se comunque servisse a far capire da che parte sto non mi vergognerei a sventolare il tricolore.”

Era un uomo genuino, uno che aveva proseguito per anni a lavorare in ferrovia anche quando già lo conoscevano in mezza Europa perché riteneva – correttamente – che questo lo aiutasse a tenere i piedi per terra, a sapere ancora come si arriva alla fin del mese, a non sentirsi troppo “artista”.

Prendendo la storia dall’inizio, l’avevo ascoltato per la prima volta a Recanati, nel ’93. Mi era parso un formidabile mélange fra Conte e Fossati, due per cui ho sempre straveduto, e l’avevo amato subito, visto che da quel palco, di fatto, prendeva le mosse la sua carriera pubblica, trattandosi della prima delle sue due vittorie al premio organizzato da Musicultura. Consecutive, per cui l’ho risentito nel ’94. La prima volta aveva presentato Manacore, la seconda Un aeroplano a vela, che di lì a poco avrebbe cantato e inciso anche Fiorella Mannoia. In quel 1994, a Recanati, c’era anche Nicole Courtois, al seguito di Arthur H (figlio di Jacques Higelin e talento di cui in seguito avremmo sentito parlare molto meno di quanto sembrava logico attendersi). La signora chiese a Gianmaria se aveva mai pensato di spingersi fino in Francia, a Parigi. Lui non aveva ancora inciso neanche un album (il primo, Montgolfières, sarebbe arrivato l’anno dopo, subito col botto, con dentro gemme che non sto neanche qui a elencarvi: scorretene la tracklist e capirete) e ciò nonostante Parigi fu, l’Olympia, andata, e ritorno alla stazione di Cuneo. Ricordo quando l’ho incontrato la volta successiva, all’inizio del 1997 in quel di Valenza. Dopo il concerto gli ho chiesto un’intervista (il cantautore capostazione era già un’immagine spesa da parecchi; che poi capostazione proprio non era), intervista che la redazione del quotidiano che la pubblicò trovò ottimo intitolare Il signor nessuno. A me il titolo non era piaciuto, ma amen. Comunque, ecco il punto, ricordo con quale disincantato, appena accennato (anche divertito) imbarazzo aveva sottolineato il particolare: “Ho dovuto chiedere ferie per andare a cantare all’Olympia, poi TGV [mi pare] e turno in stazione”. Già allora una bella lezione di vita vissuta senza pretenderla troppo da artista (men che meno maledetto).

Nuovo flashback: 1999, Premio Tenco, sua prima partecipazione (di due appena: una vera miseria, e la seconda persino – diciamo così – istituzionale, a seguito dell’assegnazione a Da questa parte del mare della targa per il miglior album dell’anno). Ci incontriamo alla cena dopo lo spettacolo, lo vado a salutare rammentandogli l’intervista di cui sopra. Lui no, non se ne ricorda, me lo dice. Subito un po’ ci rimango male, ma poi la vedo da un’ottica diversa: non si ricorda e non finge di ricordarsi, lo dice, nuova piccola lezione di vita spicciola, di autenticità. Vai con la retorica, dai, ci sono scivolato sopra. Comunque da quel momento non ci siamo più persi di vista, l’ho sentito innumerevoli volte, l’ho invitato nel 2001 (in combutta con Gianni Coscia) ad Alessandria per un concerto in cui ha visto le sue canzoni vestite di abiti orchestrali, frutto degli arrangiamenti di Fred Ferrari. Nell’occasione Gianmaria ha incontrato Nada, per la quale già aveva scritto Piccoli fiumi, e, per la prima volta sullo stesso palco, Paolo Fresu, con cui si sarebbe poi esibito lungamente in duo e in più larghe compagnie.

Una di queste, sempre nel 2001, è stato lo spettacolo su Léo Ferré, F. à Léo, dov’era stato Paolo a volere Gianmaria (ne è nato anche un disco). Ricordo l’anteprima, nel cremonese, e subito dopo – periodo veramente febbrile – Guarda che luna, fortunatissimo, con Rava, Bollani e tutti gli altri. Nell’estate 2007 era programmato un suo concerto a Clusone Jazz. Incontro come sempre Livio Testa (nessuna parentela, fra il cantautore ferroviere cuneese e il promoter figlio di ferroviere bergamasco) qualche mese prima a Bergamo Jazz e, come di consueto, ne ricevo le prime anticipazioni sul cartellone del festival che questi organizza appunto in Val Seriana. Sa che amo i cantautori (ci conosciamo e frequentiamo per ragioni jazzistiche, essenzialmente) per cui sottolinea con particolare piacere il fatto che in programma c’è anche Gianmaria Testa. “Pensiamo anche di organizzargli un incontro pomeridiano col pubblico”, mi dice. Gli faccio una battuta: “Se vi serve un intervistatore, sai dove trovarmi”. Non la prende come una battuta: quell’incontro a due voci ha effettivamente luogo, e per me è uno di quelli che ricordo con maggior piacere fra i tanti incontri pubblici che ho tenuto nel corso degli anni.

E’ in quella circostanza, comunque, che lo invito per l’anno seguente a Tortona, “a prezzo da poeta”, come dico io, alla rassegna che colà organizz(av)o: lo vorrei come voce recitante di un reading su testi di Pavese (nel centenario della nascita: 1908-2008) da me selezionati, col supporto musicale di Piero Ponzo, suo storico coéquipier (era con lui a Recanati, fra l’altro coautore di Un aeroplano a vela). Che canti non ho il coraggio di chiederglielo, visto che come detto i soldi sono pochi, una miseria rispetto ai suoi cachet abituali. Comunque accetta, e a levarmi dall’impaccio penserà poi il giorno stesso del reading: “Un’intera serata di sola parola detta mi pare un po’ pesante, per cui avrei sfrondato un po’ il testo e inserito una serie di canzoni ad hoc, se per te va bene”. Altro che se mi va bene! “Non ho osato chiedertelo”, gli dico, e lo ripeto anche presentando la serata. Incrocio in quel momento il suo sguardo: sembra dirmi “ma sei stato proprio scemo, a non chiedermelo!”.

Mi accorgo, tornando al presente, che sto passando al setaccio una carriera (chissà se lui userebbe questa parola?) tutta sul filo del personale, parlando pochissimo dell’artista. Di cui ho scoperto ben presto, dopo Recanati, i talenti tutti suoi, originali, quella che si chiama cifra stilistica, quella che tanto hanno apprezzato i francesi, che in questo sono sempre stati maestri (avevano Trenet quando noi cantavamo ancora Faccetta nera, del resto...). Sì, ho glissato sull’artista: quello sta nelle sue canzoni (ultimo luogo comune) e tutti potete andarvelo a cercare lì, se – come vi auguro – non l’avete già trovato da tempo.

Io ho cercato di raccontarvi qualcosa di più, qualcosa che non sapevate (se non in minima parte). L’ho fatto anche un po’ egoisticamente, devo ammetterlo, per esorcizzare il dolore di non poterlo più incontrare, di non poter più aspettare il suo nuovo album, le sue nuove canzoni. Ma basta, chiudiamola qui. Sennò chissà quanti altri luoghi comuni finirei per snocciolare, conditi di più o meno sana retorica.

Quindi ciao Gianmaria. Ci vediamo – nel caso – più avanti. 

Foto di Alberto Bazzurro

 


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