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Massimo Volume

Aspettando i barbari

Il sesto album dei Massimo Volume, una delle indiscutibili punte di diamante dell’alternative italiano di spessore, appare un disco teso e vigile, che oscilla tra abbandono alla descrizione del buio e lotta per resistere alla «nausea», alla «tentazione di evadere» e alle «illusioni» (Dio delle zecche), e per non affondare; si tratta pertanto di un’attitudine simile a quella celata nell’abbraccio del dipinto di Ryan Mendoza in copertina (This Has Nothing To Do With You), il quale appare fiducioso, rassegnato («nel sonno le tue braccia / sembrano ali stanche», recita la title-track) o immerso nell’oblio, ma anche in uno stato di all’erta, per scrutare o attendere pericoli.

Se i suoni analogici di Cattive abitudini (2010), che segnò il ritorno discografico della storica band dell’underground italico a undici anni da Club privè, erano un palpitare di chiaroscuri, Aspettando i barbari sembra fremere in una luce irrequieta e violetta, che piove tagliente su contraddizioni e atrocità del presente (si pensi alle amare e tragicamente attuali parole di Danilo Dolci finemente assemblate in Dio delle zecche: «la moda di sparare o non sparare / la moda di spararsi»),  sull’esigenza dell’indipendenza e la tentazione della fuga, sullo sfumare delle gioie promesse in illusioni e sullo sfiorire delle aspettative in vane attese.

Suoni spigolosi e spettrali si fanno porta spalancata su stanze buie e confuse «in fondo al cuore» e magre consolazioni offerte da veloci incontri con sconosciuti (Silvia Camagni), sulla solitudine e sul suo «lusso freddo» (Da dove sono stato), sul vuoto tra le stelle, su cieli strappati e incendiati e su «le rovine del nostro mondo perfetto» (Compound).
Il disco conduce tra selve noise di distorsioni acide, suoni stridenti (come è ammesso programmaticamente nei versi di Vic Chesnutt), synth lividi e ritmiche inquiete, come scomposte, che diventano lo schermo su cui si accampano le immagini feroci delle lotte postcoloniali (quelle della guerra civile congolese, nello specifico, ma con citazioni e sample di Mao Tse Tung) e su cui si staglia l’oscura seduzione dell’odore del sangue di parisiana memoria, «che sa di dolce / di pesce pescato / di sperma / di vita che morde», «di mare / di cose perdute / di etere / d’estate» (Il nemico avanza).

Ancora: non manca il vario carnevale, drogato e annoiato, della vita, la sua galleria di personaggi caratteristici, così come il memento di pionieri visionari che si sono spinti oltre il già dato, lo scontato e il ragionevole, cioè Vic Chesnutt, John Cage e l’architetto e filosofo Richard Buckminster Fuller, «perso in una bolla di vetro o di metallo» (Da dove sono stato), cioè le sue cupole geodetiche, ideate secondo la sua teoria, ritenuta fuori degli schemi, per cui, per cambiare qualcosa, era necessario costruire modelli nuovi che rendessero la realtà obsoleta («rendi il mondo vecchio», Dymaxion Song). Baluginano così come spettri, o numi tutelari del passato, memorie e volti da ringraziare umilmente, eppure da congedare per affrontare i giorni futuri.

Le dissonanze contrastano e scongiurano rischi melodici, tra suoni siderali, al contempo algidi e languidi, come tra le note e le immagini grottesche finali della traccia Aspettando i barbari. Le consuete interpretazioni parlate di Emidio “Mimì” Clementi dimostrano ancora una volta una forza sciamanica, oppure il carisma di un aedo della desolazione; esse si fanno appena più ritmate/cantate nel primo singolo La cena, che assume così quasi il fascino postapocalittico del Battiato sacerdote del synth-rock, mentre diventano urlate e volutamente a tratti persino disarmoniche negli acmi emozionali di Dymaxion Song. 

Questo disco non vuole esibire né suscitare niente di rassicurante, perché «vince chi non si illude»: è una grandiosa sinfonia elettrica senza luce, ostica, aspra e straniante, il cui lirismo, profondo e sghembo, è un letto di chiodi.
Il messaggio dell’album, tuttavia, non vuole essere pessimista: sottotraccia scorre un invito a vigilare, a non «smarrire il senso / la direzione» (Dio delle zecche), a credere in progetti scomodi e apparentemente utopici, a coprirsi bene e conservare «l’amore per quando fa freddo» (Silvia Camagni), e dopo aver «reso grazia» all’ «incanto» di chi ci ha permesso di sentirci vivi, correre «incontro ai giorni che ci spettano».
Per ricominciare.
Ed intanto aspettare ed affidarsi alla «notte / che confonde le tracce / che nasconde i rifiuti / che ritorna costante» (La notte).  

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In dettaglio

  • Produzione artistica: Massimo Volume e Marco Caldera
  • Anno: 2013
  • Durata: 41:20
  • Etichetta: La Tempesta / Master Music

Elenco delle tracce

01. Dio delle zecche

02. La cena

03. Aspettando i barbari

04. Vic Chesnutt

05. Dymaxion Song

06. La notte

07. Compound

08. Silvia Camagni

09. Il nemico avanza

10. Da dove sono stato 

Brani migliori

  1. La cena
  2. Dio delle zecche
  3. Silvia Camagni

Musicisti

Emidio Clementi: voce, testi, bassi, sintetizzatori - Vittoria Burattini: batteria, percussioni, voce - Stefano Pilia: chitarra, basso, sintetizzatori, registrazioni presso il Blind Sun Crows Studio di Bologna - Egle Sommacal: chitarra, voce  - Marco Caldera: registrazioni presso il Red Carpet Studio di Brescia, il Massimo Volume Home Studio e il Vacuum Studio di Bologna, synth in 02 e 03, sampler in 06 - Massimo Carozzi: field recordings in 10.