Vinicio Capossela
Se “Ovunque proteggi” è stato il
disco della rappresentazione, delle
maschere indossate in concerti-performance dove il palco diveniva prima di
tutto scena, con Da solo – settima
fatica di una carriera quantomai in crescendo – Vinicio Capossela prova una via diversa, non del tutto opposta ma
certamente più sobria, dove l’evocazione non affianca (a volte surclassandola)
la sostanza delle canzoni ma ne diventa strumento e appoggio. La mitologia e
l’invenzione pura lasciano il posto all’ambientazione misurata, che si nutre sì
di immaginario senza però strafare; dunque Capossela non più come un novello
Salgari della canzone o un Jules Verne a spasso per lo spazio e il tempo, e neanche
come un personaggio che gioca le sue magagne alla roulette della fantasmagoria
più accesa, ma un uomo che paga i debiti maturati con sé stesso e con chi gli
sta attorno attraverso una manciata di canzoni nate asciutte sui tasti di un
pianoforte e cresciute con le briglie di un’essenzialità comunque fantasiosa e
multiforme.
Il Gigante e il Mago fa da ponte con il passato nel suo saliscendi
tra solennità da chiesa quacchera e l’incantamento di un teatrino circense,
mentre un organo mighty Wurlitzer unisce il tutto sfiatando legnoso. In clandestinità è Capossela doc,
ballata a fil di lacrima lucidata da glockenspiel, toy piano e fiati gioiosi ma
purtroppo un po’ trasparente. Più fortuna per Parla piano, che concede il bis su tonalità più chiaroscurali, e con
una batteria riverberata a iniettare solitudine verso l’apertura del ritornello
– una delle cose più melodicamente “italiane” che il nostro ha scritto fino ad
oggi. In controcanto, Una giornata
perfetta saltella e fischietta come un Chaplin spensierato prima che tornino
le solite disgrazie e Il paradiso dei
calzini racconta insieme ai giocattoli di Pascal Comelade la solitudine degli spaiati senza compagnia nell’atmosfera
fiabesca di un Rodari in surplus «di napisan o di cloritina».
Giusto a metà, mentre il livello
si mantiene buono ma senza picchi, il capolavoro del disco: Orfani ora, con la sua melodia
cinematica che odora di strade desolate dopo la pioggia e i versi a fare da
nucleo centrale di un disco fino a qui impregnato di abbandono e non meno da
qui in poi, quando lo sguardo di Capossela si sposterà maggiormente sulla
realtà intorno. Succede – dopo la parentesi natalizia da camino e castagne di Sante Nicola – per Vetri appannati d’America, ritratto contemporaneo e decisamente
centrato degli States della cintura biblica, dei centri commerciali immersi nel
nulla e delle taglie oversize elette a primo paradigma sociale. E poi per Lettere di soldati, seconda perla
dell’album in cui una cantilena di piano descrive al meglio la paranoia e la
nostalgia di casa di chi spende tre-quattro anni della sua giovinezza a
presidio di un check-point.
Le tracce rimanenti ricalcano con
una leggera flessione verso il basso le cose buone della prima parte del disco,
tra tinteggiature noir-fantasmatiche (Dall’altra
parte della sera), Spoon River polverose come un romanzo di Cormac McCarthy
(La faccia della terra, coi Calexico) e inni religiosi di inizio
novecento che chiudono “in verticale” confermando una tensione verso l’alto in
filigrana anche nel predecessore (Non c’è
disaccordo nel cielo).
“Da solo” forse non ripeterà i
fasti di “Ovunque proteggi” – e d’altra parte non ne ha la stessa potenza,
preferendo insinuarsi piano piano e intimamente sotto pelle – ma pare segnare finalmente
l’affrancamento totale di Capossela dall’ombra lunga di Tom Waits. Se a ciò
aggiungiamo che il nostro in diciassette anni di musica non ha ancora fatto un
disco non diciamo brutto, ma neanche mediocre, viene difficile anche questa
volta non tributargli, pur senza spellarsi le mani, un meritato applauso.
01. Il Gigante e il Mago
02. In clandestinità
03. Parla piano
04. Una giornata perfetta
05. Il paradiso dei calzini
06. Orfani ora
07. Sante Nicola
08. Vetri appannati d’America
09. Dall’altra parte della sera
10. La faccia della terra
11. Lettere di soldati
12. Non c’è disaccordo nel cielo
Vinicio Capossela:
voce, gran coda, mellotron, piano Tallone ¾ 1970, melodica, chitarra wood-dobro
National, armonio indiano
Alessandro “Asso”
Stefana: chitarra elettrica, lap steel guitar, chitarra fantasma, banjo,
tubular bells, optigan, celesta, autoharp, fischio alle ragazze, marxophone,
cori
Glauco Zuppiroli:
contrabbasso
Zeno De Rossi:
batteria, grancassa, piatti, tamburi
Enrico Gabrielli:
clarinetto, clarinetto piccolo, sax contralto, sax tenore, clarinetto, flauto,
clarinetto basso, Eko tiger organ
Vincenzo Vasi:
glockenspiel, Toy piano, campionamenti, elettronica, fischietto, theremin, cori
JD Foster: campanellini, cori
Cameron Carpenter: mighty Wurlitzer theater organ
Anthony Coleman: mighty Wurlitzer theater organ
Raffaele Kohler:
tromba, flicorno soprano
Frank London:
tromba
Matt Darriau: sax
baritone, saxofono tenore
Enrico Allorto:
basso tuba
Giulio Rosa:
basso tuba, cimbasso
Luciano Macchia:
trombone
Pascal Comelade:
Toy piano, altri strumenti giocattolo
Gianfranco Grisi:
cristallarmonio, concertina
Ursula Knudson:
sega musicale
Fabrice Martinez:
violino
Joey Burns (Calexico):
contrabbasso, chitarra classica
John Convertino
(Calexico): batteria
Martin Wenk
(Calexico): tromba
Jacob Venezuela
(Calexico): tromba
Mario Brunello:
violoncello
Gak Sato: battito
del cuore
Vincenzo “Cinasky”
Costantino: fischio d’inizio su # 4
Edodea Ensemble:
Edoaedo De Angelis:
primo violino
Michelangelo Cagnetta:
secondo violino
Joele Imperial:
viola
Luca De Muro:
violoncello