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Glass Cosmos

Disguise of the species

Quando un gruppo esordisce e per circoscrivere territorialmente la propria musica si presenta come “a cavallo fra new wave, post punk e glam rock”, è chiaro che la curiosità cresce, se non altro per capire come i quattro giovani bergamaschi siano riusciti a mescolare questo background e con quali esiti.
Occorre dire che, sin dalle prime note di Milestone, i Glass Cosmos rimandano nei dettagli ai tre generi sopracitati: ritmica tratta sicuramente dai primi due, chitarre (distorte ma non troppo) e voce che rimandano invece al terzo, che emerge in modo più netto nella successiva Libreville.

A questo punto pare davvero che la band, nelle undici tracce di Disguise of the species, il loro album di debutto, sia davvero riuscita a mescolare queste influenze creando, se non un vero e proprio genere, per lo meno un personale approccio al rock, perché comunque di rock si parla, dando un significato anche al termine “alternative”, che spesso viene abbinato a chi cerca di sviluppare qualcosa di nuovo o di differente. L’aspetto più interessante della musica dei Glass Cosmos è però la capacità, all’interno di uno stile omogeneo, di cambiare non solo le ritmiche, ma soprattutto i timbri degli strumenti, passando da distorsione “controllata” a delay profondi, da suoni sporchi ad altri più puliti ma non meno aggressivi. La sensazione che si prova ad esempio in Last night I killed Godot e nella successiva Shines in its own light è che la band quasi “stia addosso” all’ascoltatore, lo incalzi a volte con un impatto sonoro più globale, altre volte con stilettate più sottili ma non per questo meno ficcanti.

Ed allora anche i brani più soft, o meno hard, a seconda dei punti di vista, non si adagiano mai su tappeti sonori uniformi, ma tendono sempre a spingere in profondità. Di ciò va dato merito anche agli arrangiamenti: batteria e basso molto “anni ‘80”, con qualche non vago richiamo ai Joy Division, chitarre che spaziano fra quel periodo e la decade successiva (con qualche eco dei primissimi U2), voce potente, pulita, mai sforzata, sicuramente in grado, grazie alle doti interpretative, di caratterizzare il sound complessivo.
I break di It won’t be long till down e Chrono o le sonorità di New shores descrivono assai chiaramente la capacità della band nell’articolare brani apparentemente semplici ma dotati, invece, di una struttura a suo modo complessa, in cui le varie parti si richiamano e si incastrano in un mosaico che non manca certo di passaggi affascinanti e visionari. Se la band orobica aveva come obiettivo principale quello di caratterizzare da subito, ed in modo preciso e potente il proprio stile, ebbene questo obiettivo è stato sicuramente raggiunto, perché il lavoro con cui si sono presentati al pubblico è realmente originale ed al suo interno i suoni e le atmosfere sono personali e riconoscibili.

Ora tocca a loro far sì che quest’approccio positivo raggiunga il pubblico più vasto possibile, ed è questa, in realtà, considerati i tempi e la realtà odierna, la vera impresa: le capacità e le doti che traspaiono da questo album lo meriterebbero davvero.

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In dettaglio

  • Produzione artistica: Francesco James Dini
  • Anno: 2014
  • Durata: 44:23
  • Etichetta: Glass Cosmos

Elenco delle tracce

01. Milestone
02. Libreville
03. Last night I killed Godot
04. Shines in its own light
05. It won’t be long till down
06. New shores
07. The Bilderberg club
08. Redemption is a pathway to nihilism
09. O tempora o mores
10. A slim pixie, thin and forlorn
11. Chrono

Brani migliori

  1. Milestone
  2. Last night I killed Godot
  3. It won’t be long till down

Musicisti

Frankie Bianchi: vocals  -  Florian Hoxha: guitar  -  Shamble Arciprete: bass, back vocals  -  Matteo Belloli: drums