Orchestra Bailam e Compagnia di Canto Trallalero
Ognuno ha dentro di sé la propria Istanbul. Prendete Franco Battiato, per lui è la “sorella” di Venezia (“Venezia mi ricorda istintivamente Istanbul/ stessi palazzi addosso al mare” in Venezia-Istanbul). Per Franco Minelli dell’Orchesta Bailam, invece, Istanbul è “gemella” dell’altra Repubblica Marinara: Genova.
Galata è un quartiere situato nella città vecchia dell’ex capitale dell’Impero ottomano; un quartiere abitato dai genovesi dopo la quarta crociata e dove si può tuttora ammirare la Torre di Cristo da loro eretta.
Percorrere quelle stradine che si inerpicano a ridosso del Corno d’Oro fa ancora oggi pensare alle creuze e ai caruggi genovesi.
Proprio questo cortocircuito culturale ha portato l’Orchestra Bailam – dopo lo splendido Lengua serpentina di Roberta Alloisio (esordio della brava cantautrice ligure nel 2007) – a intrecciare nuovamente i suoni mediorientali con la lingua genovese. Ne è uscito questo splendido Galata.
Sgombriamo subito il campo da equivoci: quando si parla di Medioriente e di ‘lingua’ genovese scatta una sorta di riflesso incondizionato che ci porta immediatamente a pensare a Creuza de mä, il capostipite per antonomasia del genere. Nulla di più sbagliato, perché l’intento della Bailam è ben diverso. Se quello del duo De André-Pagani era un progetto che potremo definire culturale-alto, qui invece assistiamo a un recupero di tutto ciò che è popolare-basso.
E, va da sé, tale definizione non è certo un giudizio di valore. L’intento, più o meno dichiarato, di Franco Minelli (coadiuvato da Edmondo Romano) e dei suoi soci è quello cioè di ridare vita a tutta una tradizione popolare folklorica che sta scomparendo. Si prenda, a mo’ di esempio il dialetto genovese: quanto De André crea una lingua poetica e per certi aspetti inventata (altro che recupero in chiave arcaica, come troppe volte è stato scritto), tanto qui invece la lingua è davvero quella del popolo, con il recupero anche di modi di dire tradizionali (“Son zeneize rizo raeo/ strenzo i denti e parlo ciaeo”).
O, ancora e sempre come esempio, se in Creuza de mä l’organo genitale femminile di Jamin-a assurgeva a luogo simbolico, una sorta di porto-ricompensa dato ai marinai per i pericoli scampati in mare, qui la Patunn-a è solo sesso senza troppe sovrastrutture allegoriche, un canto tanto liberatorio quanto goliardico. In quest’ottica deve essere quindi visto il coinvolgimento della Compagnia di Canto Trallalero (Matteo Merli, Paolo Sobrero e Alberto Bergamini): il recupero e il tentativo di ridare fiato e vita alla tradizione del più tipico canto polifonico genovese (basti qui accennare al fatto che se Genova negli anni Settanta ospitava ben 90 compagnie di canto trallalero oggi tali compagnie si sono ridotte a 5, un vero e proprio genocidio culturale!).
Risultato ottenuto in pieno ci verrebbe da dire, se è vero che le punte musicalmente più alte dell’album si raggiungono proprio quando il complesso mondo musicale della Bailam va a integrarsi perfettamente con quello del trallalero (pensiamo, per esempio, alla splendida title track).
Da un punto di vista contenutistico il disco, invece, è pervaso da una sorta di malinconia, come se davvero il quartiere di Galata fosse l’emblema di una Genova che oggi non c’è più; si ha come la sensazione di avvertire un tenue e continuo lamento per un qualcosa di inesorabilmente perduto. Chiaro che poi tale malinconia del perduto trovi – come nella migliore tradizione popolare – correlativo oggettivo nelle figure di persone e amori smarriti, vittime di sortilegi ed incanti (Sperlengheuia, Barba Tomaxin).
Così Galata diventa anche la descrizione della più varia e ricca umanità, con marinai distrutti dalla fatica, innamorati disperati, ladri, prostitute. Di fronte al dolore e alla sofferenza, l’unica salvezza è rappresentata dall’ingenuità della fanciullezza che deve essere preservata dalle forze oscure del Male (che poi altro non sono che i normali accadimenti della vita adulta), fosse anche solo con una tenue ninna nanna (Pupun de pessa).
E d’altronde il dondolio di una culla non ricorda forse il dolce rollio della nave in mare aperto… “Malinconia ch’a t’ingheugge ch’a te/ piggia con l’ê ch’a te porta via/ Allamâ feua a mâ/ A naegâ inderrê finn-a respiâ/ quell’odô de giasemin/ riadescia o suspio/ de ûn dôce mae recordo/ mai scordou e in sciç scoso seu” (“Malinconia che ti avvolge che ti/ prende e ti porta via/ al largo fuori a mare/ a navigare indietro e poi ancora/ più indietro fino a respirare/ quell’odore di gelsomino/ e risveglia il sospiro di un dolce ricordo/ mai scordato e sul suo grembo”).
01 Bestente
02 A patunn-a
03 Primmaveia
04 A mae moae
05 Galata
06 De sotto a mae angiôu
07 Sperlengheuia
08 Barba Tumaxin
09 Rizo raeo
10 Pupun de pessa
11 Erzurum
12 Ninnâ dindanâ
13 A paisann-a/ I drappi
Franco Minelli: chitarre, bouzouky 6 e 8 corde, baglamas, oud, voce - Luciano Ventriglia: batteria, derbouka, voce - Edmondo Romano: sax soprano & contralto, clarinetto, flauti, cornamusa - Tommaso Rolando: contrabbasso - Luca Montagliani: fisarmonica - Roberto Piga: violino - Matteo Merli: voce - Paolo Sobrero: voce - Alberto Bergamini: voce